Premio Racconti nella Rete 2025 “Inchiostro rosso sangue” di Anita Fiori
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Era una notte particolarmente calda, ma nonostante questo non riuscivo a togliermi quella sensazione di gelo che mi aveva accompagnata tutta la serata. Li sentivo già quegli occhi che mi fissavano, quelle mani che mi laceravano i vestiti…solo che non li avevo ancora visti. Con un gesto involontario mi strinsi la felpa e accelerai il passo. La strada era deserta: mi voltai più volte per assicurarmi che nessuno mi seguisse, senza trovare mai nessuno. E allora perché quella sensazione?
Penso che le donne abbiano una specie di sesto senso per questo. Camminando, raggiunsi finalmente la via di casa mia: era buia, i lampioni si erano fulminati settimane prima. Impugnai le chiavi con una presa più salda nella mano, e con l’altra tirai fuori lo spray al peperoncino. Proprio quando stavo per inserire le chiavi nella toppa sentii un rumore, ma era solo un topo. Con il cuore che minacciava di fuoriuscirmi dal petto girai velocemente la chiave nella toppa, chiudendomi la porta alle spalle. Tirai un sospiro di sollievo e lasciai cadere a terra la borsa: l’avrei raccolta dopo. Ma il dopo non arrivò mai:proprio mentre accendevo la luce del salone sentii un rumore provenire dalla cucina. Mi si gelò il sangue: presi molto lentamente un vaso, credendo ingenuamente che potesse servire a qualcosa. Oggi, ripensandoci, sarei potuta semplicemente scappare…Entrai in cucina in silenzio, accendendo la luce: al centro della stanza c’era un uomo, un uomo alto e muscoloso, con una folta barba. Non feci nemmeno in tempo a gridare che l’uomo mi si avventò contro, facendomi battere la testa sul piano cottura.Sentii un sapore metallico in bocca, le sue mani intorno al mio corpo, la vista che si annebbiava, e poi… poi buio. Il buio, era il buio quello che continuai a vedere anche dopo essermi svegliata.
Non vedevo nulla; la mia bocca era tappata con un panno, le braccia erano legate dietro la schiena e le gambe tra di loro con una corda. La gola mi bruciava e l’unica cosa che poteva darmi un’idea di dove fossi era il contatto tra il mio viso e una superficie fredda, metallica. Sbattei numerose volte contro il pavimento, senza poter attutire i colpi: ero in un camion. Cercai di gridare e di liberarmi con tutte le mie forze, ma invano: il panno e le corde erano troppo strette. Impotente, non potendo vedere, muovermi o parlare, mi misi a piangere. Sentii le lacrime che mi colavano lungo il viso ed il mio corpo era scosso da singhiozzi silenziosi; il camion prese un’altra buca e sbattei la testa di nuovo. Percepivo le palpebre diventare sempre più pesanti, e il mio corpo sempre più stanco e, senza accorgermene né volerlo, mi addormentai. Mi risvegliai solo quando la porta di quello che supponevo fosse un camion si aprì violentemente, causando un frastuono terribile. Mi sentii afferrare da grosse mani mascoline e venni messa su una spalla; cercai di dimenarmi in tutti i modi, ma le mani mascoline e le corde me lo impedivano. Dopo quella che sembrò un’eternità, l’uomo mi depositò a terra, dove mi liberò gambe e braccia e mi tolse il panno dalla bocca e dagli occhi. Finalmente potevo vedere: ero in una stanza buia e umida, probabilmente un garage, e faceva freddo. Poi mi concentrai sull’ uomo: era lì davanti a me, che mi fissava con un sorrisetto maligno da sotto la sua orribile e folta barba. Senza dire una parola, l’uomo uscì dal garage, lasciandomi sola. Avevo sempre visto il mondo con i paraocchi, concentrandomi sempre sulle cose belle, e poi, un bel giorno, mi sono ritrovata in un garage, sola e senza alcun modo per difendermi. Non so quanto tempo passò prima che l’uomo tornasse con un misero panino e un bicchiere d’acqua, ma mi sembrarono ore.
L’uomo uscì di nuovo, stavolta dicendo una singola frase, di spalle: <<non provarci neanche a scappare, sappiamo entrambi che non ce la farai>>. Quella frase mi fece ribollire il sangue, la sua voce mi irritò più di ogni altra voce che avessi mai sentito, perché sapevo anch’io che non sarei mai uscita di lì. Ma si sa, la speranza è l’ultima a morire, e in quel momento la speranza era l’unica cosa a cui potevo aggrapparmi. Mi alzai lentamente, camminando per il garage in cerca di qualcosa: c’erano 2 mobiletti, ma erano vuoti; ne alzai uno per vedere se c’era qualcosa sotto, ma non trovai nulla. Alzai l’altro e vidi qualcosa: strizzai gli occhi per vedere meglio nella penombra ed eccolo lì, un cacciavite che probabilmente l’uomo aveva dimenticato. Me lo misi sotto il reggiseno, dato che la mia gonna non aveva tasche. Successivamente mi avvicinai alla porta: era una porta vecchia, con una serratura debole e arrugginita, ed era chiusa a chiave. Probabilmente, se avessi impresso abbastanza forza con il cacciavite sulla serratura, sarei potuta uscire di lì. Ma avrei dovuto agire in un secondo momento: prima avrei dovuto far credere all’uomo che ero davvero completamente indifesa e senza via di fuga. Ed in parte era vero: ero davvero indifesa, e non avevo idea di come uscire da quel garage. Avrei potuto forzare la serratura, oppure avrei potuto provare ad aggredire l’uomo…no, mi dissi, quell’uomo era un colosso, non sarei mai riuscita a batterlo in uno scontro. Forse avrei potuto…i miei pensieri furono interrotti dal brontolio del mio stomaco: erano ore che non toccavo cibo. Con un sospiro mi avvicinai al panino, lo annusai e lo addentai: mangiai quel panino come se non avessi mangiato da giorni.
