Premio Racconti nella Rete 2025 “Funzione d’onda” di Roberta Torsani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025A Malamocco l’aria schizzava di luce, entrava dritta nell’acqua, trafiggendola di giallo, mentre l’acqua si increspava lievemente attorno alle palafitte. Sembrava che la luce scavasse un piccolo pertugio nell’acqua, veniva voglia di metterci le mani dentro e forzarlo un po’, come fanno i bambini con i buchi nei pantaloni, un po’ per cercare di aggiustarli e un po’, invece, per vedere com’è trasgredire a una tra le prime regole genitoriali: che è vergogna andare in giro con i pantaloni bucati. Allo stesso modo veniva voglia di trasgredire alla regola fisica che l’acqua non si può bucare, spostare semmai; veniva da pensare, osservando la luce nella sua potenza tagliente e invincibile, che fosse in grado di riscrivere tutte le regole della fisica.
Di quella luce ne avevamo un ricordo. Lontanissimo, di quando il tempo ancora non era misurabile in fattualità, ma era solo attesa. Quella memoria era impressa nel nostro DNA mitocondriale, ci era poi stata trasmessa da generazioni e generazioni di madri, la vedevamo e ne percepivamo un primordiale ricordo, di quando i corpi fluttuavano e galleggiavano. Quella remotissima volta abbiamo visto per la prima volta la luce entrare e illuminare tutto quel buio, lì nel brodo primordiale, ed eravamo vicini; nel buio che precede tutti gli inizi abbiamo aspettato uno accanto all’altro di diventare essere. In quell’attesa ci siamo toccati, forse anche un po’ scontrandoci: è così che abbiamo avuto una nostra prima forma di conoscenza. In modo primitivo abbiamo percepito il volume dell’altro, lo spazio che ne occupava, la sua forma e quali ne avrebbe assunte in futuro. Probabilmente su di te ho fatto, fin dalla notte dei tempi, supposizioni, immaginando la forma del tuo corpo, ipotizzando quale sarebbe stato il nucleo di tutte le tue potenzialità. Quella è stata la prima volta.
Poi, anni luce dopo, ci siamo rivisti in Laguna; forse i nostri sensi si sono ricordati di quei momenti ancestrali; ci siamo guardati da gondole che transitavano in senso opposto. Quaranta secondi, se si calcola che il gondoliere ce ne mette più o meno venti per completare, con il braccio, il movimento circolare che gli permette di vogare. Il tempo di due vogate, dunque, durante le quali ci siamo chiesti perché non sapessimo quali fossero le calli che portavano alle rispettive case e stanze. In quella Venezia della seconda metà del Cinquecento, indecente e puttana, aristocratica e sontuosa, fuoco d’artificio di gente, colori e dialetti, odori di spezie mescolati a quello del sale, barche, acque, gabbiani, palafitte, mercanti, dedali, il tempo concessoci è stato di quaranta secondi e di uno sguardo.
Fino a quel momento il tempo era rimasto una possibilità sospesa, un’onda che fluttuava senza fissarsi in una forma; ogni possibile avvenimento esisteva in uno stato di sovrapposizione, indistinto e potenziale. Poi è arrivata quella registrazione — una traccia fisica e concreta data dalle gondole, dalle vogate e dagli sguardi — e qualcosa è cambiato. L’atto stesso di misurare, di osservare, ha imposto all’universo una decisione. La funzione d’onda temporale è collassata, scegliendo un solo punto fra i tanti che avrebbe potuto essere. In quell’attimo, il tempo è diventato realtà, concretizzandosi in modo asincrono rispetto a noi, che siamo scivolati in altre vite e in altre storie, in altri tempi ancora. In quella storia di Venezia tu farai parte del Consiglio dei Dieci, io sarò processata come eretica. Tu vivrai il tuo patriziato veneziano, stanze sontuose, arte, cortigiane.
