Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2025 “Delitto tra i vicoli” di Tess Romano

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

1

A Genova, certe mattine sanno di muffa, caffè e legno vecchio.

E non è sempre una brutta cosa.

Quella mattina mi ero svegliato presto. Nessun motivo particolare. A volte succede: certi silenzi ti tirano giù dal letto più di qualsiasi sveglia.

Dalla finestra del mio bilocale vedevo un pezzo di vico Vegetti, uno dei tanti vicoli che si arrotolano su se stessi come pensieri mal digeriti.

Avevo messo su il caffè quando ho sentito le sirene. Brevi, nervose. Quelle che arrivano veloci e si spengono subito, come chi sa già che non c’è niente da fare. Mi sono affacciato. Due volanti, nastro giallo, e una porta aperta.

Antichità Neri & Figli. Il negozio di Alfredo Neri.

Non lo conoscevo bene, Alfredo. Ci salutavamo, ogni tanto. Era uno di quei volti che ti accompagna quando vivi nei caruggi abbastanza a lungo da capire che certe persone non servono conoscerle a fondo. Ti basta sapere che ci sono, sempre allo stesso posto.

Mi sono infilato una giacca e sono sceso.

Il vicoletto era già pieno di gente. Turisti curiosi, bottegai in ciabatte, qualcuno con la busta del pane a mezz’aria.

Mi sono fatto largo. Il primo agente che ho incrociato era giovane, troppo nuovo per riconoscermi. Gli ho mostrato il vecchio tesserino della mobile, ormai scolorito. Mi ha fatto passare senza fiatare.

L’interno del negozio era un disastro calmo.

Tutto sembrava al suo posto, ma c’era qualcosa che non tornava.

Un vaso rovesciato. Una sedia spostata di pochi centimetri.

E lì, a terra, tra due scaffali di libri antichi, c’era Alfredo. Supino. Una chiazza scura sotto la nuca.

Occhi aperti. Braccia lungo i fianchi.

Nessun segno di lotta. Nessun oggetto mancante, a prima vista.

«Caduto?» ho chiesto.

Il commissario De Luca era già lì.

Si voltò appena, come se gli desse fastidio sentire la mia voce.

«Oppure spinto. Non lo sappiamo ancora.»

Poi ha fatto una pausa. «Non sei più in servizio, Moretti.»

«Lo so. Non sono venuto per lavorare.»

«Spero bene.»

Mi sono guardato intorno. In un angolo, seduta su una panchetta bassa, c’era Giulia Ferri.

La restauratrice. Occhi rossi, mani giunte.

Non piangeva, ma era chiaro che il pianto l’aveva appena attraversata.

Mi ha riconosciuto. Ha fatto un cenno con il mento.

Io ho risposto con lo stesso gesto.

Tra noi non c’erano confidenze. Ma la conoscevo.

Una donna precisa, silenziosa. Tipo da mani sporche di colla e polvere d’oro.

Mi sono avvicinato a De Luca un’ultima volta.

«Nessuna effrazione. Nessun furto. Solo un colpo secco.»

Lui ha sospirato.

«Un colpo secco, in un vicolo che non dimentica niente.

E che però, quando serve, si tappa le orecchie.»

Sono uscito senza aggiungere altro. L’aria sapeva di pioggia in arrivo. E di qualcosa che stava per svelarsi, ma non troppo in fretta. Come certi mobili antichi.

Serve la luce giusta per vedere la crepa.

2

L’odore del caffè stantio del commissariato di zona era lo stesso di vent’anni fa. Ma ora mi toccava berlo da visitatore.

Il commissario De Luca mi aveva chiesto di non interferire, e io, da bravo ex sbirro, avevo annuito.

Poi avevo fatto l’unica cosa che sapevo fare bene: non ascoltarlo.

Mi presentai di nuovo da Antichità Neri & Figli un’ora dopo, quando la scientifica aveva già smontato la scena e i curiosi si erano dispersi.

Davanti al negozio, due uomini discutevano a bassa voce.

