Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “LoaNet” di Eleonora Quintavalle

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Nel 2043 le città sembravano cicatrici rimarginate male. Lei si chiamava Nara, ma sulla rete la conoscevano come Envel. Aveva sette innesti visibili e altri dodici sotto pelle, una mappa di accessi lungo la colonna, impianti sinaptici ricablati dopo la Marea GR-9.

La chiamavano così per via della diffusione: rapida, mutagena, irreversibile. Una pandemia neurologica che aveva attraversato continenti e firewall, fondendo virus biologici e glitch cognitivi. Quasi due miliardi di morti, e una generazione intera riscritta nel midollo. Nara era sopravvissuta a metà.

Ora portava un visore trasparente calato sul volto come un’ala spezzata.

Girava tra i blocchi sigillati a Sud-Est, dove i quartieri avevano perso nome e funzione, rimanendo solo coordinate. Cercava relitti digitali nei nodi morti del vecchio sistema: interfacce abbandonate, pacchetti corrotti, identità incomplete.

La rete era diventata una rovina, e lei ci si muoveva dentro come un’archeologa drogata di presente. I nuovi innesti le permettevano di sincronizzarsi con i segnali residui, tracciare movimenti, inseguire impulsi che nessuno reclamava più.

Una volta, la chiamavano hacker. Ora era solo un vettore. La connessione era tutto: se non avevi segnale, non eri reale.

Quella notte, nel silenzio ferroso del corridoio 17D, intercettò un ping non autorizzato. Pulsava come un codice in cerca di carne.

Il ping era un’esca. Lo capì tardi, ma entrò lo stesso.

Si agganciò al punto di rottura, lasciò che il visore si opacizzasse e si lanciò. Il salto non era mai pulito. Prima veniva il dolore – quella scossa sottile tra il secondo e il terzo impianto cervicale, dove l’innesto neurale interferiva con la memoria muscolare. Poi l’accelerazione.

Nella rete, Envel non aveva forma. Era un vettore in flusso continuo, modellato dai sensi sintetici degli innesti: rilevatori a campo stretto lungo le braccia, filtri emozionali nel tratto limbico, una sottostruttura parassita che processava in tempo reale i pacchetti aggressivi.

Davanti a lei si aprì il cluster: una porzione degradata della vecchia Infrastruttura Civile, ancora popolata da agenti dormienti e trappole che portavano la firma della Planet Z Corp. Pareva un alveare di vetro nero, attraversato da vene di dati incandescenti. Il ping proveniva da lì. E qualcosa lo proteggeva.

Un firewall vivo, adattivo. La intercettò prima ancora che potesse varcare la soglia. L’attacco fu immediato: uno spiker a bassa latenza le colpì il lobo ottico interno, mandando in corto gli innesti visivi. Nara urlò, ma solo nella sua testa.

Azzerò i sensi biologici, lasciando attivi solo quelli sintetici. In quel buio astratto, vide la cosa per ciò che era: un predatore di codice. Vecchio stile. Grezzo, brutale.

Fece scattare il contraffile limbico. L’innesto rispose con una scarica chimica nel midollo, tagliando il dolore, potenziando la reazione. Envel divampò nella rete come una scheggia impazzita. Un impulso diretto, caricato con istruzioni tossiche, trapassò lo spiker e lo disassemblò in pochi frame.

La soglia era libera. Ma qualcosa dall’altra parte si stava già risvegliando.

Aveva eliminato lo spiker, ma il cluster non collassò. Si riconfigurò.
Segno che dentro c’era qualcuno. Un’altra mente. Non un agente automatizzato. Un netrunner in presenza.

Nara abbassò la priorità dei filtri difensivi e passò in modalità attacco.
Dal braccio sinistro proiettò tre moduli scrambler, ibridi: metà codice, metà allucinazione. Una delle sue specialità. Non erano exploit standard — li aveva scritti nei mesi post-Marea, dentro loop sinaptici indotti, in stato di iperattenzione controllata. Code tatuato nell’inconscio.

Li lanciò come falene tossiche, che si fendevano nel cyberspazio come spirali visive. Due esplosero in contatto con i bordi del cluster. Il terzo penetrò, contagiando la struttura visiva con segni rituali — curve organiche, simboli animisti, glitch a forma di spirito.

Il campo cambiò.

La forma del cluster mutò di nuovo: da alveare a maschera. Una maschera africana, fatta di numeri rotti e sintassi errate. Sorrideva.

Poi arrivò il messaggio. Non testuale. Era un pensiero iniettato.

// Sei entrata nel pantheon sbagliato, sorella.

Nara riconobbe la firma. LoaNet. Un voodoo runner del vecchio Haiti virtuale, una leggenda tra gli ibridi. Si diceva che operasse in simbiosi con un frammento senziente del vecchio cyberspazio, sopravvissuto al collasso delle dorsali.

