Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “L’ascensore” di Rosita Tuterti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

L’odore acre del fumo della mia Marlboro Rossa, quello chimico del denitrifico a strisce blu e rosse, il profumo invadente dell’ammorbidente Perlana, si mischiano all’olezzo che proviene dallo scarico, dove scende l’odore acido di una pipì vecchia, trattenuta.

E’la puzza di gabinetto che mi sveglia dal torpore a cui mi abitua questa malattia, che mi fa scordare le cose.

Il disgusto per quegli odori mi fa venire un conato colmo di riconoscenza per il dono di un momento di coscienza, ma anche dell’atroce malinconia di un vissuto che mi scorderò di ricordare.

Allora decido di aggrapparmi a quella puzza per prolungare un pezzo di vita. Prendo dal mobiletto del bagno lentamente, come fosse di vetro, il mio pennello da barba, quello che tengo in un bicchiere vicino agli spazzolini e me lo porto al naso aspirando il profumo della schiuma al mentolo. Sono un uomo di quarant’anni con la faccia che suda i primi dopobarba, quelli che sanno di uomo, profumo di pino e fumo, di Colgate e fumo, ho la giusta dose di ansia per affrontare una giornata in cantiere.

Euforico di quelle sensazioni fresche che ricaricano il mio corpo oramai avvizzito, mi accendo un’altra sigaretta e mi affaccio in cucina fiducioso di trovare lei, che mi aspetta avvolta dall’odore del caffè, quello del barattolo di latta. Non c’è stamattina, al suo posto una donna brutta e vecchia, che impila il caffè sul filtro della nostra caffettiera napoletana, un cucuzzolo alto e stretto contenuto da mani grosse e ruvide che ora che mi accarezzano il viso. La polvere di caffè, diventa aglio, cipolla, crema al glicerolo, canovaccio appena preso dal cassetto, il profumo della mano stanca e delicata che mi sfiorava dalla fronte al mento, davanti alla porta della cucina prima di uscire di casa. Il nostro rituale, il nostro rito scaramantico, la nostra tacita promessa di rivederci sempre a fine giornata, indipendentemente da come fosse trascorsa, nel bene e nel male, valeva sempre e comunque più del fatto che ci fossimo sposati.

L’odore del caffè esce dalla macchinetta, diventa il profumo rassicurante della mia colazione, quella di tutte le mattine. Le stesse mani, che profumano di mia moglie, tagliano il pane come faceva lei ed io lo intingo dentro senza parlare, come allora aggiungo cinque cucchiaini di zucchero “per addolcire la vita” e prolungo quel momento calmo, senza alcuna pretesa.

Lascio il caldo profumo di tovaglia usata della cucina, per cercare qualcosa o lei di cui non ricordo il nome.

La puzza di gasolio della stufa, mi fa sentire sui piedi il calore del mattone di marmo sotto le coperte del letto, che mia moglie scaldava prima di dormire. Ero euforico come quando avevo comprato quella casa, finalmente ero libero dal lavoro a cottimo, dalla povertà, dalla fame che non mi faceva dormire. Fame che sapeva del sacco di pane raffermo e di spianatoia di legno e polenta che mangiavamo in piedi, del tabacco sniffato dalla mia prima sigaretta quando ancora puzzavo di latte, della mia voglia sempre uguale del sugo col castrato di pecora, bollito per quattro ore e che impregna ogni cosa in questa casa, insieme alle mie Marlboro.

Il gomitolo di lana sulla sedia, ha acchiappato pure lui quel profumo di stufato, di sugo, di sigaretta e le maniche che scendono cucite dai ferri mi sembrano del colore di quei profumi, un bordeaux che è pure rosso, marrone e nero, quello di me in questa casa. Davanti al televisore siamo solo noi due, io su una sedia lei su quella, che cuce. Scegliamo un film, che ci fa sorridere come quelli di Totò e insieme ridiamo di quanto ci fa ridere senza capire più come va a finire.

La puzza tremenda dei suoi piedi, di calze di nylon e cuoio arriva fin qui ed è l’inizio confortate del finire una giornata insieme a lei, insieme a quello della candeggina che ha usato per pulire le piastrelle della cucina, dopo la cena.

La cerco ma non la trovo, forse è uscita?

Apro la porta, l’ascensore che sale tra le grate sprigiona un aria calda, compressa, che ha l’odore del ferro, dell’elettricità, le porte si aprono e sono sulla banchina della stazione ad aspettare il treno. Scendono tanti uomini, con delle casseruole, pile chiuse in stracci di stoffa che si trascinano insieme a chi le porta le puzze di ciò che rimane di una giornata ad impalcare, inchiodare, gettare. Io aspetto invece che passi il mio treno e mi sono ripulito dalle faccia stanca che invecchia quegli uomini, mi sono lavato l’odore del legno grezzo e ruvido e del ferro, di cui puzzano i tagli sulle mie mani già gialle.

Il mio naso si riempie, di fritto, fritto e zucchero, di ciambella, del suo cappotto verde quello della festa. E’ domenica. Il mio corpo si muove e salta a tempo di polka sul pavimento di terra battuta della piazza, alzando la polvere sotto le sottane attraverso cui vedo i suoi occhi, che mi guardano mangiando una ciambella fritta nella gelosia. Io ne aspiro l’odore rancido dell’ olio vecchio, esaltandomi del fatto che mi ami ancora.

Forse è ancora lì.

Mi siedo sul balcone, in questa giornata tersa, il vento sembra schiaffeggiarmi in volto, per non farmi addormentare, come se avesse visto già in me i segni dell’imminente oblio. I miei capelli unti si muovono, affacciato al finestrino del corridoio del treno, restituendomi l’odore di brillantina e di acciaio dei binari che vedo scorrere veloci. Il profumo dei garofani, quelli sul balcone della mia casa con la stufa a Roviano, aprono le porte dell’ascensore. L’acqua di colonia sul mio corpo si porge al mare che muove il suo cappotto nuovo, creando la nostra essenza. I capelli vi scendono sopra, come il glicine, riempiendomi il palato di lei. Rosa, che mi accarezza il volto, donando l’azzurro di questo cielo ai miei occhi spenti dalla vita.

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2 commenti »

  1. Originale questo racconto pregno di odori

  2. Mi è arrivato un festival percettivo che hai reso con grazia e dolore. Un denso viaggio nella memoria di ciò che non è perduto.

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