Erano i figli di Alfredo. Li avevo visti qualche volta, ma solo a distanza.

Matteo Neri, il più grande, sulla quarantina, giacca scura, barbetta curata, sguardo da consulente patrimoniale.

Davide, il minore, più giovane di almeno dieci anni, maglietta nera, auricolare ancora nell’orecchio, aria da uno che si sente in debito con il mondo.

«Sono Elia Moretti,» mi presentai. «Conoscevo vostro padre.»

Matteo mi tese la mano. Fredda. Professionale.

«Un brutto colpo per tutti noi,» disse. «Ma non capiamo… cosa c’entra lei?»

Davide non parlava. Masticava l’aria.

«Ho lavorato in polizia. Per vent’anni. E vivo qui vicino. Mi dispiace per vostro padre. Era un uomo rispettato.»

Matteo annuì.

«E un uomo prudente. Teneva tutto sotto chiave. Letteralmente. Aveva un sistema con due lucchetti sul retrobottega. Uno solo per lui.»

«E quella chiave?» chiesi.

«Sparita.»

Più tardi passai da Giulia, nel laboratorio di restauro che condivideva con Alfredo. Mi accolse in camice, le mani coperte di gesso.

«Ti aspettavo,» disse.

«Davvero?»

«Sapevo che saresti tornato.»

Sul tavolo, c’era un armadietto in legno intagliato. Aveva il fondo aperto, come se qualcuno avesse cercato di forzarlo dall’interno.

«L’ha portato Alfredo la scorsa settimana. Non me l’aveva mai fatto vedere prima. Disse che aveva bisogno di una “cura silenziosa”.»

La frase mi colpì.

«Sai se stava lavorando su qualcosa di importante?»

Giulia esitò.

«Una statua lignea, forse. Piccola. Disse che veniva da una chiesa sconsacrata. Ma sembrava nervoso. E…»

«E?»

«E Matteo non voleva che la restaurasse.»

Quando uscii dal laboratorio, la pioggia aveva ripreso a cadere.

Feci due passi sotto i portici di via San Bernardo e mi fermai a guardare una finestra accesa, tre piani più in alto.

Davide Neri fumava affacciato. Parlava con qualcuno al telefono. Rideva.

Suo padre era stato ucciso da meno di ventiquattro ore.

Il dolore, quando è vero, non trova tempo per ridere.

Mi appuntai mentalmente quella risata.

Nel mio mestiere, era spesso più utile di un’impronta.

3

A Genova le voci camminano piano, ma non si fermano mai.

Si infilano nei portoni, scivolano tra le persiane, si attaccano ai muri come umidità.

Il giorno dopo, andai da Silvano, il barista che gestiva il caffè di fronte ad Antichità Neri & Figli.

Uno di quelli che sembrano nati dietro un bancone. Tanti silenzi, pochi sorrisi. Ma aveva orecchie da cane da caccia.

Mi offrì un caffè senza chiedere. Poi mi fissò.

«Ti conosco. Polizia, giusto?»

«Ex.»

«Una volta poliziotto, sempre…»

Fece spallucce. Gli lasciai spazio.

«Il vecchio Neri,» disse, «era uno di quelli a cui non serve parlare tanto. Ma si capiva che negli ultimi tempi qualcosa lo rodeva.»

«Tipo?»

«L’ho visto litigare con uno. Un tizio elegante, cappotto beige, occhiali da sole. Qui fuori, una settimana fa.»

«Nome?»

«Lo chiamavano Greppi. Ha una galleria antiquaria in salita dell’Olivella. Non si sopportavano. Vecchia rivalità, pare.»

Mi appuntai il nome.

«Parlavano di un affare. Roba grossa. Alfredo gli ha detto “non faccio parte dei tuoi giochi”. E se n’è andato sbattendo il pugno sul tavolo. Non l’avevo mai visto così.»

Nel primo pomeriggio mi feci un giro da Greppi.

La sua galleria era ordinata, profumata, piena di mobili più puliti del mio salotto.

