Premio Racconti nella Rete 2025 “Techno Blu” di Emma Preti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Inizia tutto, sempre, dalle sale d’attesa dell’ospedale, dove quelli ti guardano dritto in faccia, come se, una volta varcata quella porta, la diagnosi fosse chiara a tutti.
Da cosa lo capiscono?
Da come ti vesti, da come ti muovi, dal tuo sguardo, dal numerino che tieni in mano, dal sudore che ne sbiadisce i caratteri d’inchiostro.
“Ci siamo passati tutti, non ti preoccupare, poi ci si abitua.” “Certo che sei giovane.”
“Certo che sei bella.” “Ma come sei alta.”
Sento i loro commenti arrivare e li schivo come proiettili. Mi schianto nell’angolo sinistro, tra due vecchi pelati.
I maschi sono più taciturni.
Se hanno gli occhiali, meglio; se hanno la panza, meglio; se hanno le precedenti e indossano la camicia o la polo bianca, allora hai fatto bingo.
Sai perché? Perché è gente che non ama le interazioni, no eye contact e no domande indiscrete.
Tutta la loro materia grigia è concentrata a captare il “bip” del prossimo turno. Li tengo d’occhio mentre cerco l’12331 sullo schermo, mentre i numeri scivolano come il rosari tra le mani delle nonnine e le loro gonne a pois.
Il mio codice è sempre lo stesso, ma ogni volta me lo faccio ripetere come se fossi sempre sul punto di dimenticarmelo.
“Non te lo ricordi più?” Sorride. “Non importa.” Me lo scrive a caratteri cubitali sul retro della ricetta.
Ecco, Tipo A, penso. Alzo le sopracciglia e mi allontano senza ringraziare. Negli ospedali ci lavorano tre tipi di persone.
Tipo A: gente gentile e smielata che ti chiama “gioia” e scandisce le lettere della sala d’attesa u-n-a per u-n-a, ti dice quanti passi dista, ti avverte che c’è uno schermo con i turni, ti ripete: “non ti preoccupare sai, se il tuo non lo vedi, arriverà”, ti sorride come si fa con i gatti sotto la pioggia, che, nonostante quegli occhioni, non lascerai mai entrare in casa.
Mi allontano e sento il suo sguardo melanconico accarezzarmi le spalle. Poi ci sono gli stronzi.
Tipo B. Non ti guardano mai negli occhi, non ti parlano se non è questione di vita o di morte, tutto è implicito e tu devi sapere dove andare, quando andare, le passwords del portale, le scadenze delle ricette, il nome di ogni medico e il loro codice fiscale.
Se fai domande ti guardano come se fossi ritardato, se ti giustifichi si innervosiscono e recitano: “Sì, certo, non si preoccupi”, come a confermare che sei ritardato.
E tu, mesto, te ne vai, pensando che odiare il genere umano è un diritto e che, infondo, siamo responsabili del riscaldamento globale.
Sbircio lo schermo e il mio numero non arriva. Mi guardo attorno.
Un flash inizia a pulsare nei jeans mio vicino, tra la pancia e la polo, gli occhialetti e la testa pelata lucida splendente.
Quanto sono stilosi i vecchi con la luce come suoneria?
Non è una cosa troppo GenZ? Com’è che non ha mai fatto tendenza? Ecco, un pensiero antropologico, penso.
Sorrido sbuffando. È colpa delle attese.
Le attese mi snervano.
In particolare, le attese in ospedale mi snervano più delle visite in ospedale, e un gradino sopra, nella lista delle cose snervanti, mi snerva che nessuno abbia capito come mettere i cazzo di cartelli in ospedale. Il tuo QI viene misurato in base capacità che hai di decifrare le informazioni dell’accettazione, partendo da dubbie conoscenze pregresse incrociate con le infinite mappa delle scale, che ogni scala ha cinque reparti, ogni reparto delle rampe d’ingresso, almeno una reception, e un numero indefinito di sale d’attesa, aree no entry, aree con le sedie, aree con corridoi che sanno di piscio e detersivo che ospitano macchine del caffè, sempre, perennemente fuori servizio. Finisce che, per capire dove andare, ti tocca interpretare l’intero piano architettonico dell’ospedale in allineamento con svariati congiungimenti astrali.
Perché, poi, quando finalmente ci arrivi, era lì, dietro alla scala uno, a destra dopo l’ingresso.
E tu ci hai messo un mezz’ora ad arrivare.
E forse il tizio della reception, Tipo B, aveva, banalmente, ra-gio-ne. E quindi?
Bè, a questo punto io busso. Entro.
Mi siedo. Sudo.
Mi sistemo. Mi alzo.
Mi risiedo. E poi?
Poi bolla di vetro, pesce d’acquario.
Che dico! Peggio! Pesce da barriera corallina riflesso negli occhi dei sub, nelle telecamere dei sub, nei souvenir dei sub.
Che loro, lo devono proprio indovinare che pesce sei: se vivi tra le murene, se spinni controcorrente, se dalle branchie respiri e le tue uova sono di gelatina. Diagnosi.
