Premio Racconti nella Rete 2025 “Il rifornimento” di Luca Fornaini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025L’autunno è una stagione ricca di colori sorprendenti anche quando si sale in quota dove però occorre essere sempre preparati agli improvvisi mutamenti delle condizioni meteo; l’ambiente montano può infatti variare nel breve. I colori autunnali del paesaggio avvolto dalla nebbia, a volte capita, spariscono e ci ritroviamo circondati dalla sorprendente monocromia del grigio, oppure…
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La stagione estiva, quell’anno, arginò egregiamente l’ingresso di quella autunnale così ché, alla fine del mese di ottobre, mi trovai con le amiche e gli amici di sempre a percorrere i sentieri delle Alpi Apuane con un inconsueto abbigliamento estivo.
Per il week end successivo, il primo del mese di novembre, avevo preso l’impegno con altri soci del Club Alpino di salire al Rifugio Rossi alla Pania per il necessario rifornimento di legna e provviste in vista dell’inizio della stagione invernale.
I lavori di ristrutturazione ed ampliamento della struttura della Sezione di Lucca erano stati terminati l’anno precedente ed in tutti noi, soci attivi e nei gestori, si era diffuso un nuovo entusiasmo ed uno spirito di squadra rivolti a mantenere efficiente il nostro bel rifugio, ora dotato pure di una teleferica di servizio con la quale far salire provviste e materiale di ogni genere.
La partenza dalla città, programmata per il sabato mattina, avvenne da Porta San Pietro dove si erano radunate quattro o cinque auto e due furgoni carichi di materiale di vario genere ed un pacco di coperte di lana nuove.
Giovanni e Faliero partirono subito con la prima automobile in modo da raggiungere, in anticipo sugli altri, il rifugio e calare a valle il carrello della teleferica fino alla stazione di partenza dove saremmo giunti più tardi noi con tutto il carico.
Le condizioni meteo erano buone ma le previsioni per il giorno successivo non erano un granché ed io mi ero portato nello zaino del vestiario di ricambio in previsione di prendermi il primo acquazzone autunnale.
Ai raduni mattutini c’era sempre qualcuno che giungeva in ritardo adducendo le scuse più assurde; era una prerogativa dei ritrovi per le gite domenicali ed anche se quel giorno era di sabato non mancò di verificarsi il caso. D’altro canto non potevo certo protestare io che proprio due domeniche prima, in occasione di una gita sociale in Appennino organizzata da Giampiero, ero rimasto a letto e solo perché Romeo mi aveva suonato al citofono svegliandomi non vedendomi sotto casa per l’ora stabilita, avevo potuto partecipare all’escursione.
Raggiunto il bivio dell’Alpe di Sant’Antonio la carovana di vetture aveva percorso la sterrata fino al Pigliònico per poi salire lungo una vecchia carrareccia di cava e raggiungere il piccolo spiazzo da cui parte la teleferica.
Giovanni aveva delegato sua figlia Monica a caricare il carrello del primo viaggio con un determinato ordine e a tal proposito era stato stabilito fin dal mattino che le prime due auto che dovevano percorrere la ripida strada di cava dovevano essere le due Panda 4×4 che trasportavano i viveri.
L’altra vettura e i due furgoni, data la ristrettezza degli spazi di manovra, dovevano tassativamente aspettare sul piazzale della piccola cava abbandonata posto poche centinaia di metri prima del punto di partenza della teleferica.
Vi giungemmo poco prima delle dieci, proprio mentre sentimmo mettere in funzione il motore dell’impianto a fune situato 400 metri più in alto. Dopo poco, assieme a Monica, vedemmo sbucare, tra il fogliame color giallo intenso della faggeta, il carrello rosso da riempire per il primo viaggio.
L’impianto era in grado di trasportare circa 150 chili di materiali e per regolarci sul primo carico ci fidammo delle indicazioni che Giovanni ci impartì via radio dalla stazione di arrivo.
Ridiscese le due vetture fu fatto salire il primo dei due furgoni che raggiunse a fatica lo spiazzo posto a fianco del cavo portante lungo il quale, da lì a poco, discese nuovamente il carrello. Effettuata la seconda carica indossai lo zaino e assieme ad altri del gruppo presi a salire lungo il “sentiero del pastore” : servivano infatti nuove forze su al rifugio per trasportare il materiale scaricato a fatica da Faliero e Giovanni.