Mi accolse lui, giacca a quadri e sorriso inamidato.

«Cercava qualcosa in particolare?»

Voce melliflua, da venditore da fiera.

«Conoscevo Alfredo Neri,» dissi. «Ci lavoravo, tanti anni fa.»

Il sorriso si smorzò.

«Una tragedia. Lo rispetto, sempre l’ho fatto. Anche se… eravamo diversi. Io vendo bellezza, lui collezionava polvere.»

«Ha avuto a che fare con lui, recentemente?»

Una piccola esitazione.

«Un mese fa. Gli proposi un acquisto congiunto per un lotto raro. Arte sacra, pezzi del ‘500. Disse che non era interessato.»

«Ma non sembrava una risposta amichevole, secondo alcuni. C’è stato un diverbio?»

Si irrigidì.

«È normale discutere tra professionisti. Ma niente di personale.»

Falso. Lo avevo visto negli occhi. C’era altro.

Greppi stava nascondendo qualcosa.

Forse non era un assassino, ma un testimone sì.

Più tardi, rientrando a casa, trovai una busta sotto la porta.

Carta spessa, nessun mittente.

Dentro: una fotocopia sbiadita di una statua lignea — una piccola Madonna col Bambino, in stile ligure.

Sul retro, una scritta in stampatello:

“Lui voleva venderla. Non restaurarla.”

Nessuna firma. Nessuna traccia.

Solo un dubbio in più, e una certezza che cresceva, qualcuno stava giocando su due tavoli.

E il primo a essersi fatto male, era finito col cranio spaccato sul pavimento del suo negozio.

4

Nel laboratorio di Giulia Ferri regnava il silenzio assoluto, come in certi corridoi d’ospedale dove la polvere sa sempre più cose dei medici. Era immersa nel lavoro, come sempre. Un cassettone genovese del Settecento aperto in due, i cassetti smontati, l’interno scorticato per metà. L’odore di colla animale e legno antico mi colpì come una madeleine storta.

«Stai cercando qualcosa, Elia?» mi chiese senza alzare lo sguardo.

«Un pezzo di verità. Anche piccolo.»

Giulia si fermò.

Poi mi indicò il mobile smontato.

«Dovresti guardare qui sotto. Lo ha portato Alfredo, ma non era in catalogo. È uno di quei pezzi che “non devono passare dal registro”, capisci?»

Sì, capivo fin troppo bene.

Mi inginocchiai davanti alla base, scostando una sottile tavoletta che scricchiolò appena.

Dentro, tra due viti allentate, c’era un foglietto ripiegato tre volte. Lo aprii lentamente.

“Caravita, 18 – ore 22.”

Nient’altro.

Lo girai, lo studiavo con attenzione. Calligrafia incerta, ma decisa. Lettere maiuscole, tracciate di fretta.

Giulia si avvicinò.

«Non è la calligrafia di Alfredo. Ne sono certa.»

«Ma lo teneva nascosto.»

«Forse non sapeva nemmeno che fosse lì.»

Lo misi in tasca.

«Caravita 18… È nella Maddalena, giusto?»

«Sì. Un portone chiuso da anni. Lì sotto ci stava una bottega di marmi, poi è diventato magazzino. Ora… chissà.»

Ci andai quella sera stessa.

Vico Caravita era una lama buia tra due pareti umide.

Al numero 18, il portone era davvero quello: vecchio, pesante, con l’intonaco che si staccava a pezzi.

Sul lato sinistro, una porticina secondaria era socchiusa. Nessun allarme. Nessuna luce. Spinsi. Entrai.

All’interno, una stanza. Pavimento in cotto, pareti grezze.

Due sedie, un tavolo, scaffali con oggetti impolverati.

E una cassaforte a muro, aperta. Vuota. Nessun segno di effrazione. Qualcuno aveva aperto con calma. E aveva preso solo quello che cercava.

Appena uscito, sul selciato bagnato, notai un mozzicone ancora caldo. Marca francese. Sigaretta lunga. Greppi fumava italiano.