Sott’acqua.
Per dare aria alla bocca.
Per riempire i polmoni di bombole e le vene di flebo. E io?
E io niente.
Aspetto, come si dice che si deve fare, sorrido, come mi riesce bene, e ascolto, annuisco:
“No, nessun dubbio di essere incinta. No, ho smesso di fumare… quasi. Okey, prometto, non fumo più. No, nessun… niente infarti, no niente incubi, no, dormo abbastanza, no niente feste, niente rimpianti, e soprattutto niente sbagli.”
E poi?
Poi silenzio.
La pallina del flipper che cade tra le palette, il suono atono del suo rintocco sul fondo.
Tan, tant, tan.
Rimbalzo.
E la stanza si svuota, delle sue parole, del suo significato, dei poster sulla prevenzione, del numero del centralino scritto a mano sui post-it.
E io svengo.
Svengo nel mio foglio da Photoshop:
Filtro > Arte > Posterizza. Regola i livelli, seleziona l’oggetto, invertilo, applica numero da 1 a 255.
“Questo numero descrive il numero di colori che comparirà su ciascuno dei canali” (cito da Adobe) con voce robotica.
E i colori iniziano a sbia-di-re, diventano macchie, e tutto si schianta ad 1: un’unica tonalità rimasta sulla schermata del mio cervello.
Così scura da diventare nera, e il nero così scuro, da diventare buio.
E poi il dottore mi scuote, mi dice: “Ci fai spaventare.” Sorride, stacca la bocchetta del sangue, mi inala il suo alito tra le ciglia, abbozza un sorriso tirato e io non riesco a pensare a nulla se non sua moglie.
Sarà bella? Sciupata? Bionda o mora? Seria o divertente?
La vedo che lo bacia mentre esce di casa per venire qui a vedermi svenire, prima ancora di iniziare il suo turno.
Sento caldo. Quello della primavera. Torpore.
Sento che, tutto sommato, posso sorridere indietro. Smorfio. Va bene così.
Mi immagino i corridoi dell’ospedale tatuati sul suo petto come in Prison Break. Forse avrebbe senso.
Altrimenti, come fa a trovare il reparto ogni giorno?
Penso al liquido radioattivo che mi hanno infilato sotto pelle. Penso che deve essere blu.
Del blu che usano per i video techno, che ai lati si fa più chiaro, che si alza e si abbassa nelle drum machines.
Bam, bam, bam. Cassa dritta.
Che poi scorre e mi si rigira dentro, e io chiudo gli occhi mentre mi cerca i positroni nel corpo. Lo lascio fare.
Li riapro, ed eccola lì, la macchia.
Brillante, si granula nella mia colonna vertebrale.
Perché lo sai che cosa? Quel liquido non poteva semplicemente scorrere. Indifferente, come le vite banali.
Fluire, senza lasciarne il segno.
Hey, sai una cosa? Io non mi preoccuperei troppo.
Sono certa che lo fa solo per scappare dalla noia, dal reticolo dell’indifferenza. Capisci? Un po’ come gli operatori ospedalieri, funziona il mondo.
Prendi per esempio lui: palpebra un po’ abbassata, t-shirt Primark, occhialino sporco.
Tipo C.
Lui cammina.
Cammina e non c’è forza motrice in quella camminata. Lui fa tutto senza fare mai niente. Fluisce.
E poi prendi me. Capisci?
Non posso mica fare parte della gente che tutto scorre e niente afferra. Quindi?
Quindi niente: il liquido blu si coagula, deve lasciare il segno. E lasciagli fare il suo spettacolino.
Silenzio.
Penso: “C-a-z-z-o”, e ogni lettera rimbomba, mentre, nel tubo, il rumore della PET mi acceca di note nevrotiche: ruspe impazzite, pianoforti baritoni, gemiti, vene oftalmiche che esplodono, e il liquido che mi tinge le iridi di blu.
Silenzio.
“Abbiamo finito”, rimbomba la voce. Di nuovo mi alzo.
Mi vesto. Mi svesto. Mi rivesto.
“Signorina, l’uscita è a sinistra. Si sente bene? Li vuole degli zuccherini?” Personaggio ospedaliero, ormai lo sai, tipo A, stacci alla larga.
La mamma mi aspetta sulle scale, pallida come me, bella come sempre. 12331.
“Mi sa che ti hanno chiamato, amore.”
“Sì, mamma. Non preoccuparti,” le sussurro. Che tanto non importa, penso.
Che tanto il dolore, anche oggi, lo spingiamo un po’ più in là. Salgo in auto, e torniamo a casa.
Il suo profilo contro il finestrino. Mi sento la sua invisibile mano fresca sulla fronte.
Come da piccola: la febbre, il letto, le fiabe. Ce ne andiamo così, leggere.
Facendo finta di niente, alzando la radio, fluendo,
come il tipo con gli occhialetti, la moglie del dottore,
i pesciolini nell’acquario, e quel liquido blu.