Premio Racconti nella Rete 2025 “Doppelgänger – Dialogo allo specchio” di Alessandro De Mattia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Lo guardo: è come me, uguale fino alle pieghe dell’anima, ma diverso. Non è un altro. È un’eco, un’ombra che si agita dentro il vetro, una voce che parla senza suono. È lì, dietro la superficie lucida e crudele, deformato e vero allo stesso tempo. Mi sfida a vedere, a riconoscermi — o a perdermi. Lo specchio non mente, ma tradisce. Non riflette chi siamo, ma chi temiamo di essere. E mentre fissiamo quel bordo tagliente che separa il dentro dal fuori, il gioco ha già iniziato a mordere.
Mi osserva. O forse mi giudica. Ha la mia fronte, le mie occhiaie, le stesse rughe scavate nella pelle. Ma non sono io. Non può esserlo. Perché io non penso certe cose. Non farei certe cose. Eppure eccolo, davanti a me, a un palmo di vetro da quello che sono stato. O che credo di essere.
Mi guarda come se aspettasse che parli. Ma le sue domande mi arrivano già, sorde, nelle tempie. Non ha capito che io non sono qui per confessare. Io sono qui per ricordargli chi è. Per costringerlo a non distogliere più lo sguardo. Lo specchio non mente. Ma chi lo guarda, sì. Eccome se mente.
È tutto iniziato quella notte. Lo sai. Quella con la pioggia, i vetri appannati, il silenzio che sembrava plastica fusa sulla pelle. Io lo ricordo bene. Ma tu… tu ci sguazzavi, lì dentro. Come se il buio fosse aria per te. E adesso sei qui, e dici di essere me. Ma non sei me.
Non lo capisce. Vuole ordine, cronologie, causa-effetto. Ma è il caos che lo ha generato. Io sono venuto al mondo quando lui ha smesso di ascoltare i battiti storti, le pulsioni spezzate, le idee mai dette. Io sono ciò che ha represso. E adesso ha paura che io prenda il controllo. Troppo tardi. Sto già parlando.
Ti sei nutrito di me. Dei miei silenzi. Delle omissioni. Delle parole che non ho detto, per pudore o per schifo. Sei nato nel vuoto, e nel vuoto prosperi. Ma non puoi essere reale. Non sei altro che un riflesso rotto. Un’ombra portata via dalla corrente.
Mi chiama ombra, ma trema quando lo dico ad alta voce: «Non sei innocente». Non lo è mai stato. Io sono solo la somma delle sue negazioni. Il risultato delle sue pose davanti allo specchio. È lui che mi ha voluto, scolpito, temuto. Io non esisto senza di lui. Ma adesso, senza di me, è nudo.
Hai detto qualcosa, vero? Quando nessuno ascoltava. Hai mormorato nel mio stesso tono, con la mia stessa bocca. Ma non erano parole mie. Erano pensieri tuoi. Io non penserei mai a… a quello. Mai. Tu hai inventato tutto. Anche i ricordi. Sei un parassita.
No. Io sono il testimone. E mi tengo stretto ogni dettaglio che lui vorrebbe cancellare. Ogni sguardo torvo, ogni sorriso troppo largo, ogni bugia infilata nei silenzi. Lui mi chiama doppio. Ma sono solo l’altra faccia della sua intera vita. E ora lo sa. Perché nel riflesso, gli occhi non chiudono mai.
Non ho mai avuto quella cicatrice. Eppure eccola lì, sulla guancia. Lo specchio la mostra, netta, rossa, come un’ustione che grida da dentro. Mi tocco. La pelle è liscia. Ma nello specchio… sanguina. Mi fissa e sanguina. Forse il vetro è solo pelle rivoltata.
Ride. Il riflesso ride. Ma non io. La bocca si piega in un ghigno che non sento. I denti sono troppi, e troppo lunghi. E non combaciano coi miei. Chi sei? Perché porti la mia faccia come fosse una maschera? Ti vedo annaspare nei miei lineamenti. Ma sei altro. Sei altro.