Dalla stazione di arrivo al rifugio Giovanni si serviva di una carriola motorizzata a cingoli, vi era quindi la necessità di sistemare quanto trasportato su con la teleferica sul piccolo cassone cingolato per raggiungere il rifugio, posto una ventina di metri più in alto, lungo un sentiero adattato al passaggio del piccolo mezzo.
Lasciati i nostri zaini all’interno del rifugio, dove c’era chi si era incaricato di preparare per il pranzo, discendemmo alla stazione di arrivo della teleferica e cominciammo a caricare la carriola a cingoli; qualcuno, tra i più forzuti, prese invece in spalla i pacchi più maneggevoli risalendo le poche decine di metri di sentiero fino al rifugio.
L’andirivieni proseguì per tutta la mattina, sia per i viaggi in teleferica dei materiali che per la carriola motorizzata e gli agili trasportatori a spalla; poco dopo le quattordici fu dato l’ordine di salire tutti per il pranzo e, spento il motore a gasolio della teleferica, Giovanni si caricò in spalla il pacco delle coperte per raggiungere gli altri a tavola.
“Chi mangia per primo finirà per primo e quindi avrà l’onere di iniziare a far salire i materiali rimasti giù fuori dal locale motore mentre Monica e gli ultimi tre che stanno salendo pranzeranno in un secondo turno”. Disse Faliero servendo in tavola la pasta fumante per noi più fortunati del primo gruppo.
Dopo una mela e il caffè, mentre mi apprestavo assieme a Giovanni ad uscire fuori dal rifugio per riprendere il lavoro, giunsero gli altri soci che con Monica avevano completato l’ultimo carico all’interno del cassone rosso che poco dopo avremmo fatto salire: “Buon appetito”, dissi mentre indossavo la giacca. “Sarà meglio accendere la stufa per stasera, fuori la temperatura è già scesa di tre gradi rispetto a stamani!” Fece Giovanni rivolto ai nuovi arrivati e ci incamminammo verso il fabbricato in acciaio e legno che ospita il motore ed il carrello della teleferica.
Prima che calasse la luce del pomeriggio dovevamo completare il trasferimento dei materiali su al rifugio. Iniziai quindi a caricare lattine, bottiglie e pacchi di pasta sul cassone del cingolato mentre Giovanni faceva rifornimento di miscela al piccolo mezzo: “Ancora due viaggi e potremo chiudere i materiali rimanenti dentro il casello della teleferica”. Disse Giovanni mentre si accingeva a far risalire il cassone con l’ultimo carico.
Con i motori accesi non fu più possibile comunicare se non a gesti, il rumore assordante mi costrinse ad uscire dal locale mentre il motore faceva avvolgere attorno alla bobina il cavo traente.
Il cavo portante rimase invece immobile fin tanto che il carrello non ebbe scavalcato l’unico cavalletto intermedio dell’impianto, posto cento metri più in basso, poi prese ad oscillare; le sue vibrazioni diminuirono con l’arrivo del carrello.
Giovanni ridusse progressivamente i giri del motore fino al lento ingresso del carico all’interno della stazione di arrivo della teleferica; a quel punto innestai la marcia della carretta a cingoli e presi a salire con il suo passo verso il rifugio.
Cercammo di stivare provvisoriamente i materiali trasportati con un certo ordine nella stanza d’ingresso del rifugio, quella che noi chiamiamo in gergo “locale invernale” perché rimane sempre aperta a disposizione di ogni escursionista che si trovi a percorrere i sentieri di queste montagne anche nelle giornate in cui il rifugio è chiuso senza alcun presidio.
Il risultato non fu granché in fatto di ordine, però fu importante che quando calò la luce e fu buio, tutte le provviste ed i materiali necessari alla gestione della struttura nell’imminente periodo invernale, si trovassero al riparo, in buona parte su al rifugio ed in parte giù all’interno della stazione di arrivo della teleferica.
Il cielo era coperto, il vento completamente assente e nonostante ciò la temperatura era “in picchiata”; la potemmo rilevare illuminando con la torcia il termometro affisso sul muro esposto a nord del rifugio, la colonnina di mercurio segnava 4°.
