Premio Racconti nella Rete 2025 “Il nome che mai verrà ricordato” di Giada Marchetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025La ragazza dagli occhi di pietra fissava il mare di cristallo, cullata dal suono delle onde e persa nei suoi pensieri. L’acqua luccicava ai bagliori della stella Tegmine e il cielo era di un turchese pulito, nel quale brillavano altre piccole immense stelle lontane parecchi anni luce dalla costa. Una perseide sferzò la volta celeste, morendo subito dopo. La fanciulla dai capelli di seta contemplava il panorama da uno scoglio ferroso, all’interno della sua tuta: l’aria era irrespirabile e, avesse voluto togliersi ciò che in quel momento indossava, sarebbe congelata a causa dell’atmosfera inverosimile.
La sua chioma era stata resa a un taglio corto arruffato, i ciuffi che si intrecciavano e si annodavano fra loro come i pensieri; le iridi custodivano la neve e il ghiaccio di un inverno rigido, in maniera tale da raggelare chiunque li ammirasse; il volto vestiva di rughe e pieghe, segni delle lunghe sessioni notturne di ansia e paura che quella vita ingiusta le offriva, ed era infecondo di sorrisi e risate; la pelle era candida e liscia, ma mostrava con dignità graffi e lividi di una guerra senza pace. Il suo nome era estraneo a chiunque l’incontrasse: possedeva un nome, possedeva una voce, ma quel nome e quella voce erano destinate all’indifferenza e alla distruzione. Rifletteva da ormai troppo tempo sull’origine di quell’ambiente così grottesco: una leggenda narrava che quegli scogli rappresentassero l’esistenza di tutte le creature viventi dell’universo, mentre il mare cristallino fosse il male, il patimento, la tribolazione che domina gli esseri viventi e le proprie emozioni, che affligge le medesime esistenze.
Come vetri rotti che tagliano la carne, come spine che pungono i cuori e lacerano le interiora. Come l’acqua e la spuma che scolpiscono, logorano la pietra più dura. Le stelle invece, soprattutto Tegmine, simboleggiavano gli spiriti delle creature vittime del dolore stesso, l’anima di valorosi guerrieri che riposavano le proprie membra al riparo ombroso dopo tanta calura asfissiante. Quella bizzarra storia raccontava infine che, chicchessia si fosse immerso in quell’oceano oscuro, avrebbe scoperto la verità di ogni suo dubbio opprimente. La donna, seduta su quella possente roccia, inspirò a pieni polmoni l’ossigeno puro. Nella sua testa regnava la confusione e la sua vista era annebbiata dalla collera: troppe domande le gironzolavano di fronte e Lei era stanca di non riuscire a darsi risposta.
Più Lei si sentiva esausta e arrabbiata, triste, più il mare si agitava e s’infrangeva sulla riviera. Si alzò a fatica per colpa della gravità di quel pezzo di terra e vagò, non si sa dove: cercava di liberarsi dalla preoccupazione, dal panico, ma invano; tentava di sentirsi più leggera e tranquilla, invece sovrastata dall’angoscia dell’universo. Giunse alla riva, gli stivali bianchi venivano bagnati dalla schiuma, e lì prese una decisione: superare la battigia. La valicò, un poco indecisa, e, passo dopo passo, si ritrovò l’oceano sopra il proprio casco. Sospirò. Percepì il freddo di quel liquido così insolito. Alzò gli occhi e notò rifrangere i fasci di luce degli svariati soli. Abbassò poi le palpebre e vide i giochi dei bagliori rifratti esser sostituiti dalle tenebre. Guardò meglio e, di colpo, si ritrovò sulla stazione spaziale nominata “La Terra del Futuro”, ovvero una nave spaziale costruita da antiche generazioni di ingegneri e scienziati, alla ricerca di un riparo sicuro e confortevole dall’ormai vecchio e inquinato pianeta: era spaventata da ciò che stava accadendo, non lo comprendeva, difatti non riusciva a gridare e non sapeva come agire. Si voltò, alla ricerca di conforto, ma notò a primo impatto un calendario virtuale segnante orario e data, appeso a un cartello alle sue spalle: 24 Settembre dell’anno 4782, ore 11 e 30. Sgranò gli occhi e non fece in tempo a proferire parola che un ragazzo, dai capelli corvini e neri come gli occhi e la pelle abbronzata, da un braccio e una gamba di metallo rilucente, si scontrò con la giovane accidentalmente: si trattava di Blaze, un suo amico e compagno nella facoltà di cybermedicina.
