Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete “Risurrezione” di Irene Pianetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025


Come al solito, Stefano era l’ultimo rimasto in aula. Metteva quaderni, libri e penne nello zaino con

ordine e calma, poi si mise la cuffia, chiuse le finestre e uscì.

Il corridoio del liceo era quasi vuoto. A quell’ora rimanevano soltanto i ritardatari, come lui, o chi

avesse qualche colloquio particolare con un docente. Qua e là arrivavano gli addetti alle pulizie, che

iniziavano il loro lavoro. A Stefano quei lunghi corridoi dai soffitti alti e dalle finestre maestose

davano un senso di beatitudine. Non capiva la fretta degli altri, già alla fermata dell’autopostale o

sulle loro biciclette.

Dopo pochi passi, girò a sinistra per dirigersi verso l’uscita. Un sorriso apparve sul suo viso: sentì il

canticchiare della donna che puliva il pavimento davanti al laboratorio. Rallentò il passo per godersi

la sua voce melodiosa e vellutata. Cantava, con un lieve accento straniero, i versi di Alla fiera

dell’est, ad infinitum. Si fermava sempre prima dell’arrivo dell’angelo della morte per riprendere

dall’inizio. Una sera, Stefano le aveva chiesto perché saltasse quell’ultimo pezzo, e lei aveva

risposto che non avrebbe voluto chiamare l’angelo della morte. Non ancora.

Quella era l’unica canzone in italiano che conosceva. A volte, se era sicura di essere sola, cantava

anche nella sua lingua, e questo affascinava Stefano al punto che si nascondeva dietro un angolo per

poterla ascoltare. Altrimenti, non appena lo avesse visto, lei sarebbe tornata a Alla fiera dell’est.

Quando il giovane si avvicinò, la donna si interruppe brevemente per dirgli:

“Attento, scivola.”

E poi riprese la melodia… e venne il fuoco.

Stefano passò con attenzione, sperando di non sporcare la parte già pulita, e la osservò. In realtà,

doveva avere pochi anni più di lui. Notò il contrasto tra la sua pelle scura, scurissima, e il grembiule

bianco.

Le disse gentilmente buona serata, poi se ne andò… sospirando. Ancora una volta, non aveva osato

fermarsi per chiederle le informazioni che gli servivano, sul suo arrivo in Svizzera.

Stefano frequentava la terza liceo, indirizzo economico. Suo padre era avvocato e, dal giorno in cui

la figlia maggiore aveva dichiarato che sarebbe diventata veterinaria, era stato ovvio che sarebbe

toccato a lui prendere in mano lo studio del padre. Non era euforico all’idea: trovava tutto quel

mondo legale ed economico alquanto noioso. Ma, non avendo altri interessi se non disegnare e

creare fumetti – che già coprivano tutte le pareti della sua camera – si era detto che non sarebbe stata

una cattiva scelta. Consapevole di avere uno studio legale pronto ad accoglierlo, era certo di avere

già metà strada spianata.

Per il suo lavoro di maturità aveva deciso di fare uno studio economico-sociale sul tema

dell’immigrazione in Svizzera, in particolare in Ticino. Ci teneva a includere una testimonianza

diretta per dare al suo scritto un punto di vista umano, oltre le cifre e statistiche. E sperava che fosse

proprio quella donna della voce armoniosa a offrirgli la sua testimonianza.

Stefano s’incamminò a piedi verso casa, promettendosi che la prossima volta avrebbe parlato con

lei.

***E così fece. Il martedì seguente, alla fine delle lezioni, aspettò in biblioteca. Verso le sei uscì nei

corridoi, camminando a passi leggeri alla ricerca di una voce che cantasse.

Eccola. Questa volta non esitò:

“Ciao,” disse, “scusa se la mia domanda è un po’ invadente… ma avresti la possibilità di fermarti un

attimo dopo il lavoro? Vorrei chiederti alcune informazioni, ci metteremo solo una ventina di

minuti. Mi servirebbero per il mio lavoro di maturità.”

Lei lo guardò perplessa, ma annuì. Gli rispose che alle sette meno un quarto lo avrebbe trovato nella

hall d’ingresso. Stefano ringraziò, entusiasta, e andò a sedersi nella hall con il quaderno in mano per

rileggere le domande che aveva preparato.

Quando lei arrivò, vestita con un paio di jeans e un’ampia felpa verde, gli sembrò ancora più

giovane di prima. La ringraziò subito. Le avvicinò una sedia di fronte a sé e, nella penombra di

quell’atrio ormai inanimato, Stefano le spiegò cos’era il LaM e perché avesse bisogno del suo aiuto.