Non toccai l’acqua però, perché sospettavo che potesse esserci qualche tipo di droga. Ovviamente anche il panino avrebbe potuto contenere droga, ma la fame aveva prevalso. Poco dopo l’uomo entrò, e, notando il bicchiere ancora pieno, lo prese in mano, mi afferrò con forza per il collo e mi costrinse a bere. Cercai di sottrarmi alla sua presa con tutte le mie forze, ma invano.Sentii l’acqua scendermi lungo la gola e, non potendola sputare, la ingoiai. Guardai l’uomo diritto negli occhi: lui mi guardò di rimando e, senza dire una parola, mi tirò uno schiaffo e uscì dal garage, chiudendo a chiave la porta. Sentii la guancia bruciarmi e le lacrime che minacciavano di uscirmi dagli occhi.”Che idiota” pensai, “avrei dovuto rovesciare l’acqua”. Quello, da quel che ricordo, fu l’ultimo pensiero che ebbi da lucida; mi sentii le ossa sempre più pesanti e le palpebre non riuscivano a restare aperte. Senza accorgermene mi addormentai, stendendomi sul freddo pavimento del garage. Quando finalmente mi svegliai avevo un forte mal di testa e sentivo molto freddo; mi tastai la guancia che aveva ricevuto lo schiaffo: era gonfia. Con gli occhi ancora semichiusi cercai a tastoni la felpa sul pavimento e, non riuscendo a trovarla, fui costretta ad aprire completamente gli occhi: la felpa era sparita, e con lei la mia gonna e la mia maglietta. Addosso non avevo altro che la biancheria, e il cacciavite, la mia unica speranza, era sparito. Iniziai a tremare violentemente: mi sdraiai a terra e piansi, piansi per ore.
Ero terrorizzata, seminuda e completamente indifesa; cosa mi avrebbe fatto quel mostro?Improvvisamente la porta si aprì, producendo uno scricchiolio inquietante.Io ero ancora stesa a terra; mi asciugai la lacrime e provai ad alzarmi ma non ebbi il tempo: l’uomo era già sopra di me e mi strappava la biancheria iniziando a mettermi le mani su tutto il corpo. Urlai, urlai come non avevo mai fatto, ma le urla non bastarono a fermarlo. Quando ebbe finito uscì dal garage in silenzio: un sorrisetto crudele gli affiorava sulle labbra. Rimasi a terra inerme, scossa dai singhiozzi. “Morirò qui” mi dissi “morirò qui e nessuno se ne accorgerà”. La porta del garage si aprì di nuovo ed iniziai a gridare, ma l’uomo non entrò: lanciò all’interno del garage una busta e richiuse la porta. Mi avvicinai lentamente alla busta e la aprii: all’interno c’erano i miei vestiti, del cibo e un bicchiere d’acqua chiuso con un tappo. Mi vestii velocemente, sollevata dal fatto di avere qualcosa addosso.
Non toccai né il cibo né l’acqua: dovevo assolutamente pensare a un modo per uscire da quel posto. Dopo aver camminato per tutto il garage numerose volte notai finalmente qualcosa: un pezzo di intonaco si stava staccando dalla parete. Mi avvicinai e staccai l’intonaco, trovando delle mollette, un coltello, dello scotch e un foglio. Era uno strano abbinamento di oggetti, e non capii perché si trovassero lì. Lo capii solo quando aprii il foglio e vidi una scritta fatta con una scrittura tremolante e con dell’inchiostro rosso; lo lessi: ho provato a salvarmi, spero che tu ci riesca. Un brivido mi percorse il corpo nel momento in cui realizzai che quella scritta non era stata fatta con inchiostro rosso, ma con il sangue.
La mia mente iniziò a macchinare diversi piani; scelsi quello che sembrava avere maggior possibilità di successo e agii velocemente: mi misi il foglio di carta in testa e nascosi il coltello sotto la maglietta. Successivamente riattaccai l’intonaco, nascosi il panino e rovesciai l’acqua davanti alla porta, sperando che il rapitore ci scivolasse sopra. Il rapitore poco dopo entrò nella stanza con un’espressione maliziosa, probabilmente pronto a ripetere le sue azioni precedenti. Mentre si avvicinava gli gridai un insulto e tirai fuori il coltello e lui, accelerando il passo, scivolò sull’acqua, cadendo a terra sulla schiena. Corsi verso di lui, gli tirai un calcio tra le gambe e lo ferii alle gambe con il coltello affinché non riuscisse ad alzarsi. Velocemente gli feci un taglio sul polpastrello e ci premetti sopra il foglio, prendendo la sua impronta digitale. Nel mentre l’uomo mi aveva afferrata per la caviglia, ma riuscii a liberarmi e corsi fuori da quella prigione. Con il cuore che minacciava di uscirmi dal petto e il respiro spezzato corsi il più velocemente possibile verso la centrale di polizia più vicina, tenendo il coltello in una mano e il foglio nell’altra. Corsi con lo sguardo rivolto verso l’alto, ammirando il sole che non vedevo da ore.Mentre correvo gridai di gioia, felice di essere uscita da quell’incubo.
![]()