Premio Racconti nella Rete 2025 “La pantera nera” di Maria Pia Urbani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Il flusso di aria fresca spinto con forza si insinuò nei tubi, scendendo veloce come un ragazzino che prova la sua bicicletta nuova in discesa, entrò in zone sempre più piccole, diventò turbolento fino alle piccole cavità ripiene di materiale bianco e appiccicoso che scalzò con la sua forza, facendolo tossire. L’ossigeno attraversò la trama sottile della parete alveolare e il flusso sanguigno lo trasportò fino al cervello dove ebbe l’effetto immediato di restituirgli la coscienza. Si guardò intorno, non riusciva a capire dove si trovasse, respirava veloce e ogni tanto tossiva, era disteso su una barella in un corridoio, probabilmente di un ospedale.
Cercò di muovere il braccio destro ma era legato e intravide il tubicino di una flebo che gocciolava dentro una sua vena, al braccio sinistro aveva il bracciale per la misurazione della pressione, al dito indice una specie di gancio che lampeggiava e sulla faccia una maschera trasparente che immetteva aria nella sua bocca. Flavio non ricordava niente di quel giorno, né sapeva che ore fossero, non c’erano finestre in quel corridoio ma solo luci al neon. Aveva dolori a tutte le articolazioni e una gran voglia di urinare, cercò di sollevare la testa e intravide in fondo al corridoio due figure con il camice che stavano parlando tra loro, aprì la bocca per chiamarli ma non uscì alcun suono, cominciò a sudare e ad agitarsi con il cuore che batteva all’impazzata … ma niente e nessuno si interessava a lui.
Ad un tratto una porta alla sua destra si aprì ed uscirono due figure rivestite con una tuta da astronauta che iniziarono a spingere la sua barella verso la porta aperta senza dire una parola, lo presero uno per le braccia e l’altro per le gambe e lo deposero in un letto circondato da varie apparecchiature, soltanto allora si rese conto di avere il catetere urinario, perché nel passaggio aveva avvertito un forte dolore all’inguine. Si avvicinarono due persone che avevano i loro nomi scritti sulla tuta Marcella e Lino, intravvedeva gli occhi azzurri di lei e una parte del naso, mentre lui aveva gli occhi marroni e le sopracciglia folte, sembrava che sorridessero ma non poteva esserne certo perché la bocca era nascosta. Lei si curvò su di lui dicendo:” Sono l’anestesista e lui è l’infermiere, ci prenderemo cura di lei Flavio, lei ha una polmonite da Covid19, abbiamo già iniziato le cure e ora dovrà indossare un casco a pressione positiva per favorire l’ossigenazione dei polmoni e del sangue.
A quelle parole così incisive le lacrime cominciarono a scendere senza preavviso dai miei occhi e la paura fredda e silenziosa come una pantera nera mi attanagliò come una morsa la gola. Io che, senza alcuna competenza medica, fino a pochi giorni fa protestavo contro il lockdown dicendo che il virus era uno stratagemma delle autorità per toglierci la libertà e che solo le persone molto anziane si sarebbero potute ammalare, adesso ero lì steso in quella stanza bianca frastornato da sibili, ticchettii, lampeggiamenti e gorgoglii.
La dottoressa continuò, passando direttamente al tu:” Abbiamo bisogno della tua collaborazione, devi impegnarti e resistere con la volontà di guarire, noi ti aiuteremo. Forza e coraggio”.
L’orologio appeso alla parete di fronte segnava le due di quella prima notte di ospedale, nella stanza non c’era un momento di silenzio, negli orecchi il turbinio dell’aria che entrava a forza nei polmoni, il casco stretto sulla fronte mi faceva martellare le tempie impedendomi di dormire e la paura, come una pantera nera silenziosa e feroce, era seduta al mio fianco e mi teneva sotto controllo pronta a balzarmi addosso. I medici e gli infermieri si alternavano al mio capezzale, alcuni gentili altri più bruschi, mi comunicavano gli esiti delle analisi e i farmaci che mi avrebbero somministrato. Quindi mi girarono in posizione prona per farmi respirare meglio, dicevano, e passai tutta la notte a fissare il linoleum grigio del pavimento, con una piccola macchia rosa simile ad un fiore.
Ho passato ore ed ore a pensare alla mia vita, a coloro che avevo amato e che amo, agli errori, ai dolori e ai momenti di felicità.
Oggi dopo 14 giorni di sofferenza e di paura, solo e stremato come un naufrago su una zattera in mezzo all’oceano, ho capito ancora prima che me lo dicano: mi devono intubare. Mi sento condannato a morte, un’ultima telefonata a mia figlia e mia moglie, una preghiera e poi via per un viaggio verso l’ignoto. La pantera nera mi fissa con i suoi occhi gialli, simili ad una fessura, affamata mi balza addosso mirando alla gola …. E il buio mi avvolge con le sue braccia accoglienti.