Pensai allora di coprirmi utilizzando tutti gli indumenti che mi ero portato su nello zaino ma, entrato all’interno del rifugio, mi resi conto che non sarebbe stato necessario. Faliero aveva acceso la stufa a legna e in cucina Monica si era già messa al lavoro per preparare la cena. La temperatura interna salì ben presto e nei locali così affollati iniziammo tutti ad alleggerirci delle giacche.
Qualcuno si spostò nella camerata preparando la propria cuccetta, altri, seduti al tavolo di fronte ad una tazza di the fumante , parlavano tra loro di imprese alpinistiche avvenute sulle Alpi e
in Dolomiti; io mi aggregai in cucina, come manovalanza, per aprire scatole di fagioli e di pomodori pelati e rimestare ogni tanto con il mestolo di legno la polenta che cuoceva lentamente nel paiolo.
Alle 19,30 iniziammo a preparare i tavoli apparecchiati: “Ci stiamo precisi!” Disse Giovanni. “Anzi no, avanza un posto”.
E raccontai allora come per il cenone dell’ultimo dell’anno fossimo stipati all’inverosimile nella sala da pranzo: 34 commensali ospiti del rifugio, un vero gioco ad incastro, considerata la effettiva superficie calpestabile della struttura.
“Siamo sopravvissuti come vedete, vero Luca?” Intervenne Monica affacciandosi alla porta di cucina con un grosso tegame fumante tra le mani contenente salcicce al sugo con i fagioli.
Intanto Giovanni aveva iniziato a sporzionare la polenta nei piatti e a deporli nel passavivande affinché qualcuno in sala li servisse in tavola.
Faliero portò le caraffe dell’acqua e del vino rosso invitando gli ultimi della congrega, rimasti ancora in piedi, a prendere posto ai tavoli.
“Dai che siamo un bel gruppetto stasera!” Fece Monica sedendosi meritatamente al tavolo. “E buon appetito a tutti!” Concluse, mentre Giovanni prendeva posto seduto accanto a sua figlia.
Dato che a tavola non si invecchia, nemmeno in alta quota, terminata la cena rimanemmo seduti “a chiacchera” ancora a lungo, chi sorseggiando una tisana fumante e chi l’immancabile bicchierino di “grappa del contadino” distillata personalmente da uno dei soci nell’occasione denominato da Faliero “il re dell’alambicco”; poi iniziammo la lunga trafila dei preparativi per cambiarsi ed andare a dormire.
Mi arrampicai fino alla mia cuccetta, posta al 3° livello, dove faceva ancora caldo e provai a prender sonno tra il sommesso parlottare degli ultimi che dovevano ancora coricarsi.
Giovanni rientrò dopo aver chiuso la porta: “Sono uscito ed è ancora tutto coperto, il termometro segna 2°”.
La notte passò tranquilla, eravamo tutti sufficientemente stanchi per la lunga giornata di lavoro e ci sarebbe voluto davvero un buon motivo per restare svegli nel silenzio assoluto di quella “notte a sorpresa” isolati a 1600 metri di quota.
Prima di addormentarmi pensai a quante volte da bambino avevo desiderato dormire in un luogo sperduto, “in cima a un monte” e magari pure in condizioni estreme: con un temporale estivo in corso o una bufera di neve o in una gelida notte invernale in cui milioni di stelle sembrano stare lì, sopra la tua testa, ad ammirarti per la tua incredibile impresa compiuta di salire più su, vicino a loro e alla luna che gioca a nascondino dietro una nuvoletta solitaria.
Faliero chiuse l’erogatore posto sopra la bombola del gas per spegnere le luci e con la torcia accesa si diresse verso la sua cuccetta, poi aprì lo sportello di ghisa ed allargò le braci nella stufa in modo che il fuoco “andasse a morire”: “Buonanotte, a domani!” E fu il silenzio assoluto.
Al mattino aspettai che qualcun altro scendesse prima di me e magari caricasse pure la stufa in modo da scaldare un poco l’ambiente e alla fine mi decisi a scendere prima che si formasse la fila per andare in bagno. Quando scesi nel locale di ingresso vidi un leggero biancore oltre la grande finestra e capì cosa era successo durante la notte: era nevicato, non molto, tant’è che i ciuffi di paleo sbucavano fuori dal manto, però l’accaduto mi riempì di gioia.
