Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Techno Blu” di Emma Preti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Le sale d’attesa dell’ospedale. 
Tutti ti guardano in faccia, come se ora che hai varcato quella porta rossa, beh, la diagnosi fosse chiara.
Da cosa lo capiscono? Da come ti vesti, come ti muovi, che tipo di scarpe indossi, che numerino tieni in mano, se il sudore ne sbiadisce o no i caratteri d’inchiostro. 
Sai cosa si dice? Che le prime volte tutti tendono a vestirsi a modo, come se facesse la differenza e poi, jeans stropicciati, magliette sgualcite, borsa di tela per terra, sguardo assente.
La prime volta siamo tutti agitati, mi guardano come per dire: ci sono passato anche io, poi ci si abitua, diventa “normale”.
Certo che sei giovane,
certo che sei bella,
ma come sei alta,
ma che bei capelli che hai, eh… anche io una volta.
Mi schianto nell’angolo a sinistra, tra due vecchi signori. I maschi sono più taciturni. Se hanno gli occhiali meglio, se hanno la panza meglio, se hanno le precedenti e indossano camicia o la polo bianca, allora ho fatto bingo: me ne posso stare in silenzio fino al “beebbeeeb” del mio, attesissimo, turno. 
12331, il mio codice è sempre lo stesso ma ogni volta me lo faccio ridire, just in case, per eccesso di zelo.

Se non lo sai e’ meglio che ti avverta, negli ospedali ci lavorano solo due tipi di persona.
Numero uno: gente gentile e smielata che ti chiama gioiaaa e scandisce le lettere della sala d’attesa una per una, ti dice quanti a passi dista, ti avverte che c’è uno schermo con i turni, ti dice :non ti preoccupare se il tuo non lo vedi, arriverà”, ti sorride come si fa con i gatti sotto la pioggia, che nonostante quegli occhioni non lascerai entrare in casa. 
“Va bene” “grazie”, sospiro e continuo a sentire quel melanconico accarezzarmi le scapole mentre mi allontano.
Poi ci sono gli stronzi, numero due, non ti parlano, non ti spiegano, se fai domande ti guardano come se fossi un ritardato, se cerchi di giustificarti si irritano e recitano: “si’, certo, non si preoccupi” come se ora fosse confermato che sei ritardato. 
E tu mesto, te ne vai, pensando che odiare il genere umano è un diritto e che infondo siamo responsabili del riscaldamento globale. 
Guardo lo schermo e il mio numero non arriva. 
Il cappuccino che ho bevuto correndo per le scale inizia a fare effetto, mentre continuo a sudare (anche se non sudo mai) e cerco di distrarmi nel il mio stesso spazio mentale. Vuoto.
Mi guardo attorno.
“Ma quanto sono stilosi i vecchi che usano il pulsare del flash come suoneria? e perché tra le nuove generazioni non è mai fatto tendenza?” Ecco un pensiero antropologico, penso.
Le attese mi snervano, penso.
Le attese in ospedale, mi snervano più delle visite in ospedale, penso.
Ma ancora di più, un gradino più sopra l’infinita lista delle cose snervanti, mi snerva che nessuno abbia capito come mettere i cazzo di cartelli in ospedale, che il tuo Q1 venga misurato in base alla tua capacità di decifrare le informazioni dell’accettazione con conoscenze pregresse incrociate alla mappa delle scale, che ogni scala ha 5 reparti, ogni reparto delle rampe di ingresso poi delle porte automatiche più una reception poi una, o due, o tre sale d’attesa, aree specifiche, e non ti resta fare una sovrapposizione mentale del piano architettonico dell’ospedale e la tua carta di astrale.
Perche’, poi, quando finalmente ci arrivi, era lì, dietro alla scala uno, a destra dopo l’ingresso.
E tu ci mai messo un quarto d’ora.
E io? Io a questo punto busso. Entro. Mi siedo. Sudo. Mi sistemo. Mi alzo, mi risiedo. Ora sono sistemata. 
E poi?
Poi bolla di vetro, pesce d’acquario. 
Che dico! peggio! pesce da barriera corallina riflesso negli occhi dei sub, nelle telecamere dei sub, nei souvenir dei sub.
Che loro, lo devono proprio indovinare che pesce sei, se vivi tra le murene, se spinni controcorrente, se dalle branchie respiri e le tue uova sono di gelatina.
Diagnosi.
Per dare aria alla bocca.
Per riempire i polmoni di bombole e le vene di flebo. 

E io. 