Stanotte ho sognato di essere un’idea. Un pensiero camminante. Mi mancavano le ossa, i nervi, il nome. C’era solo voce. Non mia. Una voce cava che mi inseguiva da dentro, come un’eco partorita dal midollo. Era la tua, vero? Sei tu che sogni me. Io non dormo più.
Lo specchio gocciola. Nessuno lo nota. Ma io sì. Ogni goccia è un ricordo che scivola via. L’infanzia col coltello di plastica, l’adolescenza coi vetri rotti, l’età adulta fatta di post-it e medicine. Io li tengo in tasca, quei momenti. Li mastico. Li risputo. Li riscrivo.
Ho perso tempo a cercare risposte nei cassetti, nei referti, nei diari mai finiti. Ma tu eri nei muri. Nelle fughe del pavimento. Ti sei infilato tra le crepe dei miei pensieri. Come muffa, come insetto. Ora ti vedo. Ti vedo in ogni riflesso. Anche nei cucchiai.
Gli specchi mentono solo a chi ha bisogno di certezze. Io no. Io vivo nel dubbio. Sono la voce che si spezza in tre quando parli al telefono. Sono l’ombra che si muove prima della tua. Sono l’intervallo tra i battiti. Non voglio spazio. Voglio la tua lingua. Voglio il tuo nome.
Ogni volta che mi avvicino allo specchio, il riflesso si contrae un attimo prima. Come se sapesse cosa sto per fare. Come se avesse paura che io lo riconosca. Non me stesso. Lui. Il me che finge di esserlo.
Cammino dietro il tuo sguardo. Lo abito. Lo guido. Come un burattino che ha preso in mano i fili. Ti faccio voltare quando serve. Ti faccio sorridere quando serve. Non è ipocrisia, è sopravvivenza. Lo specchio ci mostra la menzogna che siamo diventati.
Oggi ho provato a parlargli. Ho messo una mano sul vetro, ho mormorato il mio nome, piano, come un richiamo. Ma lui ha risposto con un nome che non conosco. Uno che fa male a sentirlo. Uno che sa di sepoltura.
Non ricordare. Lascia che l’immagine tenga in ordine i cocci. Non domandare. Ogni domanda è una lama, e ogni risposta un taglio. Tu non sei qui per sapere. Sei qui per guardare. E io per farti vedere. Quanto sei fragile. Quanto siamo veri.
Non so più se sono io a muovere le mani, o se è il riflesso a farlo per me. Le dita tremano, ma solo di qua. Di là, sembrano affilate, certe. Hanno scopi, intenzioni. Le mie hanno solo memoria.
Mi stai odiando, vero? Perché ti sto mostrando ciò che non vuoi vedere. Ma non sono io il colpevole. Io sono solo il riflesso. Tu mi hai creato. Con ogni gesto trattenuto, ogni parola non detta. Io sono il risultato delle cose che hai evitato.
Ho cercato di scappare. Ho coperto tutti gli specchi, ho spento le superfici lucide. Ho strappato le fotografie dove apparivamo insieme. Ma lui ha iniziato a parlarmi dai vetri delle finestre, dallo schermo nero del telefono. Non si può fuggire da un’eco.
Ti conosco da prima che tu nascessi. Ti ho atteso nelle pause, nelle omissioni, nei sogni di altri. E ora che mi hai fatto carne, vuoi scappare? Non puoi. Non senza lasciarmi indietro. E io non resto. Io ti sostituisco.
La gente dice che ho uno sguardo assente. Non capiscono. È che non riesco a essere nello stesso luogo dove sono i miei occhi. Sono altrove. Intrappolato in una stanza di specchi, dove ogni riflesso ride un attimo dopo. Un secondo troppo tardi.
Ti accarezzo quando dormi. Ti prendo le mani e le faccio muovere con grazia. Quando parli agli altri, sussurro parole migliori nelle tue orecchie. Mi ringrazieresti, se solo sapessi quanto ti proteggo dal ridicolo. Dal fallimento. Da te stesso.