Quando rientrai Giovanni aveva aperto gli scuri della finestra della camerata e con grande stupore scorgemmo fuori una donnola, anche lei sorpresa e disorientata per la precoce nevicata, che si muoveva a scatti guardando qua e là per niente impaurita. Poi qualcuno di noi nell’altra stanza, fece rumore e il piccolo animale sparì dalla nostra vista rintanandosi chissà dove.
Monica nel frattempo era entrata in cucina ed aveva acceso i fuochi per preparare le colazioni.
Indossati il giaccone ed il berretto imbottito di piume, mi apprestai ad uscire per capire come le condizioni meteorologiche stessero evolvendo; la colonnina di mercurio era ferma sullo zero ed il rifugio era avvolto in una fitta nebbia che a stento consentiva di scorgere il tetto del casello della teleferica e gli ultimi faggi che lo circondano.
Calpestai per pochi metri la neve immacolata, scambiai due parole con altri del gruppo pure essi usciti a vedere l’inatteso spettacolo, poi tutti rientrammo per fare colazione.
Il fuoco, riattivato nella stufa con qualche ciocco di legna ed il caffè con il latte fumanti, fecero destare gli ultimi pigroni rimasti nelle cuccette poi, ben coperti, uscimmo di nuovo per cercare di completare il trasferimento nel rifugio di quella parte di provviste lasciate giù alla teleferica.
Con tre viaggi del piccolo cingolato riuscimmo ad ultimare il trasporto mentre all’interno del rifugio Faliero, Monica e Giovanni sistemavano in cucina le provviste e parte della legna per la stufa.
Poco prima di mezzogiorno riprese a nevicare, la nebbia non consentiva di scorgere nemmeno la Pania Secca né il Naso dell’Uomo Morto situato cento metri sopra di noi, così fu presa la decisione di anticipare l’ora del pranzo e scendere a valle subito dopo, prima che il manto nevoso, caduto in abbondanza, impedisse alle nostre automobili di riportarci a casa.
Mangiammo un piatto caldo con la stufa scarica che andava velocemente raffreddandosi, poi i primi quattro del gruppo che con i furgoni potevano avere maggiori problemi a scendere, si avviarono lungo il sentiero imbiancato.
Mentre Faliero e Monica mettevano in ordine la cucina fui incaricato da Giovanni di preparare due sacchi dell’immondizia con i nostri residui da scendere a valle; ricomposti poi i miei oggetti nello zaino mi vestii per uscire a sganciare gli scuri delle finestre che man mano Faliero chiudeva dall’interno.
Giovanni chiuse l’erogatore del gas e con la torcia di Faliero uscimmo tutti alla poca luce di quel pomeriggio grigio: aveva smesso di nevicare e mentre infilavo guanti e berretto detti un’occhiata alla colonnina di mercurio. Il termometro segnava 1° sopra lo zero, ciò voleva dire che, scendendo per 500 metri di quota ed in caso di precipitazioni, avremmo trovato pioggia.
Mi feci caricare sopra lo zaino uno dei due sacchi e presi a scendere insieme al gruppo.
Percorrendo il sentiero su quella poltiglia di neve e fango c’era da prestare attenzione ad ogni passo, infatti non tardò a verificarsi il primo scivolone, fortunatamente senza conseguenze per uno di noi; entrammo poi nella faggeta dove la quantità di neve a terra andava via via diminuendo.
“Fortuna che al Pigliònico ha solamente piovuto!” Disse Monica che si era accodata assieme a me al gruppo. “Tra poco dovremmo dividerci per recuperare la Panda lasciata ieri sotto la teleferica”. Dissi percorrendo gli ultimi tornanti del sentiero poco sopra i ruderi in pietra di un antico edificio di pastori e carbonai.
Arrivati alle auto, parcheggiate subito dopo la cappella commemorativa dell’eccidio di una Brigata Partigiana nel 1944, riprese a cadere una leggera pioggerellina e mentre caricavamo i nostri zaini nei portabagagli sentimmo scendere la Panda lungo la sterrata proveniente dalla teleferica.
Prima di salire in auto guardai la faggeta attorno a noi: le ultime foglie autunnali presenti la mattina precedente erano cadute, la prima nevicata aveva dato già l’aspetto invernale al bosco e alla montagna ed il tanto decantato autunno, per quell’anno, dovette soccombere in anticipo all’arrivo di una nuova stagione.
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