Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Il gatto della mia vicina” di Alberto Marrias

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Il gatto della mia vicina è un grandissimo bastardo. Mi scavalca il cornicione, mi va sul terrazzo e mi ci caga dentro. Me lo fa apposta, tutte le sante volte che non ci sono. Io vivo in un piccolo monolocale, dentro una vecchia palazzina tutta sgarrupata. Mi ci sono trasferito da poco, dopo la separazione. A pensarci bene, con tutte le cose da pagare, è già tanto che un tetto sopra le testa me lo ritrovo ancora. Perciò, va bene così. Comunque, abito in questo piccolissimo appartamento, all’ultimo piano. In realtà, i monolocali sono due. Speculari. In uno ci sto io e nell’altro, mi sembra di averci visto una ragazza, che dovrebbe avere un gatto. E se non sbaglio, il nome di questo gatto è Romeo. Spesso sento la padrona che lo chiama così, quando non lo trova. Il piccolo bastardo è proprio lui. Piccolo, un corno! È una palla di pelo gigante, con le zampe che gli si vedono a mala pena e una coda che sembra uno spolverino. È l’antitesi della snellezza e dell’agilità, ma ho come l’impressione che ne vada fiero. Mentre si fa le passeggiate in giro per lo stabile, se appizzi bene le orecchie, sembra che abbia il fiatone. Secondo me, è castrato. Che poi a pensarci bene, vista la fine che ho fatto io, un po’ lo invidio. Ma non è questo il punto. Il punto è che la bestiola mi ha preso di mira. Ha deciso che il mio terrazzo è diventato il suo cesso personale. La cosa incredibile è che mi caga sempre sulla stessa mattonella. Io vado in coma, ve lo giuro. Ormai è un chiodo fisso. Quando alla sera rientro, la prima cosa che faccio, dopo aver chiuso la porta di casa, è andare a controllare. Mi tolgo la giacca, poso le chiavi e la borsa del lavoro, vado alla finestra, alzo la tapparella e quella cagata sta sempre là. Immancabile.

Ho provato di tutto, per farlo smettere. Mi sono fatto consigliare, andando nei negozi specializzati e spendendo l’ira di Dio. Ho comprato repellenti di ogni tipo, spray, gel, liquidi, incolore, inodore, sonori, fissi, mobili, ma niente. Non ha funzionato. Solo soldi buttati. Poi, ho provato con i rimedi di una volta. Che qualcuno conoscerà bene, perché i miei nonni li usavano e mia madre e mio padre, pure. La scena che mi sono ritrovato davanti è abbastanza inquietante. Avete presente tutte quelle statue, raffiguranti guerrieri, messe perfettamente in fila, che sono state ritrovate in una regione della Cina? Le hanno chiamate l’Esercito di Terracotta. Ecco, la stessa cosa, solo che al posto delle statue di terracotta, avevo decine e decine di bottiglie di plastica con dentro l’acqua. Lo so, mi sarò fatto prendere la mano, perché le bottiglie dopo un po’ le ho dovute togliere di mezzo. Sul pavimento non ci si raccapezzava più e restando fuori per molto tempo, si erano tutte accartocciate e l’acqua dentro era diventata schifosa.

Ad un certo punto, ho deciso di giocarmi la carta della razionalità scientifica. Dovevo studiarmi la situazione, se volevo battere il nemico. Un felis domenisticus che tiene sotto botta l’erede dell’homo sapiens, non si poteva sentire. E c’era una cosa, su tutte, e forse l’ho già ricordata, che mi mandava ai pazzi. La precisione millimetrica, da cecchino, nel posizionare quelle feci. Cioè, perché sistematicamente lì? Ora, leggendo e documentandomi, le ragioni potevano essere diverse. Si parlava di comportamento territoriale, di necessità di privacy, di sensibilità all’ambiente, in alcuni casi, addirittura, di segnali circa possibili problemi di salute. Quest’ultimo aspetto in realtà lo escludevo a propri: se tanto mi dava tanto, il micio godeva di ottima salute. A questi ragionamenti, mi veniva di aggiungerne un altro. Quasi rapito da un lampo di autocoscienza, mi sono chiesto: «Ma per me come funziona?» ossia, il sottoscritto va nel suo bagno ogni volta che ne ha necessità, per il semplice fatto che il suo bagno sta in quel posto, fisicamente intendo, e non da un’altra parte. Mi sembra logico e conseguenziale. Non è che una volta la piazzo sul corridoio, un’altra in camera da letto e un’altra ancora in cucina. Per lui doveva funzionare alla stessa maniera. Su quella fantomatica mattonella, c’era il suo water. Solo che io non lo vedevo, ma la palla di pelo, sì. Sarà stato l’olfatto, la chimica, roba di molecole, il quadrotto di quarzo dove si organizzava non cambiava mai. E allora, una sera, ho avuto come un’illuminazione. «Adesso ti frego io. Il tuo bagno te lo faccio sparire» ho pensato. La mattonella l’ho coperta con un secchio, i classici da esterno, quelli blu di plastica col manico di ferro. Beh, non ci crederete. Quel miserabile mi ci ha cagato dentro. E quella notte non ho chiuso occhio per il rodimento. Mi veniva da pensare a lui che godeva come un riccio, mentre faceva il funambolo per fare dispetto a me.