L’altro sguardo è stato nel 1997, al 33 di Via Zamboni, fuori dall’aula aspettavamo il professor Artosi, tu eri appoggiato allo stipite della porta, io in corridoio: anche il quel caso in nostri corpi erano dislocati nello spazio in modo opposto. Un altro breve istante. In aula Artosi ci sfidava intellettualmente, interrogandoci sul perché i sensi non potessero essere considerati un elemento fondante e certo della conoscenza del reale, piegava leggermente la testa di lato e sorrideva civettuolo, come se flirtasse con Hume. Un semestre in cui i filosofi empiristi e quelli razionalisti se la sono giocata fino alla fine, non mi ricordo chi avesse vinto. Di certo io ero per i razionalisti, tu per gli empiristi. Mi ricordo i tuoi pensieri luminosi su strutture grammaticali solide: fonologia, morfologia e sintassi sicure. – La grammatica è fondamentale, il modo in cui una persona sceglie di dare una forma alle parole riflette il mondo che vive e il pensiero che lo abita. Le parole usate e la scelta di come farle interagire tra loro indicano la capacità, o meno, di sapere produrre bellezza e armonia, oppure cacofonia e frastuono umano, oltre che linguistico -. Le tue parole erano belle.
Scrivevi appunti con una grafia svolazzante, usavi le abbreviazioni, ci scambiavamo gli appunti quando il corso di filosofia si sovrapponeva negli orari a quello di letteratura contemporanea. Tra i tuoi appunti era annotato, in un margine in alto, il tuo numero di cellulare. Non siamo mai usciti insieme, abbiamo vissuto Bologna frequentandone gli stessi posti, ma in modo asincrono. Ci siamo rivisti dopo la laurea, poco prima che io partissi per Buenos Aires; avrei voluto baciarti, forse anche tu, ma la funzione d’onda non è collassata nel momento giusto. Tu saresti partito, poco dopo, per Londra. Di nuovo altre storie ed altre vite.
Nel mio ultimo trasloco, quello del 2023, il più doloroso di tutti, ho ritrovato i miei libri dell’università, tra quelli c’erano i tuoi appunti.
Nel tuo appartamento di Ancona la luce entrava dalla finestra in modo obliquo, passava tra le tende bianche come i raggi laser di una spada. Guardandola, ho pensato a te come a un cavaliere Jedi; so che non avresti apprezzato tanta distopia per cui ho lasciato il pensiero galleggiare nell’aria, senza esplicitarlo. Ti ho sorriso. Ho capito che avevi intravisto la traiettoria di quel mio pensiero, quando ti ho visto con la faccia ironica. – Sapevo che mi avresti detto che gli unici cavalieri, per te degni di nota, erano quelli di Re Artù, mentre io ti avrei risposto che all’università quelli che si iscrivevano a Storia Medievale erano tutti fascisti, oltre ad avere fidanzate in stile donna angelicata. Per me tutto molto inconcepibile. Allora mi avresti apostrofata con “tu non cambi mai”, mentre io ti avrei replicato che era una battuta già detta da Redford in un film vecchissimo, in cui i due si amano ma poi lui lascia lei, perché per lei tutto richiede impegno e sacrificio, lui svende un po’ i suoi sogni da ragazzo ma fa carriera, con meno impegno e sacrificio di lei. Avremmo litigato, a quel punto -. Ma avevamo nuotato vicini nel brodo primordiale, ci siamo osservati mentre ci formavamo ontologicamente, sapevamo esattamente quali erano i nostri pensieri, li vedevamo fluttuare come palloncini sul soffitto di casa tua; conoscevamo, dunque, le nostre rispettive perimetrazioni, il confine entro il quale rimanere. Fedeli a un duro accordo … come l’incipit di una delle tue poesie preferite.