La ragazza, allora, squadrò meglio ciò che le stava d’intorno: si accorse con grande interesse ma sproporzionata agitazione di esser finita nel cortile dell’università che frequentò da ventenne, un edificio che stava sia dritto sul suolo che capovolto sul soffitto, dall’aria sofisticata e futuristica. Alcuni edifici svolazzavano nell’atmosfera terrestre digitale, oltre a possedere una moltitudine di viottoli i quali, oltre ad andare a destra e sinistra, ti permettevano di passeggiare a testa in giù sulla volta o di scendere nelle viscere della navicella. Deglutì rumorosamente dallo stupore: si ritrovò nell’istante nel quale conobbe, soltanto di vista, quel taciturno compagno di studio. Il suo amico si scusò timidamente, puntando lo sguardo verso il basso e facendola riscuotere dalle sue riflessioni, e corse lontano per l’imbarazzo, in una direzione non definita. La sua immagine si fece sfocata insieme ai contorni, catapultando la fanciulla in un altro scenario: quella differente volta il calendario segnava la data del 7 Ottobre dell’anno 4782, ore 20 e 30. Era sera, un sole artificiale assieme ai suoi satelliti moriva sull’orizzonte della stazione spaziale, facendola scintillare dei riflessi e dei colori dell’oro, e la giovane continuamente non si capacitava di cosa stesse succedendo. Per quale motivo stava subendo quella sorta di viaggio nel tempo? E perché quest’ultimo le stava mostrando certi istanti vissuti proprio con quella persona?
Di punto in bianco, la figura di Blaze comparve in lontananza, sul ciglio di una lunga strada, le venne incontro e la salutò: quello fu il giorno del suo primo appuntamento con lui. Infatti il corvino vestiva di giacca e pantaloni eleganti, tirati a lucido. La ragazza si sforzò di sorridergli e ricambiò il saluto, nonostante provasse un forte ribrezzo verso il ragazzo. Purtroppo, Lei ricordava tutto di quella cena: di come si sporcò il vestito di nera plastica riciclata raffinata con il condimento della pasta, di come il cameriere androide sbagliò il conto aumentandolo sproporzionalmente, di come l’uomo cercava di approcciarla in maniera ridicola e di come la sé stessa del passato considerò quell’esperienza e quei modi di fare “romantici”. Pensava che quel ragazzo timido, quel fanciullo sempre imbarazzato e con la testa tra le nuvole potesse essere una persona piacevole e cara, romantica e splendida, gentile e buona. Pensava potesse essere la persona giusta. Passò nuovamente il tempo, passò di nuovo a un altro ricordo. 23 Maggio 4783, ore 4 e 34: la donna si ritrovò nel suo comodo letto, con a fianco Blaze appisolato. Il volto dell’uomo era appoggiato sul suo petto e questo russava, a tal punto da frastornarla. Che visione soave! Da poco erano diventati una coppia, da poco si abbracciavano e si baciavano, da poco si frequentavano e dormivano insieme, da poco si amavano. Si amavano con la mente, e non solo: si amavano con il corpo, fortemente. Aggressivamente.
Le venne un conato di vomito, che trattenne ingoiando a fatica: ricordare tutti quei frangenti passati con lui la facevano star male, le facevano venire il mal di stomaco. Nel suo animo esisteva ancora una bambina dai riccioli d’oro come il grano e gli occhi splendenti, dal sorriso caloroso e dal carattere ingenuo, la bambina che Lei era durante la sua infanzia; quella bambina credeva nella bontà e nella gentilezza della gente altrui, nel principe azzurro che avrebbe rischiato di morire per poter salvare la sua amata, nei piccoli gesti, nei cioccolatini condivisi in due e nelle strette al petto nelle quali proteggersi dal male dei cattivi, nell’amore vero. Quella bambina desiderava da grande una mano da stringere con tenerezza e da accarezzare, due iridi buffe nelle quali incantarsi, un profumo da indossare con gioia, infinite coccole donate con tenerezza, due braccia che potessero difenderla, una persona buona da amare. Desiderava un amore puro. Tutto ciò lo bramava, ma le venne invece negato: i desideri di Lei bambina divennero polvere, presero parte al vuoto per colpa di quella persona che, per Lei, doveva essere il suo principe azzurro. Venne il 19 Novembre del 4783, era mattina e la donna si ritrovò nuovamente nel letto. Assieme c’era Blaze: quella mattinata cercarono di amarsi, la ragazza sperava con dolcezza, ma il ragazzo graffiò di più la sua pelle, morse di più la sua carne, pugnalò di più il suo cuore. Le si formarono le prime contusioni e i primi graffi sulla faccia, sulla braccia e sull’animo di una lunga serie che sarebbe andata avanti in quella estenuante lotta. Nonostante le lacrime amare e il cuore spezzato continuava ad amarlo, convincendosi della frustrazione che doveva patire ultimamente il suo uomo. Lui l’amava a modo suo, se questo si può definire amore. I giorni passarono e vennero a infrangersi i sentimenti che Lei provava nei confronti di lui: quest’ultimo l’insultava, la picchiava, la violentava quasi tutti i giorni.