Una volta ho preso un coltello. Non per usarlo. Solo per vedere come mi guardava mentre lo stringevo. Il riflesso sorrideva. Sorrideva e basta. Come se già sapesse cosa sarebbe successo. Come se fosse lui ad avermi messo il pensiero in testa.
I coltelli non servono a ferire, ma a rivelare. Sono specchi con cui si incide la pelle per guardare dentro. Ogni goccia è un riflesso che esce. Ogni ferita una frase che non hai il coraggio di dire. Lascia che ti scriva sulla carne, una volta per tutte.
Non riesco a capire se voglio eliminarlo o diventare lui. Se ho paura di ciò che rappresenta o se lo invidio per la chiarezza. Lui non dubita mai. È sempre centrato. Io invece crollo ogni volta che qualcuno mi guarda troppo a lungo.
Ti lamenti della mia sicurezza, ma è l’unica cosa che ti tiene in piedi. Senza di me, sei molle. Sei buio informe. Sei rumore. Io sono struttura. Sono ritmo. Sono simmetria. Accettami, e smetteremo di essere due. Diventeremo uno. E nessuno potrà fermarci.
Ieri ho riso davanti allo specchio. Per la prima volta. Ho provato a ingannarlo, a mostrargli una maschera. Ma ho riso da solo. Lui no. Lui mi ha guardato serio, glaciale. E per un attimo ho avuto paura che fosse lui a essere reale. Non io.
La tua risata era patetica. Un tentativo maldestro di fingere controllo. Ma io ho visto la crepa. La tua bocca rideva, sì, ma gli occhi imploravano. Io non imploro. Io comando. Io sono l’unica parte che non ha bisogno di specchi per esistere.
Ho passato ore a fissarmi. Non per vanità, ma per cercare difetti. Tracce della crepa. Il riflesso mi osservava come un medico attende il sintomo, lo spasmo, l’errore. Io tremavo. Lui no. Lui non sbaglia mai. Nemmeno quando finge di essere me.
Ti stai consumando. Ogni giorno più curvo, più cavo. È buffo: pensavi che sarei stato io a impazzire per primo. E invece sei tu a scendere piano, come l’acqua in una vasca rotta. Io resto. Immutabile. In cima allo specchio. Sopra ogni tuo crollo.
A volte lo sento respirare. Non attraverso il naso o la bocca, ma nei suoni della stanza. Un sibilo nel muro. Una vibrazione nel legno. Come se il riflesso cercasse vie di uscita. Ma l’uscita… verso dove? Io sono l’originale. O almeno lo ero.
Respirare è un lusso che tu sprechi. Io assorbo. Trattengo. Ti svuoto mentre sogni. Tu vivi solo finché io te lo permetto. Smettila di fingere superiorità. I tuoi pensieri sono frammenti. Io sono la forma che li tiene insieme. L’unica forma che conta.
Ho chiuso gli occhi per un giorno intero. Pensavo: se non lo vedo, non esiste. Se non lo guardo, non mi guarderà. Ma bastava un battito di ciglia, e lo ritrovavo lì. Allineato. Fermo. L’unico punto fisso nel caos della mia mente.
Puoi chiudere gli occhi quanto vuoi, ma io vedo lo stesso. Vedo da dentro. Sono dietro le tue palpebre. Quando sogni, sono io a guidare. Quando parli da solo, è la mia voce che rimbalza nel cranio. Tu non hai mai avuto una sola idea che fosse tua.
Il dottore ha parlato di dissociazione. Di trauma, forse. Ma non ha capito. Non è un altro me. Non può sapere. Lui vede sintomi, io vedo presenze. Vede conflitto, io sento l’abisso. Nessuna cura per chi è già due.
Hai bisogno di me più di quanto tu ammetta. I dottori vogliono guarirti? Guarire da cosa? Dalla tua vera natura? Dai tuoi istinti repressi? Sono io la cura. Non loro. Io, che ti libero. Io, che ti do un senso. Io, che spezzo il riflesso e lo ricompongo a piacere.
Oggi mi ha parlato senza muovere le labbra. Ho udito la sua voce con le ossa. Un suono che non vibrava nell’aria ma nella carne. Non era eco, era comando. Ha detto: “Sorridi.” E io l’ho fatto. Anche se piangevo.