Davide, sigaretta elettronica. Qualcun altro era lì, poco prima di me. Qualcuno che aveva saputo dell’appuntamento.

Mi guardai intorno. Nulla. Nessuno.

Solo i caruggi che ti guardano mentre fingi di non vederli.

E dentro, nella mia tasca, un foglietto che cominciava a bruciare come carta viva.

5

Quando non sai più dove cercare, vai da chi sa dove non guardare.

Paolo “il notaio” non aveva mai redatto un atto in vita sua, ma gestiva un ristorante dietro via Pré con una saletta riservata dove si parlava di tutto tranne che di cucina.

Ci avevo lavorato attorno ai tempi della mobile. Era rimasto in debito con me. Lo trovai che lucidava bicchieri dietro il bancone, la televisione accesa su una partita che nessuno guardava.

«Elia Moretti,» disse. «Dio mio, pensavo fossi sparito. Hai l’aspetto di chi è tornato a scavare.»

«Solo un nome: Alfredo Neri.»

Il bicchiere si fermò a metà. Poi lo posò.

«Quello era uno con l’etica. Ma quando entri in certi giri, l’etica è carta da lucido.»

«Vendite private?»

«Di più. Un mercato parallelo. Oggetti religiosi, pale smontate, reliquiari. Roba che se la esponi in galleria ti arrestano. Ma in certi salotti… è oro colato.»

«E Neri?»

«Aveva una statua. Madonna col Bambino, legno scolpito, scuola ligure. Probabilmente rubata.

Lui voleva restaurarla e denunciarla. Ma chi gliel’aveva fatta avere pensava il contrario.»

Mi guardò negli occhi.

«Ti stai mettendo in mezzo a gente che ha più santi nelle tasche che in paradiso.»

Uscito da lì, feci due telefonate e incrociai qualche archivio online. La statua era comparsa brevemente in un’asta internazionale, mesi prima, poi ritirata “per mancanza di provenienza certificata”.

La provenienza era la chiave. E forse il movente.

Tornai a parlare con Elena Bianchi, la collezionista.

Mi ricevette in casa, tra cornici dorate e porcellane di Capodimonte. Una bellezza che puzzava di nascondiglio.

«Lei ha mai avuto contatti con Alfredo Neri fuori dalle vendite ufficiali?»

Sorrise. «Non so cosa intende.»

«Una statua. Madonna lignea. Forse rubata. Le dice qualcosa?»

Le dita le tremarono appena sulla tazza di tè.

«L’aveva ricevuta da un contatto. Mi chiese di aiutarlo a farla stimare. Io… gli consigliai discrezione.»

«E poi?»

«Poi mi disse che voleva denunciarla. Mi disse “non voglio sporcare il nome di mio padre con un oggetto rubato”.»

Quel dettaglio mi fece alzare le antenne. 

“Suo padre” non era Alfredo. Chi parlava era uno dei figli.

E se il vero possessore della statua fosse stato Davide?

Se fosse stato lui a consegnarla di nascosto ad Alfredo, nella speranza che sparisse?

E poi, quando il padre decise di fare la cosa giusta, avesse reagito di impulso?

Stavo per metterlo in cima alla lista. Ma sapevo una cosa con certezza. 

Quando un caso sembra risolto troppo presto… c’è qualcuno che sta ancora aspettando l’ultima battuta.

6

Il giorno dopo, mi presentai in via Cairoli, davanti al palazzo dove abitava Davide Neri. Non bussai. Aspettai che uscisse.

Alle 11.45, eccolo lì: felpa grigia, occhiaie pesanti, passo veloce. Lo seguii per un paio d’isolati, finché si infilò in un bar con l’aria di chi cerca un’ora di pace dal mondo.

Entrai due minuti dopo. Mi sedetti al tavolo accanto.

«Bel posto per smaltire un delitto.»

Lui si voltò di scatto, il cucchiaino sospeso sul caffè.

«Moretti… che diavolo vuoi?»