Una volta, è successo quasi l’irreparabile. Tornato dall’ufficio, ho ripercorso tutta la sequela di azioni e mi sono ritrovo fuori, a vedere. Il caso ha voluto che beccassi pure lui, Romeo. Me lo sono visto sul davanzale, che avanzava con serenità stoica. Quella serenità che ti si stampa in volto, quando sei conscio di aver prodotto l’ennesimo capolavoro e per questo ti senti riconciliato con l’universo intero. Una gioia mista a grande soddisfazione. All’improvviso si è fermato e mi ha guardato. Anzi, per l’esattezza mi ha fissato. E io ho fatto uguale, ovviamente. Parevamo Charles Bronson ed Henry Fonda nel duello di C’era una volta il West. Solo che la bestiolina ha voluto inserire una variazione sul tema. Invece delle pistolettate, mi ha letteralmente sdegnato e lo ha fatto con un’aria talmente schifata, con un’insolenza da sbruffone, che non c’ho più visto. Mi sono guardato intorno e ho afferrato il mocio che mi stava a portata di mano. Non so cosa m’abbia fermato. Probabilmente la paura di fargli del male è stata più forte. 

E poi, c’è stata una sera. Sono rientrato a casa prima del solito. Fuori pioveva a dirotto. Non avendo trovato parcheggio nelle vicinanze, mi sono dovuto fare un bel pezzo a piedi. Ho corso il più veloce possibile, pensando che la mia velocità potesse superare quella delle gocce di pioggia in caduta libera su di me. Ovviamente, sono arrivato al portone della palazzina, zuppo dalla testa ai piedi. Dopo essere entrato, ho cercato di darmi un’asciugata e, mentre lo facevo, mi è parso di vedere una ragazza che parlava con un signore. Probabilmente, due inquilini della palazzina. Senza dare troppo peso alla cosa, mi sono diretto verso le scale, ma una voce mi ha bloccato.

«Tu dovresti essere il mio vicino di casa, giusto?»

Sono rimasto un attimo in silenzio. Era quella ragazza che mi rivolgeva parola.

Le ho risposto: «A questo punto, immagino di sì».

«Ciao, io mi chiamo Sara, piacere!»

«Alberto, ciao, piacere mio.»

«Tu e Romeo vi siete già conosciuti» ha aggiunto lei, sorridendo.

«Perfettamente» ho concluso io.

Ora, è chiaro che a questo punto della storia, ad uno verrebbe da pensare: dopo tutto ‘sto bordello, quale migliore occasione per dirgliene quattro alla signorina?

Invece, no. Non ho fatto un fiato. Peggio che alle interrogazioni di Latino. Lei, tra l’altro, era davvero carina. Carina, sul serio.

E allora la tipa ha rincarato la dose: «Senti, per farmi perdonare, ti va se ci prendiamo un caffè oppure ci mangiamo una pizza, anche questa sera, se vuoi».

Io ho sbiascicato qualcosa in quel linguaggio pessimo che appartiene solo alle grandi figure di merda. La ragazza, per fortuna, è riuscita a decifrare i miei rigurgiti primordiali e siamo rimasti che ci saremmo visti per le nove. Ci siamo confermati la pizza, e meno male: il caffè alla sera non lo prendo mai, sennò altro che Romeo.

A proposito, ancora un po’ umidiccio, mi sono diretto verso le scale, per andare a casa, darmi una sistemata e prepararmi per bene. In quel preciso momento, un solo pensiero ha attraversato la mia testa: ma guarda te, se a quello stronzo, adesso, non mi tocca pure di ringraziarlo. 

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