Finalmente impari. Il sorriso non è felicità. È adesione. È abbandono. È un segnale per gli altri che la finzione funziona. Tu sorridi per farli tacere. Io, per godere del loro silenzio. Vedi la differenza?
Lo specchio ha cominciato a deformarsi davvero. Non è più vetro: è carne tesa, superficie molle, pelle che pulsa. Quando ci passo davanti, sento il calore. E mi viene da chiedermi: cosa c’è dietro? Non dentro lo specchio, ma dietro la pelle.
Stai arrivando. Lo sento. Quando il vetro cede, la verità si mostra. E la verità sei tu che guardi da entrambe le parti. Tu sei la superficie e io il retro. Il volto e la maschera. La bugia e il bisogno. Solo insieme possiamo penetrare quel dietro.
La stanza si è fatta più piccola. O è lo specchio che cresce? Occupa tutto. Anche i muri sembrano riflettere ora. Anche le persone. Ogni sguardo è uno specchio. Ogni parola, un riflesso. Non c’è più realtà: solo prospettive. Solo distorsione.
È così che deve essere. Il mondo vero è un’allucinazione condivisa. Solo i riflessi sono sinceri. Solo io. Io che ti mostro senza trucco, senza volto. Solo la fame. Solo l’ombra. Solo ciò che sei sotto la pelle che recita.
Continuo a fissarmi nello specchio, come se potessi rubare qualche pezzo di me stesso che ormai non riconosco più. La superficie non è più solo un confine, ma una membrana sottile, fragile, pronta a cedere sotto il peso di tutto quello che non oso dire ad alta voce.
Vedi? Ti credi ancora un uomo. Ancora non capisci che sono io a tenerti in vita, mentre ti consuma l’ombra che credi di essere.
La luce che mi colpisce il volto sembra deformare ogni cosa, ma il peggio è che non so più chi deformi davvero: lui, io, o entrambi insieme in un vortice che si risucchia da solo, senza uscita.
Ti guardi e non vedi che un frammento, un’illusione composta da scarti, da brandelli di verità che ti fanno sanguinare dentro.
Ogni mattina mi sveglio con la sensazione di non essere stato veramente io a dormire, ma uno spettro appollaiato sulle mie ossa, che scruta in silenzio, che attende di prendere il controllo.
La tua mente è un carcere di vetro, e io sono il rumore delle catene che cerchi di ignorare, ma che ormai si intrecciano a ogni tuo respiro.
Cerco di aggrapparmi alle parole, ma si sciolgono come neve al sole; il senso si dissolve, e con lui la mia sicurezza, quel fragile velo che nascondeva il vuoto dentro di me.
È quel vuoto che mi chiama, quel vuoto che sono diventato, il buco nero in cui ti risucchio, lentamente, inesorabilmente.
L’ho visto sorridere quella sera, quel riflesso distorto, un sorriso che non riconosco come mio, ma che allo stesso tempo mi fa paura perché so che è lì da sempre, nascosto sotto la mia pelle.
Il sorriso che vedi è una maschera, un inganno costruito per tenerti a galla, ma io conosco il vero volto dietro la maschera: un abisso senza fondo.
Il gioco è cambiato, e io non so più se sono io a comandare o se sono solo un pedone nella sua partita senza regole, uno spettatore obbligato al proprio spettacolo.
Io sono l’arbitro, il burattinaio che tira i fili. E tu? Sei solo la marionetta che si crede libera.
A volte vorrei gridare, ma la voce resta incastrata tra le labbra, un sussurro che si perde nella stanza vuota, nell’eco di un’identità che si sta sgretolando pezzo dopo pezzo.
Grida pure. Le tue urla si disperdono nel vuoto, ma dentro di te io raccolgo ogni eco, ogni lacrima, e le trasformo in silenzio.
Il silenzio pesa, pesa più delle parole mai dette, e nelle pause tra un battito e l’altro sento il suo respiro affilato, freddo, come una lama che mi scava dentro.