Potrebbero esserci due fotografie di quel giorno in quell’appartamento, due distinti punti di vista fotografici: un primo piano su indumenti accartocciati a terra, avviluppati in maniera indistinta, come lunghi filamenti di una medusa. Questa è una foto a colori, impregnata di toni e di luce. L’altra, un grandangolo in bianco e nero, imprime lei nuda, con un paio di sandali con tacco alto a stiletto ai piedi. È stesa sul letto, mentre lui è in piedi a guardarla, spalle alla finestra. Se a questa foto qualcuno volesse inserire un dialogo, sarebbe un botta e risposta secco tra i due, in cui lui è il primo a prendere parola:
– Potresti essere una visione alla Helmut Newton –
– Come sei anni Ottanta, la sessualizzazione dei corpi femminili è passata di moda –
– Non è sessualizzazione, è esaltazione della bellezza femminile –
– E allora prendi atto che hai una idea della bellezza femminile tremendamente maschilista –
– Sei tu che devi prendere atto che hai paura della forza della bellezza, in particolare della tua -.
Forza e bellezza non erano una coppia di analogie alla quale lei avrebbe mai fatto riferimento, non insieme perlomeno. Alla forza ci associava una formula fisica, oggettiva e scientifica che le dava sicurezza per la non dubitabilità dei dati e del fenomeno misurabile, dato da una accelerazione e dalla massa di un oggetto. Le piaceva la razionalità degli elementi e la loro calcolabilità, nulla messo in discussione da percezioni soggettive e sensoriali. Alla bellezza correlava le gesta mitiche di figure eroiche ed antiche, il Prometeo che ruba il fuoco e che stoicamente resiste alla punizione di Zeus. Soggettivamente non si riteneva bella e, sempre soggettivamente, non credeva di avere abbastanza forza per potere sopravvivere all’ultimo evento della sua vita.
Lui aveva impresso nell’amigdala il suono delle scarpe, le sue, mentre camminavano sui marmi del pavimento di Palazzo Ducale. La memoria uditiva di quel preciso suono lo aveva accompagnato in molte sue vite. Aveva continuato a pensare, dal suo ciclo vitale veneziano, che la bellezza ha innumerevoli forme e che, nella soggettività della sua interpretazione, si racchiudesse la sua forza. Aveva promesso a sé stesso di circondarsi di bellezza e che nessuna logicità dei suoi scorpori IVA, di cui si occupava in questa vita, gli avrebbe tolto la capacità di vederla e viverla. Credeva all’empirista certezza che i sensi fossero l’unico mezzo di conoscenza possibile. Al netto di tutte le esperienze tragiche della sua ultima vita – sotto il segno della falce – viveva con forza e prospettiva futura.
In quella stanza, tra i due, i sensi erano esplosi come fuochi d’artificio in una notte d’estate. Se fossimo stati ancora in quell’aula di Via Zamboni, Artosi ci avrebbe sfidati chiedendoci se tutto ciò dovesse essere catalogato come una impressione sensoriale oppure come una assunzione, esplicita, di verità.
Qual era il significato e quale l’esperienza? Verso quale idea o riflessione li portava quella esperienza?
Il modo in cui i due avrebbero misurato l’esperienza, avrebbe nuovamente fatto collassare la funzione d’onda in un punto esatto, facendo diventare una realtà precisa le loro infinite possibilità. Il modo in cui avrebbero deciso di misurare quella mattina insieme, avrebbe ancora una volta decretato se avessero dovuto attendere altre vite, oppure no.
Da Malamocco ti ho mandato un whatsapp.
“Ti aspetto a Venezia, solo per una notte, in cui vale tutto”.
Ho aspettato che le spunte diventassero blu e poi, mentre i puntini mi segnalavano iconograficamente che mi stavi rispondendo, ho avuto la percezione che mi avresti portato un paio di sandali con tacchi vertiginosi, color verde acqua.
Ti ho immaginato sorridere mentre, indossandoli, avrei sussurrato “la bellezza”.
Ho sperato che fosse anche la tua percezione, poi ho atteso il collasso della funzione d’onda.