“Ma prima di iniziare,” aggiunse, “vorrei conoscere il tuo nome e da dove vieni. Io mi chiamo

Stefano e sono ticinese. Tu?”

“Mi chiamo Tinsae. Vengo dall’Etiopia.”

Lui, con la penna pronta in mano, la pregò di raccontargli com’era arrivata alla decisione di lasciare

il suo Paese, come fosse riuscita ad arrivare in Ticino e quale fosse stata la procedura per immigrare

legalmente in Svizzera.

Tinsae scoppiò in una risata cristallina che risuonò nell’atrio scuro, riempiendolo di ilarità.

“Venti minuti, avevi detto?” esclamò con la sua intonazione particolare.

Stefano scoprì che lei parlava un buon italiano, con solo un lieve accento.

Tornata seria, Tinsae gli disse che, per rispondere alle sue domande, ci sarebbe voluto molto più di

venti miseri minuti. Vedendo la faccia delusa del ragazzo, gli propose di trovarsi due sere alla

settimana, per venti minuti. Il tempo che lei doveva comunque aspettare l’autobus.

Grato e contento, lui le offrì di pagarla per il tempo che avrebbe dedicato agli incontri. Lei rispose

gaiamente:

“Grazie, ma no. Mi farà bene parlare con qualcuno, almeno non dovrò pagare una terapia, ha, ha!”

Così, ogni martedì e giovedì sera, per diverse settimane, Stefano e Tinsae s’incontrarono e

parlarono.

Man mano trovarono un’organizzazione migliore: Stefano aveva scovato due comode poltroncine

che sistemava nella hall. Lui portava un termos di caffè e due croissant integrali, mentre lei, di tanto

in tanto, lo sorprendeva con qualche specialità del suo Paese da stuzzicare.

Il ragazzo, nella sua ingenuità, non aveva calcolato che il racconto di Tinsae l’avrebbe trascinato in

percorsi inimmaginabili, tortuosi e spaventosi. Che si sarebbe immerso in un mondo buio, privo del

minimo rispetto o della più elementare integrità.Spesso sconvolto, non riusciva ad aprire bocca durante i loro colloqui. Scriveva freneticamente nel

suo quaderno. Le parole bruciavano… e anche le rare lacrime di Tinsae.

La giovane donna aveva iniziato la sua narrazione spiegando perché aveva deciso di lasciare

l’Etiopia.

Quasi sognante, disse:

“È un paese meraviglioso.. ma non è una buona terra per una donna.”

I suoi genitori l’avevano costretta a sposarsi quando aveva quattordici anni. Aveva conosciuto suo

marito il giorno del matrimonio. Quell’uomo si rivelò di essere insensibile e dominante. Si aspettava

da lei un’assoluta obbedienza.

Tinsae viveva nel terrore e sperava di non restare mai incinta. Ma ahimè, alla fine dei suoi sedici

anni si rese conto che portava un bambino in grembo. Da quell’istante sentì un immenso amore per

il piccolo essere dentro in lei. E scoprì una nuova fermezza crescere in sé: sapeva che avrebbe

difeso il suo bambino da ogni male e da ogni pericolo, con tutta la sua forza.

Durante la gravidanza imparò a mettersi in una posizione fetale, per terra, braccia sul ventre,

quando lui la picchiava. In quelle occasioni pregava in silenzio:

“Per favore, che sia un maschio, che sia un maschio…”

Pensava che non avrebbe mai avuto il coraggio di far crescere una bambina in quel mondo.

Tinsae fece una pausa per sospirare e Stefano ne approfittò per dirle che poteva bastare per quella

sera. Che avrebbero continuato nell’incontro successivo. Lei sussurrò , gli sorrise brevemente e se

ne andò.

Stefano rimase lì, seduto a lungo. Si sentiva stordito. Non era preparato per raccogliere tutto quel

male e trascriverlo in parole su un foglio. Sospirò.

All’incontro seguente, arrivando di corsa, Stefano si scusò per il ritardo. Lei, sorridendo, gli disse

che pensava di averlo spaventato l’ultima volta e che non sarebbe più tornato.

Il ragazzo le raccontò di aver avuto sogni bizzarri ultimamente, abbastanza angoscianti, sebbene

non riguardassero la storia di Tinsae. Lei fece un’alzata di spalle, commentando:

“Ho incubi tutte le notti, mi sveglio urlando.”

Poi riprese a raccontare.

