Premio Racconti nella Rete 2025 “La ragazza della terza C” di Giada Marchetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Un trillo insistente si diffuse per l’antico edificio: fu data voce alla campanella che ci avvisò dell’inizio della ricreazione. Movimenti quotidiani seguirono quel suono: chi chiuse il libro e raggiunse il bagno, chi si appollaiò ai termosifoni alla ricerca di calore, chi si aggregava in cortile o in corridoio per stare in compagnia e chi semplicemente rimaneva al proprio posto a studiare. Presi i soldi per la cioccolata al latte e seguii Nicola alla macchinetta. Sorseggiai la bevanda confortante e conversammo di qualsiasi cosa ci passasse per la testa. Chiacchierammo, fino a quando non mi interruppi di scatto e vidi lei, la ragazza della “terza c”: vestita delle sue felpe larghe, stava appoggiata alla finestra con viso stanco e occhi che osservavano il nulla. Ogni tanto si passava una delle sue piccole mani sul volto: sembrava volesse scacciare un brutto ricordo dalla sua testa, dalla sua vita. Nessuno le stava affianco, niente le stava d’intorno. Tutti le camminavano vicino e lei era sola, immobile e impassibile. Molti parlavano di quella ragazza, chi bene e chi male, era sulla bocca di tutti; ma pareva che nessuno la notasse. Inarcai un sopracciglio, confuso, ma venni riscosso dai miei pensieri da Nicola: mi prese per un braccio e mi trascinò ai piani sottostanti. Finii di bere la cioccolata, lui parlava ma non riuscii ad ascoltarlo. Tutto e tutti passavano, ma lei no. Lei era una costante solitaria nel tempo; tutto era dinamico, ma lei era statica. Perché nessuno le proferiva parola? Perché nessuno la considerava?
– Luca, stai bene? – mi richiamò alla realtà il mio compagno. “Sì, sto bene” avevo desiderio di dirgli, ma scossi solamente la testa. Inspirai a pieni polmoni e sorrisi senza motivo, mentre il mio amico mi fissava stordito.
– Oggi sei strano. – ammise sospirando, come se volesse darsi una risposta. Finì la ricreazione. Salimmo le scale lentamente, tutti ammassati e diretti verso le proprie aule. Raggiungemmo l’andito e vidi ancora lei, purtroppo. Con bocca socchiusa e occhi spalancati la osservai, da lontano: sulle sue gote giocavano a rincorrersi lacrime di cristallo, lacrime di un mare che nella tranquillità sfogava la sua rabbia impetuosa. La fronte era corrugata e il volto esprimeva mille emozioni: dolore per un passato tormentato, collera nei propri confronti mischiata alla vergogna, al disprezzo e molta tristezza. E nuovamente nessuno si fermava. Tutto scorreva e in lei la tempesta. Rimasi di sasso: non sapevo che pensare, non sapevo come agire. Chiusi gli occhi per qualche istante, come se volessi solo sognare e allontanare quell’immagine quanto strana che infelice. Poco dopo li riaprii e lei scomparve.
– Oh Luca, ma stamani cos’hai? – domandò irritato Nicola. Non risposi e sconsolato entrai in classe, cercandola. Ma di lei, nessuna traccia.
[…]
Il medesimo squillo si propagò per le aule, agguantai un libro e cercai un angolo isolato. Mi sedetti esausto e mi misi a leggere. Viaggiai con la fantasia, fin quando non alzai la testa e mi guardai attorno: pochi alunni invasero l’andito quel giorno mentre, alla solita finestra, sostava la ragazza della “terza c”, a osservare il cortile dall’alto. Indossava la solita felpa, fin troppo grande per quel corpicino minuto, e gli stessi jeans legati stretti alla vita. Fuori metteva in mostra la sua corazza resistente, ma nel suo sguardo emergevano sfumature di malinconia e nostalgia miste ad afflizione. I suoi atteggiamenti mi incuriosivano talmente tanto che, d’impulso, mi alzai e pian piano mi avvicinai a lei. Percependo la mia presenza si voltò e, vedendomi, rimase sconcertata. La salutai, sorridendole amichevolmente. Fu inaspettato per lei: fremeva e le sue iridi smeraldo brillavano fiacche di svariati sentimenti.
– Non è possibile… – mormorò tra sé e sé, non convinta di quel che le stava accadendo. – Come fai a vedermi? – mi chiese, perplessa e prendendosi coraggio.
– A prova contraria, non sei né invisibile né un fantasma. – sdrammatizzai, cercando di rompere il ghiaccio che c’era fra noi. – Come ti chiami?
– Demetra. – affermò fredda, fissando il cielo pensierosa. Passò qualche secondo taciturno. – E tu? – traspariva curiosità inconsueta.
– Luca. – replicai, imitandola. Aprii poi le imposte e un flebile vento sibilò, accarezzandoci i capelli. Mi voltai verso di lei: la sua chioma bionda ondulava alla brezza e lei sembrava rilassata, pur se il suo animo tremava agitato. Non capivo, ma lasciai correre.
– Che ti piacerebbe fare in futuro? – mi colse di sorpresa. Mi schiarii la voce e, con entusiasmo, le raccontai del mio più grande sogno: diventare psicologo per aiutare i bambini e i giovani nei loro momenti più bui. I suoi occhi luccicavano di commozione: cavolo se quella fanciulla era un vortice di emozioni! Mi porse i suoi più sinceri complimenti e la ringraziai.