«La verità. Ti bastava che tuo padre chiudesse un occhio. Invece ha voluto fare la cosa giusta. E tu non l’hai presa bene.»

Rise. Breve. Acido.

«Pensi che l’abbia ucciso per una statua?»

«Penso che l’hai portata tu in negozio. Che speravi di venderla sotto banco. E quando hai capito che lui non ti avrebbe coperto, hai perso la testa.»

Silenzio. Poi appoggiò il cucchiaino. Lentamente.

«L’ho portata io, sì. Ma non l’ho mai voluta vendere. Volevo solo dimostrargli che potevo combinare qualcosa da solo.»

«Contrabbando d’arte, come inizio non è male.»

Davide scosse la testa.

«Lui non voleva denunciarla. È stato Matteo a spingerlo a farlo.

Per dare un segnale “etico” all’ambiente. Per mettere in imbarazzo Greppi e altri. Una mossa da vetrina, per intestarsi il nome “pulito” dell’azienda. Il figlio buono, quello giusto. Sempre lui.»

Stavo per rispondere, ma la porta si aprì. Giulia Ferri entrò.

Ci vide. Si bloccò. Poi venne al nostro tavolo.

«Volete sapere la verità?» disse guardandomi.

«Ho visto Matteo uscire dal laboratorio quella sera. Tardi. Aveva una chiave che non avrebbe dovuto avere. La chiave della cassaforte di Alfredo.»

Il mio stomaco si strinse. Tornai con la mente alla prima volta che vidi Matteo davanti al negozio: impassibile, lucido, troppo composto per un figlio appena colpito da una morte improvvisa.

E poi mi tornò in mente un dettaglio.

Il foglietto.

L’indirizzo.

La calligrafia incerta. Ma non sconosciuta.

Alfredo scriveva tutto in corsivo. Giulia pure. Solo Matteo usava lo stampatello.

Quella notte, rileggendo i miei appunti, lo vidi chiaramente. Avevamo seguito un’ombra pensando fosse il corpo. Ma chi aveva messo in moto tutto non aveva bisogno di sporcarsi le mani. Solo di orientare i sospetti nel posto giusto. E il posto giusto era suo fratello.

7

Riaprii le foto della scientifica che De Luca mi aveva girato via mail con una certa riluttanza. La scena del crimine, il corpo di Alfredo Neri a terra, la chiazza scura sotto la nuca, il braccio destro leggermente ripiegato sotto il busto.

Una cosa mi colpì all’istante: la ferita era sulla tempia destra.

Un colpo secco, preciso. Come quello dato da una persona destra — o da qualcuno che sapeva dove colpire senza esitazione.

Alfredo era mancino. L’avevo visto mille volte firmare ricevute con quella grafia inclinata all’indietro, tipica dei sinistri.

Pensai: se qualcuno avesse voluto simulare una caduta accidentale, l’istinto l’avrebbe portato a colpire sul lato opposto. Ma quello non era un colpo improvvisato. Era un’esecuzione.

Mi presentai da Giulia Ferri per chiarire un dubbio che mi rodeva da ore.

«Hai più quei vecchi ordini di restauro che Alfredo ti faceva firmare a mano?»

Lei annuì, aprì una cartellina rigida e ne tirò fuori una decina.

Li sfogliai finché trovai quello che cercavo: una ricevuta intestata a “Neri & Figli”, firmata Matteo Neri.

La calligrafia era netta, ordinata. In stampatello perfetto.

Presi dal mio taccuino la fotocopia del biglietto ritrovato nel doppiofondo del mobile. Stessa inclinazione. Stesse “R” chiuse. Stessa “T” a cappio. Matteo aveva scritto quel biglietto.

Aveva indirizzato Alfredo a quell’appuntamento in vico Caravita. Aveva finto di scoprire tutto dopo.

E Davide…

Davide era stato lasciato lì. Come capro espiatorio, con le mani già sporche per conto proprio.

Passai davanti alla galleria di Antonio Greppi. Chiuso per lutto. Finta compostezza.