Arrivò il giorno del parto. Fu lungo e doloroso. Fortunatamente era riuscita ad avere sua madre

accanto. Quando la levatrice annunciò, gioiosa, che era una bambina, Tinsae lanciò un grido

straziante:

“Nooooooooo!”

Ma nel momento in cui sua madre appoggiò il minuscolo bebè sul suo petto, quell’urlo divenne solo

un ricordo. Tinsae accolse sua figlia con serenità, inondata di amore.

Stefano la fissava: mentre raccontava il momento in cui la piccola si attaccò al seno, il suo viso era

radioso, senza traccia di amarezza o paura.

All’improvviso, la voce di Tinsae divenne più sommessa.Era il giorno del primo compleanno della loro figlia. Suo marito le disse che, prima che compisse

tre anni, avrebbero dovuto concretizzare il rituale della MGF.

Vedendo l’espressione interrogativa sul viso di Stefano, Tinsae gli chiese:

“Non hai idea di cosa sto parlando, vero?”

Stefano rispose che no, allora lei gli suggerì, con un sospiro:

“Puoi indagare stasera, quando torni a casa.”

Tinsae continuò:

Disse al marito che non avrebbe mai sottoposto la loro figlia a un’atrocità del genere. Era la prima

volta che lo contraddiceva. Lui la colpì con un pugno in pieno viso e la fece svenire.

“È stato in quel istante infinitesimale,” spiegò lei, “mentre vedevo il pugno avvicinarsi al mio volto,

che ho preso la decisione di fuggire.”

Stefano, all’improvviso, le chiese:

“Tinsae, dove trovi la forza e la volontà di cantare le belle canzoni del tuo paese – sì, ti ho sentita –

con il vissuto che ti porti addosso? Canti sempre.”

Tinsae gli spiegò che per lei il canto era come l’acqua.

“Senza, morirei,” continuò. “È il canto che mi permette di andare avanti.”

Poi, con un sorriso, aggiunse:

“Anche mia figlia ama cantare, sai? Solo che la sua musicalità è mille volte superiore alla mia. Ha

nove anni e sogna di poter frequentare il Conservatorio per studiare canto. Costa troppo, però. Ma

forse ce la faremo: da qualche tempo, l’associazione Il Tragitto sta cercando qualcuno che

sponsorizzi un corso di canto per lei. Mi hanno detto di pazientare, che qualcuno troveranno.”

Allora, sei qui da nove anni?

No. Sei.

accolto.

Poi aggiunse sì, ci sono voluti tre anni tra il pugno di mio marito e il giorno in cui il Ticino mi ha

Tre anni turbolenti prima di trovare finalmente sicurezza e serenità…

Stefano scriveva a tutta velocità, riempiendo pagina dopo pagina.

Tinsae lo osservava e gli suggerì:

“Ma perché non mi registri?”

Il ragazzo non ci aveva pensato, ma colse il suggerimento al volo.

La testimonianza della donna divenne così ancora più coinvolgente, permettendogli di seguire ogni

piccolo cambiamento nel suo volto.

Tempo prima, nel suo villaggio, una cugina di Tinsae le aveva proposto di scappare con lei. Aveva

una figlia di dodici anni e voleva portarla via da quell’ambiente.

Tinsae inizialmente aveva rifiutato. Aveva sentito parlare dei mille pericoli che comportava una

fuga. E comunque non aveva abbastanza soldi. Teneva sempre, nascosto in una vecchia scarpa, un

rotolo di banconote che sua madre le aveva dato il giorno del matrimonio, raccomandandole di non

farlo mai vedere a suo marito.

“Forse un giorno ti sarà utile”, le aveva detto, triste.Ma quel rotolo non sarebbe stato sufficiente per coprire il viaggio dall’Etiopia all’Italia.

Dopo quel pugno, però, la giovane madre cambiò idea. Annunciò alla cugina che voleva partire con

lei e che avrebbe portato con sé la piccola.

Seguirono giorni disperati, durante i quali chiedeva – come per caso, per non fare insospettire

nessuno – piccolissime somme di denaro a ogni persona che conosceva, assicurando che le avrebbe

restituite presto. Sapeva di stare ingannando quella brava gente, ma era disperata.

Arrivò il giorno della partenza. La cugina si era occupata di tutto. Aveva contattato le persone che le

avrebbero fatto uscire dall’Etiopia.

La cosa più dolorosa fu non aver potuto salutare la madre. Sapeva che non l’avrebbe lasciato partire.

Quando la nominò, Stefano vide, per la prima volta, gli occhi della donna riempirsi di lacrime.