– E te, che progetti hai per il futuro? – domandai interessato, dipoi contemplarla: il suo sguardo pareva puntasse lontano, come se stesse mirando alla vita passata e non a quella ventura. Mi accigliai. Con la mano si grattò la nuca, imbarazzata, e forzò un sorriso.
– Sinceramente non lo so più: avevo qualche idea in mente, ma le ho accantonate. – ammise vaga, poi continuò ridendo – Qualcosa di fantastico, immagino!
Risi leggermente anch’io, per ammirare poi l’esterno. Le chiesi se avesse avuto voglia di una passeggiata nel patio e accettò: mai feci tante risate come quel giorno e mi divertii molto con lei. Cominciammo a incontrarci tutte le mattine, io con la cioccolata al latte da gustare e lei con qualche storia buffa da narrarmi. Era una persona strana, ma andava bene così: avevamo tante cose in comune e mi affezionai. Divenne la mia migliore amica.
[…]
Pioveva. La pioggia bagnava le strade, le macchine scintillavano di piccole gemme alle luci dei lampioni, il cielo era coperto di nero e l’aria pizzicava. L’acqua batteva forte sull’asfalto e la mia bicicletta slittava in tutte le direzioni: trepidante mi dirigevo a casa di Demetra, sperando nella sua presenza. Il nervosismo mi stava massacrando la carne e la mente: erano passate settimane dalla nostra prima conversazione ma da qualche giorno lei era sparita, la cercavo ma era come se si fosse tramutata in polvere. Quella mattina mi confidai pur con Nicola e altri nostri amici: i loro stati d’animo non riuscirono a confortarmi. Appena superato il cavalcavia, come indicatomi dai miei compagni, mi ritrovai di fronte la sua casa: era una vecchia dimora, diroccata, cadeva a pezzi. Mi appressai, sbalordito: il tetto in mattoni aveva dei buchi dai quali entrava la pioggia che, a poco a poco, si calmava; i muri indossavano crepe e l’intonaco bianco finiva al suolo con soli tocchi di dita; il pavimento era in assi di legno e alcuni sporgevano, altri erano spezzati. Varcai l’ingresso e un forte odore invase i miei sensi. In quella casupola regnava la confusione: i vetri delle finestre erano sparsi per terra, i mobili erano riversati sull’impiantito e alcuni oggetti risultavano rotti e arrugginiti. Immediatamente pensai che tutto quel che stessi vedendo fosse solo frutto di un brutto scherzo da parte dei miei amici, ma la perspicacia mi spinse più a fondo: accesi la torcia del mio cellulare ed esaminai quel luogo singolare, frugai in qualsiasi angolo di quell’edificio. In fondo a quel che pensavo fosse un soggiorno, si ergeva una rampa di scale in legno. Le salii a sangue freddo e gli scalini schioccavano, emettevano rumore a ogni mio passo. Arrivai in cima e di fronte a me stava un oscuro corridoio che congiungeva tre stanze. Puntai la torcia nel buio e notai che solo due aperture erano spalancate: una di queste portava a un bagno demolito, l’altra a una camera matrimoniale. Le superai e giunsi alla porta sigillata. Bussai.
– Demetra? – la chiamai a fil di voce, speranzoso in una sua risposta. Spinsi delicatamente la porta e quella si aprì: una camera singola intatta, una costante del tempo. Tutto il corredo era in perfetto ordine, niente era fuori posto, solo la scrivania un poco in disordine. Quest’ultima era stracolma di fogli e di libri, specialmente alcuni giornali e una lettera. Presi un quotidiano e mi misi a sfogliarlo: nulla di stimolante, se non una notizia di diciotto anni fa cerchiata con il pennarello rosso. “Ragazza violentata dà alla luce il figlio, poi si suicida”: aggrottai le sopracciglia, sconcertato. Lessi l’intero articolo: un’adolescente, violentata tempo addietro da un suo compagno di scuola, fece nascere per amore il suo bambino ma, per le umiliazioni subite e che stava subendo, si tolse la vita buttandosi da una finestra della sua scuola. Quella ragazza portava il nome di Demetra. I pugni incassati furono forti, aggressivi, irruenti, talmente tanto da far scaturire in me la voglia di scomparire, di unirmi al silenzio e al vento. Indietreggiai, scosso, e inciampai su un asse che sporgeva verso l’alto. Caddi ma non sentii dolore, quanta era la sofferenza che mi stava attanagliando. In quel momento la ragazza così stravagante, ma talmente gioiosa e gentile da tirarti su in una giornata di sfortune, si era rivelata solo un gioco disgustoso della mia immaginazione. Una mia cara amica si era suicidata diciotto anni fa: non riuscivo a metabolizzarlo. Non riuscivo a digerire il fatto che un’adolescente di soli diciassette anni potesse arrivare a tali gesti. Mi passai sul volto le mie mani sudate, in cerca di energia per potermi rialzare, e volsi la mia vista verso il tramonto: il cielo era infuocato, dipinto del rosso del sangue. Mi ressi sulle gambe a fatica, con fiato affannoso e la fronte imperlata di sudore. Volli andarmene, fin quando non mi ricordai della lettera. Tirai un sospiro e l’agguantai: aveva come destinatario suo figlio. L’aprii e la lessi: cominciò a diluviare, ma non era pioggia. Erano lacrime taciturne, le quali si rincorrevano allegre e scattanti sulle mie guance accaldate e che si trasformarono in singulti sommessi. Demetra era la famiglia che non avevo mai avuto. Demetra era mia madre.