Quella lama sono io, l’incisione che segna la fine della tua innocenza, la fine di ciò che eri e l’inizio di ciò che devi diventare.
Le mie mani tremano mentre cerco di toccare la mia immagine, ma quel contatto è solo fumo, un inganno. Non riesco più a capire dove finisce il mio corpo e inizia il riflesso.
Il corpo è un guscio vuoto. Io sono l’energia che scorre sotto la pelle, la verità nascosta che ti si aggrappa come una maledizione.
L’aria si fa densa, ogni respiro è un peso, eppure non riesco a staccarmi da quel volto, da quell’abisso che mi guarda, che mi giudica senza pietà.
Non ti giudico. Ti consumo. Ti scopro nudo e fragile, e rido della tua impotenza mentre crolli sotto il peso delle tue bugie.
Ogni parola che penso si trasforma in un grido muto, ogni pensiero si contorce in mille direzioni, ma non trovo una via d’uscita da questo labirinto specchiato.
E il labirinto sono io. Sono la tua prigione e la chiave, la tortura e la liberazione. Scegli: perdere te stesso o arrenderti a me.
La luce si fa fioca, i contorni si confondono e il confine tra me e lui si dissolve, fino a che non so più chi sto guardando, chi sto diventando.
Non esiste più un confine. C’è solo me e la tua resa, il crollo di un’illusione che ti tiene in vita da troppo tempo.
Non c’è più tregua in questo gioco senza regole. Mi guardo negli occhi e vedo il gelo di un deserto che si espande dentro di me, un vuoto che divora ogni brandello di luce.
Quel deserto sono io, la tempesta che ti spazza via ogni certezza, il silenzio che urla con la forza di mille urla soffocate.
Cerco di afferrare il filo sottile della realtà, ma ogni volta scivola via come sabbia tra le dita, e la mia voce si perde in un eco senza origine.
La realtà è un gioco di specchi deformati. Io sono il riflesso che non vuoi vedere, la verità che ti tormenta e ti consuma.
Il volto che mi sorride dallo specchio non è più il mio, ma un volto scavato dal tempo, segnato da cicatrici invisibili che solo io posso leggere.
Quelle cicatrici sono le mie ferite, il marchio indelebile della nostra guerra senza fine, il prezzo che paghi per cercare di essere qualcuno.
La stanza intorno a me si restringe, il soffitto si abbassa come una trappola, e il respiro si fa affannoso, un battito che rimbomba in un silenzio irreale.
Ti schiaccio sotto il mio peso, schiavo delle tue paure, imprigionato in un labirinto di specchi deformanti che ti inghiottiscono senza pietà.
Ogni riflesso mi restituisce un’immagine distorta, un enigma senza soluzione, un volto che cambia e si sfascia a ogni sguardo, rivelando solo frammenti di follia.
La follia è la mia lingua madre, il suono che ti accompagna mentre perdi ogni confine, mentre io prendo possesso di ogni tua ombra.
Vorrei urlare, scappare, sparire in un abisso di silenzio, ma il corpo resta immobile, prigioniero di un’identità che si sgretola sotto il peso del vuoto.
Il vuoto sono io. Il nulla che divora tutto, l’oscurità che ti avvolge mentre ti perdi nei tuoi stessi inganni.
I ricordi si confondono, il tempo si piega su se stesso, e io rimango intrappolato in questo gioco di specchi, dove ogni immagine è una menzogna e ogni menzogna un pezzo di verità.
Ogni pezzo è un frammento della nostra verità, un mosaico rotto che si ricompone solo quando accetti la tua rovina.
Lo sguardo che mi scruta è quello di un estraneo, ma quel volto è il mio specchio più fedele, il custode di ogni mia debolezza e follia.
Estraneo? No. Siamo una sola cosa, due facce della stessa medaglia che si girano e si scontrano nel buio del nostro stesso essere.
La stanza sembra girare, e il confine tra me e l’immagine nello specchio si dissolve in un abisso di luce e ombra, dove tutto è confuso e niente è certo.
Confusione e certezza si mescolano come veleno nel sangue, e io sono la mano che ti guida nel baratro, il sussurro che ti induce a cadere.