Matteo si era servito anche di lui. Lo aveva coinvolto in trattative mai chiuse, solo per dare a suo padre l’idea che stava cadendo in un circolo pericoloso. Così, quando la statua emerse, Alfredo si era ritrovato accerchiato da sospetti.

E Matteo aveva potuto agire nel punto cieco della fiducia.

Tornai a casa con la testa piena di pezzi. E con un dettaglio finale ancora da chiarire. La chiave della cassaforte. L’unica copia ufficiale, secondo Giulia, era in possesso di Alfredo.

Ma chi l’aveva aperta, svuotata, e lasciata in ordine…

lo aveva fatto senza forzarla.

E io avevo visto Matteo, il giorno dopo il delitto, con le mani in tasca e la giacca imbottita. Nessuna fretta. Nessun dolore.

Ma soprattutto, nessun controllo. Sapeva benissimo che non lo avrebbero perquisito. Perché chi piange con misura…è spesso chi sa quando smettere di piangere.

8

Lo trovai nel laboratorio di famiglia, seduto su uno sgabello, le mani appoggiate sulle ginocchia come un chirurgo in pausa.

Matteo Neri stava osservando un piccolo comò veneziano, rovinato sul fianco. Sopra, una bacinella d’acqua e un pennello immerso a metà. La vernice scura galleggiava in cerchi concentrici, silenziosi.

«Tu lo sai che la vernice vecchia non si cancella mai del tutto,» dissi entrando.

Matteo non si voltò. Continuò a guardare l’acqua.

«Si può coprire, stratificare. Ma sotto rimane. Come certi errori.»

«Dipende da quanto tempo hai. E da quanto vuoi fingere che il mobile sia nuovo.»

Si alzò. Mi guardò. Nessuna sorpresa sul volto.

«Hai scoperto tutto.»

Annuii.

«Hai fatto in modo che Alfredo trovasse quel biglietto. Gli hai messo in mano la chiave di un’esca. L’hai portato a fidarsi di un affare sbagliato, poi l’hai tolto di mezzo. E hai lasciato che tuo fratello, con la sua goffaggine e i suoi debiti, sembrasse l’unico colpevole plausibile.»

«Era l’unico a meritare il nome di nostro padre,» rispose. «Ma anche l’unico a non saperci fare. Se avesse ereditato il negozio, ci avrebbe affondati.»

«Così hai deciso che eri tu il degno. Non per diritto, ma per selezione.»

«Per logica. Io sono sempre stato la parte sana. La mente. Lui la sbavatura.»

«E tuo padre?»

Silenzio.

«Un idealista. Incapace di vedere il mondo per quello che è. Ha sempre creduto che fare la cosa giusta bastasse.»

«E invece?»

«E invece l’ha lasciata in mano a uno che la giustizia l’ha imparata troppo tardi.»

Restammo in silenzio. La luce filtrava dalla finestra sopra il banco da lavoro, obliqua, precisa.

Fu allora che sentimmo i passi nel corridoio.

Il commissario De Luca entrò senza bussare. Due agenti dietro di lui. Matteo non protestò. Non chiese avvocati. Non recitò.

Mi guardò un’ultima volta.

«Complimenti, Moretti. Hai trovato la crepa.»

«No,» dissi. «È stata la vernice a parlare.»

I caruggi, quella sera, parevano più larghi.

Non c’era giustizia nelle strade, solo una quiete vecchia e testarda. Ma sapevo che i muri avevano registrato tutto.

E che Alfredo Neri, nel suo silenzio ostinato, aveva insegnato un’ultima lezione: le eredità non sono mobili da spartire. Sono le ombre che lasciamo negli occhi di chi ci guarda andare via.

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1 commento »

  1. Difficile scrivere un racconto di genere giallo in così poche battute. Tu ci sei riuscito! La tensione è alta e le descrizioni dei caruggi così ben fatte e sensoriali che pare di esserci.
    Un ottimo lavoro. Complimenti!

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