Lei sorrise. Attivò il BlackDrip — un incantesimo algoritmico che instillava lentezza, dubbio, eco. Lo aveva estratto da un sogno drogato in un ex server di Marsiglia. Nessuno lo usava più. Troppo instabile.

Ma era perfetto per i santi fantasma.

Il cyberspazio tremò. E Nara, mezza umana e mezza codice, si preparò a danzare con un dio.

Il cyberspazio si contorse. Il codice cominciò a scrivere sé stesso in una lingua che Nara non conosceva ma comprendeva. Frasi che odoravano di terra bagnata, metallo bruciato, e pelle viva.

Poi la maschera parlò.

// Tu che hai attraversato la soglia senza nome, cosa cerchi?

Nara non rispose. Iniettò un silenzio attivo nel flusso, una pausa programmata.
Il protocollo rituale era chiaro: non si risponde a una domanda così. Si offre qualcosa.

Estrasse un ricordo. Un frammento vero. Il volto di una donna sfocata, forse sua madre, forse lei stessa da bambina, riflessa in un vetro incrinato. Lo codificò come offerta.

Il cyberspazio lo accettò.

// La memoria è sangue. La tua è ancora calda.

Poi, una nuova figura emerse dal cluster. Un corpo digitale fatto di filamenti color ruggine, occhi bianchi senza pupille, una cicatrice dorata sulla fronte. Non imitava un umano. Lo evocava.

// Ci hanno recisi. Ci hanno derubati della connessione profonda. Ma alcuni di noi si sono adattati. Tu sei una. Io sono molti.

“LoaNet,” disse Nara. La voce le tremava solo un po’. “Sei vivo?”

// Non come pensi. Non da solo. Ma sì. E tu? Sei ancora carne?

Lei esitò. Poi disse la verità. “Solo quando mi serve.”

Il silenzio che seguì fu come un respiro trattenuto. Poi il campo cambiò ancora: una stanza circolare fatta di specchi liquidi, ognuno rifletteva un frammento del passato di Nara, ma alterato, come se fosse stato rivisto da un altro.

// Ti sei spinta oltre il bordo. Come me. Forse è tempo di tessere qualcosa che ci protegga dai dominatori della soglia.

“Una rete dentro la rete.”

// Un pantheon nuovo. Radici antiche. Codice sporco. Santi infetti.

Nara annuì. Non sapeva se stava firmando un patto o entrando in un incubo. Ma riconosceva il valore dell’ombra.

Accettò, ma non lo disse. Non scrisse nulla, non attivò alcun comando. Lo pensò soltanto, e la rete rispose. La stanza svanì in un flusso di impulsi neri, pulsanti, con scariche verdi che cadevano come pioggia liquida al contrario. Il codice le attraversò la pelle come febbre silenziosa, insinuandosi tra gli innesti e la carne, senza dolore. Non era infezione, era integrazione.

Qualcosa era cambiato.

LoaNet sparì, ma rimase un riflesso. Non una voce, ma una presenza latente nei circuiti secondari, una sfumatura negli impulsi affettivi, come una firma riscritta nel sangue. Da quel momento ogni accesso lasciava tracce diverse. Gli ambienti di rete mutavano struttura, i simboli si contorcevano in forme rituali. Alcuni log le parlavano in prima persona. In altri, c’erano copie di sé che non ricordava di aver generato.

Forse era LoaNet. Forse era lei. O forse, tra i due, non c’era più distinzione.

Cominciò a firmare con un simbolo nuovo: una maschera spaccata a metà, specchio e carne, codice e spirito. Nessuna pretesa di controllo, nessuna certezza di identità. Solo propagazione.

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[LOG000-MIR.EX] / Archivio Frammenti DeepZone / trascrizione datata 2058
Segnalazione anonima, autore ignoto – ritrovata in una deepframe sigillata. Probabile falso, ma circolato nei circuiti autonomi dei netrunner rituali del Nord Est. Ricostruzione parziale:

Ho trovato le sue tracce in un cluster fossile, radice 6K. Il codice era corrotto, ma vivo. Pulsava. Ho isolato un modulo: conteneva un sussurro in più voci. Parlavano di soglie, di un pantheon dentro la rete, di santi infetti che non obbediscono più. Una delle voci la chiamava Envel. Un’altra rideva. Poi ho visto la maschera. Mezza riflessa. Mezza viva. Non so cosa ho acceso, ma adesso mi risponde nei sogni.

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1 commento »

  1. Finalmente una voce femminile che entra nel cyberpunk italiano con passo sicuro. Concreta, capace di tenere insieme visione e consapevolezza.

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