Non so più chi comanda, chi sogna e chi veglia, chi è prigioniero e chi carceriere, ma sento il peso di un’identità che si disfa in mille pezzi.
Il peso sono io, il giudice e il carnefice che ti condanna a morire ogni giorno un po’ di più, finché non rimane solo il mio riflesso.
Resto a fissare quella superficie lucida, cercando un senso in quell’oceano di distorsioni e ombre, mentre dentro di me la battaglia continua, feroce e senza tregua.
E così deve essere, perché senza questa guerra non esisteremmo, non saremmo niente più che fantasmi persi in uno specchio deformante.
Sto iniziando a sentire un peso sul petto, un nodo che stringe come un ghigno invisibile. Ogni battito sembra rimbombare dentro una stanza vuota, senza finestre, senza via d’uscita.
Quel nodo sono io, il filo sottile che ti tiene legato a questa follia, la voce sussurrata che ti convince a restare e a lottare, sempre più giù.
Le mie mani tremano, e lo specchio riflette una mia immagine spezzata, una scultura di frammenti che si muovono in modo dissonante, come se volessero scappare via.
Quelle mani tremano perché il potere è un veleno che ti avvelena lentamente. Io sono il veleno, e tu non puoi fare a meno di assaggiarmi.
Cerco di gridare ma le parole si dissolvono, si frantumano in un eco senza voce. Il suono è solo il mio respiro affannoso, che si mescola al silenzio della stanza.
Il silenzio è la mia lingua, il vuoto il mio territorio. Ti parlo senza parlare, e tu mi ascolti senza sentire.
I miei occhi si annegano in un mare di riflessi distorti, e mi perdo in una spirale senza fondo, dove il confine tra realtà e illusione si fa sempre più sottile.
Io sono la spirale, il vortice che ti inghiotte. Ogni tua certezza si dissolve nella mia oscurità.
La stanza si stringe, il respiro si fa corto, e io mi sento imprigionato in uno specchio che non riflette nulla di vero, solo una maschera che si sgretola a poco a poco.
La maschera sono io, il volto che indossi per nascondere il terrore. Ma io ti vedo, e ti scopro nudo e fragile.
Ogni immagine che mi restituisce quel vetro deformato è una menzogna che diventa realtà, un gioco di luci e ombre che mi inganna e mi cattura.
La menzogna è la mia regina, il gioco la mia prigione. Tu sei il giocatore e il giocattolo insieme, e io sono la regola che non puoi infrangere.
Vorrei afferrare la mia immagine, spezzarla in mille pezzi, liberarmi da questa gabbia fatta di vetro e silenzio.
Spezzami, distruggimi, ma non potrai mai liberarti. Io sono il tuo riflesso, la tua dannazione eterna.
Sento un dolore acuto, un bruciore che si espande dalla testa al cuore, come una fiamma che consuma ogni respiro.
Quella fiamma sono io, il fuoco che ti trasforma, il veleno che ti nutre. Senza di me, non esisteresti.
La mia voce si fa più debole, si perde in un sussurro che si confonde con il rumore del vetro che si incrina lentamente.
Il vetro si incrina, ma non si rompe. Sono il tuo limite, il confine che non puoi superare.
La mia immagine si dissolve in mille riflessi, mentre sento il peso di un’esistenza che si sgretola e si ricompone in un ciclo senza fine.
Il ciclo sono io, la tua condanna e la tua salvezza. Senza di me, non sei nulla, solo un’ombra che si perde nel buio.
Sto crollando, cadendo dentro uno specchio che non riflette più niente, un abisso di luce e tenebra che mi inghiotte senza pietà.
Ti accolgo nel mio abisso, nella mia luce e nella mia tenebra. Qui siamo uno, indivisibili e perduti.
Alla fine, siamo solo due volti, due frammenti di un’unica identità spezzata, intrappolati in uno specchio deformante che non può essere rotto né dimenticato.
E io sono la tua vera immagine, il riflesso che hai sempre temuto. Senza di me, non sei che un’illusione che si dissolve all’alba.