E io niente,

aspetto, come si dice che si deve fare, sorrido, come mi riesce bene fare, e, ascolto, annuisco, no, nessun dubbio di essere incinta, no, ho smesso di fumare, quasi, okey, per sempre. No, nessun… niente infarti, no niente incubi, no al pane burro a colazione! no alle discriminazioni sociali! no al vento con i finestrini giù a 130 in autostrada! Eh si’, in effetti, la mia auto auto è sgangherata. Non lo farò più! No, lo so, ha ragione, capisco, non risuccederà!
Io sapevo che a vivere bisognava correrne il rischio. Lo penso, non lo dico.

Silenzio.

La pallina del flipper che cade tra le palette, e il suono atono del suo rintocco sul fondo. 

Tan, tant, tan.

E nient’altro, la stanza si svuota delle sue parole, del suo significato, dei poster sulla prevenzione, del numero del centralino scritto a mano sui post-it e io svengo.

Svengo nel mio foglio da photoshop, Filtro > Arte > Posterizza. Regola i livelli, seleziona l’oggetto, invertilo, applica numero da 1 a 255. “Questo numero descrive il numero di colori che comparirà su ciascuno dei canali dei colori” (cito da Adobe) con voce robotica.

E i colori iniziano a sbiadire, diventano macchie, e tutto si schianta ad 1, a quell’unico colore rimasto sulla schermata del mio cervello. 

Blu, così scuro da diventare nero e il nero così scuro da diventare buio.

E poi il dottore mi scuote, mi dice: “ci fai spaventare” sorride, stacca la bocchetta del sangue, mi inala il suo alito tra le ciglia, abbozza un sorriso tirato e io non riesco a pensare a nulla se non sua moglie. Sarà bella? sciupata? bionda o mora? seria o divertente? La vedo che lo bacia mentre esce di casa per venire qui a vedermi svenire prima ancora di iniziare il suo turno.

Sento caldo. Quello della primavera. Torpore. Sento che tutto sommato posso sorridere indietro.

Smorfio. Va bene così. 

Mi immagino i corridoi dell’ospedale tatuati sul petto come in Prison Break. Forse avrebbe senso.
Rimbomba.
Penso al liquido radioattivo che mi hanno infilato sotto pelle. 

Penso che deve essere blu.

Del blu che usano per i video techno, che ai lati si fa più chiaro, che si alza e si abbassa nelle drums machine. 

bam, bam, bam. Cassa dritta.

Che poi scorre e mi si rigira dentro, e io chiudo gli occhi mentre mi cerca i positroni nel corpo. Lo lascio fare.

Li riapro, lo schermo, ed eccola lì, la macchia.
Brillante, si granula nella mia colonna vertebrale.

perché lo sai che cosa? quel liquido non poteva semplicemente scorrere. Indifferente come le vite banali. Fluire, senza lasciarne il segno.
Hey, sai una cosa? io non mi preoccuperei troppo, sono certa che lo fa solo per scappare dalla noia, dal reticolo dell’indifferenza. 

Capisci? un po’ così come gli operatori ospedalieri, funziona il mondo. 

Prendi per esempio lui, palpebra un po’ abbassata, t-shirt Primark, occhialino sporco.

Lui Cammina. Cammina e non c’è forza motrice in quella camminata. Lui fa tutto senza fare mai niente. Fluisce.

e poi prendi me.

Capisci? non posso mica fare parte della gente che tutto scorre e niente afferra. 

Quindi? 

Quindi niente il liquido blu si coagula, deve lasciare il segno. E io lasciagli fare il suo spettacolino.

Silenzio.

Penso “cazzo” e ogni lettera rimbomba.

Scrivo spartiti mentali mentre nel tubo, il rumore della PET mi acceca di note nevrotiche, tipo ruspe impazzite, pianoforti baritoni, gemiti, le vene oftalmiche esplodondo e il liquido che tinge le miei iridi di blu.

Silenzio.

Abbiamo finito (voce robotica)

Di nuovo mi alzo, mi vesto.

Mi svesto. 

Mi vesto.

Signorina, l’uscita è a sinistra. Si sente bene? Vuole degli zuccherini? 

Personaggio ospedaliero di Numero 1: Stacci alla larga.

La mamma mi aspetta sulle scale, pallida come me, bella come sempre. 
12331, mi sa che ti hanno chiamato amore. 
Sì mamma non preoccuparti, che forse anche oggi il dolore lo spingiamo un po’ più in là, sussurro.
E torniamo a casa così, leggere, facendo finta di niente, alzando la musica alla radio, camminando come il tipo con gli occhialetti, la moglie del dottore, e i pesciolini nel mare.

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