Quelli non potevano essere segni di ciò che lui provava per la donna, quello non poteva essere amore. Cosa la costringeva ad affrontare tale situazione? 14 Dicembre 4784, ore 16 e 38: corse dalla Space Justice, la polizia intergalattica, per cercare aiuto ma, non appena fu denunciato l’accaduto, fu presa per pazza. La sua voce venne ignorata. Ore 23 e 37: salì su uno dei palazzi più alti della stazione spaziale, tentò di ammazzarsi ma venne strascinata distante dal cornicione, venne riportata tra le mani ruvide e dure di Blaze. Da allora la ragazza cedette al flusso degli eventi, cedette alla sofferenza, cedette alla vita. Da allora, il suo corpo divenne solo carne insofferente. Subendo per la seconda volta quegli episodi, la fanciulla non fece a meno di vomitare: la sua relazione con quel ragazzo le procurava solo un vigoroso senso di disgusto. Assistere al suo passato senza fare niente per mutarlo, per migliorarlo le rappresentava uno scottante schiaffo sulla gota: avesse ragionato più seriamente e a fondo, avesse avuto la spinta di implorare aiuto alle persone giuste, sarebbe stata fra le braccia di chi la meritava davvero. Un manrovescio sarebbe stato meno doloroso rispetto alla cruda realtà.
Dinanzi a lei, in quell’istante, solo il buio; la ragazza venne sbalzata di colpo a un tavolo fluttuante e, disorientata, non riconobbe il momento. Comprese, solo leggendo l’anno dal calendario posto in un angolo della stanza, che doveva ancora viverlo: il mare stava per confessarle i suoi segreti più intimi. Anno 4785, un piccolo omino di ferro la raggiunse per versare del tè sia alla giovane che all’uomo davanti, il suo venturo marito. Fra qualche mese si sarebbero sposati, per poi trasferirsi prontamente su Teegarden B, la nuova Terra organica: contrariamente a quanto si potesse pensare squadrandola, Lei aveva timore riguardo al suo futuro e il compagno lo sapeva, ma quest’ultimo faceva finta di non vedere e non capire. Erano le tre del pomeriggio e uno dei loro androidi aveva appena portato la bevanda calda con biscotti appena sfornati, fin quando Blaze non rovesciò il tutto al suolo per un impeto di rabbia. La ragazza scattò in piedi, allontanandosi da lui e provando a reagire, ma questo la prese per un polso e cominciò a strattonarla. Si formò un nuovo livido vicino a tutti quelli che la fanciulla collezionava amaramente sulle braccia, mentre il marito la beffeggiò e le dette in pieno volto una sberla, rendendola tutta rossa. Cadde infine sul pavimento, i capelli poco più lunghi scarmigliati e le guance rigate da lacrime taciturne. Una risata di scherno si propagò per quel salotto così gelido, la quale scaturì tanti brividi sulla sua schiena. La scena si spostò al matrimonio: lui gioiva, contento di aver ottenuto ciò che era di sua proprietà; Lei fingeva di esser felice. Vennero rapidamente i giorni seguenti sul nuovo pianeta: lui con le mani su di Lei, Lei con il rimpianto di aver scelto lui.
No, non poteva sopportare tutto quello a cui aveva appena assistito: non avrebbe avuto l’energia necessaria, il suo corpo e la sua anima avrebbero ceduto immediatamente. No, non avrebbe dato al suo futuro marito la soddisfazione di vederla agonizzante e supplicante. La scogliera, l’oceano le avevano appena dato le risposte che lei stava cercando. Poteva ancora porre in lui la sua fede che, da un momento all’altro, potesse cambiare nella persona che cercava realmente? Nella persona che la potesse volere veramente bene? Che la potesse trattare come un essere umano, e non come un oggetto? Come un’insignificante bambola virtuale? Rumori di malfunzionamenti, avvisi di guasti, spie strepitanti invasero le orecchie della giovane; la sua visuale si colmò di rosso, un rosso scarlatto, il rosso dei monitor accessoriati all’uniforme e del sangue umano. La ragazza prese un gran respiro e inghiottì l’acqua del mare, che alla fine si scoprì esser vero cristallo e vero vetro soffocante e tagliente. La donna decise di togliersi il casco per non subire quegl’istanti venturi appena visti, per la verità appena palesata, per ogni suo interrogativo ormai messo a tacere.
Tegmine divenne più luminosa e, alla fine, il suo nome venne pronunciato insieme ai nomi delle innumerevoli anime perse. Perse, ma poi ritrovatesi nell’astro; perse e dimenticate ma le quali, nella loro vita, compierono gesta eroiche. Infatti, il sacrificio della ragazza non fu vano: dopo ricerche da parte della polizia spaziale, vennero a galla i vari motivi per i quali la giovane donna si suicidò. Fu creduta, ma solo grazie a quel suo gesto estremo. Blaze venne arrestato e nessun’altra coetanea della vittima si ritrovò fra quelle grinfie malvagie e disumane. Alla fine, la ragazza venne conosciuta da chiunque l’avesse incrociata. Il nome di Lei era Angel. Angel, il nome che mai verrà ricordato.
In ricordo delle vittime di femminicidi, nella speranza che non accadano più e che possano regnare, in futuro, unicamente l’amore e la serenità.