Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Il cuoco fantasma” di Valentina Serralunga

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Anche le cucine incredibilmente sporche mi piacciono da morire. Mi piacciono col pavimento disseminato di pezzettini di verdura, così sporche che la suola delle pantofole diventa subito nera, e grandi, di una grandezza esagerata. Ogni sera, quando il servizio è finito e il locale piomba in un silenzio cocente, come il sole che sbuca dopo una tempesta violenta, i cuochi si muovono attraverso il dolce balletto delle pulizie. A me piace sedermi sull’uscio della porta che collega questo inusuale palco alla platea, in cui i commensali si godono le note armoniose dei piatti. Appoggio la testa pesante allo stipite e osservo con sguardo quasi perverso la danza lenta del mocio che si muove e sgrassa il pavimento. Ad ogni strisciata, lucida e orizzontale, io tiro un sospiro profondo. Ascolto il suono bagnato delle frange zuppe che sbattono per terra, osservo la camminata ritmica e ritrosa del sous chef di turno, annuso il profumo di limone e lavanda che si irradia nella stanza. Ad ogni colpo bagnato percepisco una soddisfazione fisica, la posso sentire scorrere sulla pelle. Ad ogni sospiro sento scivolare via lo sporco incastrato tra le fughe del mio essere. Per caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso e dai coltelli un po’ arrugginiti, fuori le stelle che splendono tristi.

Ho quarantatré anni e cucino da quando ne ho otto. Ricordo con piacere la farina bianca che si infilava tra le rughe nelle mani di mia nonna, mentre mi insegnava a stendere lunghe strisce di pasta fresca, con un vecchio mattarello di legno. Ricordo, con ancora più piacere, l’impegno che ci mettevo per lucidare il fondo delle pentole arrugginite, o per allineare in ordine alfabetico i contenitori delle spezie.

Lavoro come capo partita, e non mi sono mai interessate le stelle – quelle Michelin, intendo. Quelle che splendono nel cielo le osservo di rado dalla finestra della mia cucina asettica, o quando mi concedo una breve pausa per fumare una sigaretta, a metà, perché la cenere mi inquieta. Il ristorante è ubicato in una via secondaria, è quasi sempre semi vuoto, i pochi avventori sono spesso solitari che leggono il quotidiano tra una portata e l’altra, o coppie di amanti inconfessabili. Nessuno osava avvicinarsi alla cucina. Era perfetto.

Finchè non arrivò lui.

Era un uomo piccolo, il gusto elegante lo esprimevano la sciarpa in cashmere e il Borsalino appoggiato sulla testa lucida. Ordinò acqua frizzante e mezza bottiglia di vino biologico locale. Appoggiò sul tavolo un taccuino nero e una penna rossa. Chiese alla cameriera, con voce calma e curiosa:

– Cosa ha voglia di cucinare oggi lo chef? –

Mi disorientò.

Non ero abituato ad essere visto, meno ancora interrogato. Preparai un piatto di ravioli ripieni, improvvisati, facendo lavorare in modo naturale le mani e poco la mente. Il servizio si concluse e i colleghi lasciarono a me l’onore delle ultime passate di panno, nessuno sgomitava per contendersi quel momento. Il giorno dopo arrivai al locale due ore prima del personale, come di consueto, e notai all’entrata una lunga fila di persone in attesa. Spostai lo sguardo sull’edicola all’angolo, il gazzettino locale appeso agli scaffali recitava in prima pagina: “Il cuoco fantasma – piatti che parlano da soli. Il ritorno del silenzio in cucina.”

Ammetto che all’inizio provai a seguire il flusso violento dell’onda mediatica, provando un certo piacere. Mi piaceva l’interesse nei miei confronti da parte dei giornalisti, trovavo piacevole il riflesso della mia immagine in tv, i primi articoli che mi descrivevano come un genio culinario e silenzioso, sfamavano qualcosa di famelico radicato nel profondo del mio ego. Le prenotazioni iniziarono ad arrivare a pioggia, settimane prima. I clienti si trasformarono, da avventori casuali in cerca di riparo e coccole gustative, a bloggers con iphone in cerca di likes. Ad ogni clic di una macchina fotografica sentivo un brivido fastidioso percorrermi, come se un insetto dalle zampe sottili si stesse arrampicando sul mio collo, allora, pulivo insistentemente le piastrelle bianche e lisce. Ad ogni flash di fotocamera, provavo una fitta allo stomaco, e sgrassavo il piano di lavoro in acciaio, fino ad esaurire la spugna tra le mani. Se mi chiamavano per un intervista, lucidavo ossessivamente la mia coltelleria personale. Cambiavo quattro volte i guanti per la preparazione di ogni piatto. Usavo cinque, sei, sette, spugne nuove al giorno.

La crepa arrivò di soppiatto, un sabato sera. Il locale era pieno. Le puntine sulla lavagna di sughero non reggevano più il peso degli ordini. Un collega tagliava in modo frenetico le verdure, un altro gridava di passargli il ragù. Il vapore delle cotture mi annebbiava la mente. Tra la confusione, in un angolo della sala, lo vidi. Era lì. Il giornalista. Seduto composto, come sempre, taccuino nero aperto sul tavolo, penna rossa tra le dita. Non mangiava. Scriveva. Ogni tanto sollevava lo sguardo, come se volesse intravedere attraverso le pareti, come se potesse vedere oltre il muro che divideva la cucina dalla sala.

Sentii il solito brivido risalirmi la schiena, come una lama fine. Il rumore della stampante degli ordini diventava un martello, ogni biglietto un colpo sulle tempie. Cercai di concentrarmi sul taglio netto del coltello, sull’ordine del piano di lavoro, sulla pulizia delle superfici. Ma non bastava. In quell’istante entrò di corsa il cameriere, teneva nella mano destra un grande piatto tondo, piano, che faceva da culla a un brasato ricco di sugo. Scivolò sulla buccia di una patata. Il prezioso taglio di carne si frantumò a terra, le schegge del piatto rotto scivolarono sotto al lavello. Il sugo scuro e grasso colò tra le fughe delle piastrelle come sangue da una ferita aperta. Gli insetti in arrampicata sul mio collo diventarono numerosi, la fitta allo stomaco divenne un conato di vomito. Feci un passo indietro, poi un altro. Infine scappai.

Oggi osservo le stelle che splendono tristi, disperse tra i pini dell’entroterra portoghese. C’è una luce calda e soffusa che illumina gli unici due tavolini in legno a disposizione. Qui ci arrivano in pochi, mangiano e se ne vanno. Spengo la sigaretta a metà e rientro nella cucina del ristorante, in questa baracca umile e senza pretese. Prendo in mano il mocio per cominciare la dolce danza delle pulizie, e la calma della mia mente si distende come una tovaglia pulita.

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