Dopo un attimo di silenzio, Tinsae disse che desiderava fare una pausa di qualche giorno. Doveva

ritrovare la forza prima di rivivere quei ricordi.

Ogni sera, a casa, Stefano lavorava intensamente sul suo lavoro di maturità. Prese una direzione che

non avrebbe mai immaginato, ma era convinto di essere sulla strada giusta.

Nelle settimane seguenti, Tinsae descrisse il viaggio dall’Etiopia a Lampedusa. Un incubo durato

quattordici mesi e tre settimane, durante il quale, in almeno otto occasioni, credette di morire. O che

sua figlia morisse. E, più di una volta, sperò di morire.

Tinsae teneva la tazza di caffè forte tra le mani, quasi volesse riscaldare la sua anima. Sembrava

avere sempre freddo. Un giorno, Stefano le portò un suo grande maglione di lana, fatto dalla nonna,

convinto che servisse più a lei che a lui. Sapeva che la nonna sarebbe stata fiera del suo gesto.

Il racconto proseguiva. Le due donne, con le rispettive figlie, si erano unite a un gruppo di dodici

altri disperati, dirigendosi via terra verso il Sudan. Da lì iniziava l’attraversata del deserto del

Sahara, per arrivare in Libia.

Questo tratto fu agghiacciante. Tinsae non volle entrare nei dettagli, ma riassunse con poche parole:

quei mesi aveva subito violenze, umiliazioni e sofferenze indescrivibili. Era stata grata solo di una

cosa: che la sua piccola avesse solo un anno.

La figlia di sua cugina, di dodici anni, non aveva avuto la stessa fortuna.

A momenti, Stefano avrebbe voluto dirle:

“Basta!”, e mandare tutto all’aria.

Non credeva di essere in grado di documentare in modo neutro e professionale la storia di Tinsae.

Non gli importava più se lei vedeva le lacrime scorrere sul suo volto da adolescente. Beveva il

caffè… ma non riusciva a mangiare.

A volte non riusciva nemmeno ad assaggiare le prelibatezze che lei portava. In quei casi, quando si

separavano, lei gliele dava avvolte in carta d’alluminio, da mangiare a casa.Con il tempo, avevano preso l’abitudine di lasciare il liceo insieme. Stefano la accompagnava fino

alla fermata dell’autobus. Questi pochi minuti erano i loro preferiti, perché parlavano di argomenti

leggeri, ridevano, discutevano.

Arrivate a Tripoli, Tinsae e sua cugina dovettero trovare qualcuno disposto a farle attraversare il

Mediterraneo. Sborsando gli ultimi soldi che avevano, salirono assieme alle loro bambine su un

barcone che li avrebbe portati in Italia.

Era sovraffollato.

L’attraversata fu terrificante. Una donna scivolò fuori bordo e sparì in un istante. Suo figlio, piccolo,

rimase solo sul barcone.

Fu la seconda volta che Stefano vide Tinsae piangere.

Non sapeva, però, che ogni notte, nel buio della sua stanza, lei piangeva in silenzio per ore. L’unico

movente che le dava la forza di superare la notte era sentire il respiro innocente e calmo di sua figlia

nel letto accanto.

Un giorno, quasi riflettendoci per la prima volta, Tinsae disse che non tutto il brutto del suo passato

era stato inutile. Essere stata abusata dal marito e il rischio che lui imponesse la MGF alla figlia

erano stati i motivi che le avevano permesso di chiedere asilo politico in Svizzera.

Una volta chiese a Stefano come stesse procedendo il suo lavoro di maturità, e se un giorno avrebbe

potuto leggerlo. Lui rispose un po’ vagamente riguardo allo sviluppo del tema, ma le assicurò che sì,

gliene avrebbe fatto avere una copia.

Con l’arrivo della primavera Stefano diventò maggiorenne. Diciotto anni! Poteva bere alcolici,

prendere la patente. Forse si sarebbe comprato anche una macchina usata. I suoi genitori gli

avevano aperto un conto in banca il giorno della sua nascita, versandoci regolarmente una piccola

somma. Il giorno del suo compleanno gli diedero la carta di credito.

Cosa te ne farai, gli chiesero.

Il suo viso s’illuminò.

“So esattamente quale sarà il mio primo investimento”, rispose.

Poi aggiunse:

“Ora devo fare una telefonata all’associazione Il Tragitto.”

Restava poco a Tinsae per concludere il racconto della sua odissea.

Nello spazio di due settimane, narrò a Stefano dell’arrivo a Lampedusa, della fuga dal centro di

accoglienza, i primi mesi nascosta in Milano e, infine, il suo arrivo a Chiasso.

Vedere oggi sua figlia crescere in un ambiente sano, dove poteva godere della libertà di formarsi a

scuola e della possibilità di costruirsi una grande cerchia di amici – femmine e maschi – colmava

Tinsae di una gioia tale che, poco a poco, il passato diventa sempre più effimero.

E i pianti nella notte diventavano sempre meno soffocanti.

Man mano che seguiva il viaggio di Tinsae, Stefano aveva perso ogni interesse per le materie che

avrebbe dovuto studiare l’anno seguente. Si chiedeva se questa indifferenza sarebbe rimasta anche

all’università. E poi, nella sua professione di avvocato.L’ultimo giovedì prima delle vacanze estive, Stefano fu sorpreso nel vedere Tinsae correre verso di

lui, raggiante.

“Mi hanno chiamato da Il Tragitto! Una persona si è offerta di finanziare la formazione di canto di

mia figlia, fino ai suoi diciotto anni!”

Poi, con un nodo alla gola, aggiunse:

“Chissà chi sarà stato questo bravo sponsor…”

Fece un balzo e abbracciò Stefano.

Finita l’estate, Stefano iniziò la quarta liceo. Il suo lavoro di maturità era pronto. Stampato, rilegato.

Non restava che consegnarlo. Ma prima, voleva che Tinsae fosse la prima a leggerlo.

Un martedì, con la busta in mano, aspettò in biblioteca fino alle sei e mezza. Sentiva un leggero

solletico di nervosismo. Dopo uscì a girovagare nei corridoi, finché sentì cantare Alla fiera dell’est.

Si salutarono calorosamente e Stefano le consegnò la busta.

Senza aspettare un secondo, Tinsae la aprì e si mise a sfogliare il contenuto. Nel suo viso si leggeva

un misto di stupore e incanto. Guardò incuriosita Stefano, che sorrideva felice.

Ti piace, le chiese. Aspetto il tuo consenso prima di consegnare questo lavoro al professore.

Tinsae si sedette per terra per esaminare meglio pagina dopo pagina.

Stefano aveva disegnato un magnifico fumetto che raccontava tutta la sua storia. Era un’opera

colorata, intensa, straordinariamente espressiva.

È meraviglioso, Stefano. Ma.. come mai?

“Non riuscivo a raccontarti con le parole”, rispose lui. “Solo i disegni mi permettevano di esprimere

il tuo vissuto.”

Poi le annunciò che aveva scartato l’idea di fare l’avvocato. Avrebbe invece seguito una scuola

d’arte.

Disegnare la storia di Tinsae gli fece rivedere la propria.

Tinsae teneva il fumetto stretto al petto. Stefano la salutò con un semplice, ultimo:

“Grazie”, e si diresse verso l’uscita.

A un tratto, si voltò di nuovo verso la giovane donna e le chiese:

“Vuol dire qualcosa, Tinsae?”

Lei sorrise, divertita.

“Si. Risurrezione.”

Stefano rise e disse:

“Già, che domanda.”

Una domenica, poco prima di Natale, la figlia di Tinsae si preparava a cantare nel saggio del

Conservatorio. Era un po’ nervosa. Sapeva che il giovane che le finanziava gli studi sarebbe stato

seduto accanto alla mamma, in prima fila.Quando fu il suo turno, fece tre profondi respiri, come le aveva consigliato il suo insegnante. Poi,

camminando lentamente, prese posto al centro del palco. Vide subito la mamma che la salutava.

Anche il ragazzo accanto a lei le fece un segno amichevole con la mano. Gli sorrise.

Era emozionata.

Il pianista iniziò a suonare, e subito dopo la bambina lo raggiunse con il suo canto.

Stefano sentì un brivido caldo attraversargli il petto. Una voce limpida e un’armonia perfetta

riempivano la sala con le parole di Nella Fantasia di Ennio Morricone:

Nella fantasia io vedo un mondo giusto

Lì tutti vivono in pace e in onestà

Io sogno d’anime che sono sempre libere

Come le nuvole che volano

Piene d’umanità in fondo all’anima

Stefano si accorse di non essere l’unico ad avere gli occhi lucidi. C’era persino chi tirava fuori un

fazzoletto.

Si voltò verso Tinsae, certo di vederla piangere per la terza volta.

Invece, no.

Tinsae, sopraffatta dall’orgoglio e dalla gioia, guardava meravigliata sua figlia.

Con occhi asciutti e scintillanti.

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