Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2025 “L’albero di mia madre” di Nina Lucchi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Il primo ricordo che ho della mia vita corrisponde alla prima volta che ho litigato con mia madre.

Avevo nove anni, le avevo detto che non volevo andare da mio padre, lei aveva detto che dovevo, io avevo detto di no, lei aveva detto di sì, allora io avevo buttato la ciotola con la colazione per terra, lei era diventata tutta rossa e mi aveva urlato di andare in camera mia.

Ricordo che stavo raggomitolata sul letto sfatto, con le ginocchia strette sotto il mento, rigate di lacrime secche, a fissare il polline che entrava dalla finestra. Il sole caldissimo si allungava sul pavimento fino a risalire il gradino del materasso, solcava le lenzuola arrotolate e raggiunti i miei piedi mi bruciava le dita. Li tenevo lì fin quando resistevo, poi li ritraevo in fretta, ma all’ombra il caldo si dissipava subito e quasi mi mancava, allora li rimettevo alla luce del sole, ogni volta qualche centimetro in più.

Quando il sole aveva superato le caviglie avevo sentito bussare, oltre il vetro a quadretti della porta della mia camera intravedevo il casco di ricci neri di mia madre e il rosa del viso, come un mosaico scomposto. Ci aveva messo più del solito.

Mugugnai qualcosa e lei entrò abbassando piano la maniglia, intrufolando il sorriso lunghissimo nello spiraglio della porta. “Posso?”

Feci di sì con la testa senza mollare le ginocchia né gli angoli delle labbra tirati con ostinazione all’ingiù.

“Vieni con me”, mi disse allungandomi le dita lunghe e smaltate di rosso, come piccole rose in un campo d’erba. Io aspettati qualche secondo, giusto per lasciarle la mano nell’aria, non ero arrabbiata ma volevo che lo pensasse, anche se non vedevo l’ora di sapere dove mi avrebbe portata.

“Mi raccomando Olmo tieni d’occhio tu la casa mentre non ci siamo.” Urlò nella fessura della porta mentre se la tirava dietro le spalle, io non riuscii a non ridere e un’agitazione effervescente mi prese tutta la pelle, come chi sta per scoprire un segreto incredibile.

Scendemmo le scale di marmo e mi prese un brivido da scuotere anche i capelli, sembrava di essere piombate in un’altra stagione e il mio vestitino a pois rossi diventò improvvisamente inadeguato. Attraversammo il giardino: ero convinta fosse fatato, uno di quei mondi magici che leggevo nei miei libri. C’era un ponticciolo di legno, pieno di muschio verde, un grande tavolo con tante sedie colorate e tutte diverse, luminarie altissime e sfavillanti, come nei miei quaderni di mandala da colorare, fiori di tutti i tipi; nei miei ricordi non mancano mai, neanche d’inverno. C’era anche una vasca da bagno. Mi sono sempre chiesta se l’avessi inventata o se ci fosse davvero.

Oggi che sono di nuovo in quel giardino scopro che la vasca c’è, ha solo più ruggine e uno strato d’acqua melmosa sul fondo.

Io e mia madre continuammo a camminare, non mi ero mai spinta così in là perché per me tutta la meraviglia era sotto casa e oltre mi sembrava solo un campo di erbacce. Mi fermavo spesso perché gli spuntoni secchi del grano si infilavano nei sandali e mi pungevano la pelle, mia madre mi disse di togliermeli, io non ero convinta, ma quando si chinò a sfilarsi le scarpe mi affrettai a farlo anch’io come fosse stata una mia idea.

Più andavamo avanti più tutt’intorno si faceva arido e vuoto, provai a chiederle dove stessimo andando, avevo paura di essermi illusa e di stare solo facendo una passeggiata in giardino, una di quelle che faceva spesso lei: diceva sempre che la aiutava a vedere le cose in prospettiva; invece mi rispose di avere pazienza, che i miei pupazzi erano al sicuro con Olmo.

“Mamma ma è solo un gatto!” le dissi io come a una bambina troppo fantasiosa.

“E chi credi che controlli le nostre cose quando non ci siamo?” Il sorriso mi si incurvò sulle labbra all’idea che di lì a poco sarei stata in un’altra camera, con giochi e pupazzi non miei, e in un giardino piantato di fresco, senza magia, senza vasche da bagno.

“Ecco, siamo arrivate.”

Strinsi forte gli occhi per cancellare il velo di lacrime che non mi faceva vedere bene, e quando li riaprii mi trovai all’ombra di un albero che mi sembrava spuntato dal nulla. Tenendomi per mano, mia madre mi guardava sorridendo, guardava tutto il mondo sorridendo; mentre io rimproveravo al mio collo di non potersi piegare di più perché anche guardando il cielo quell’albero non stava tutto nei miei occhi.

Oggi ho camminato in quel prato, che mi è parso sorprendentemente più breve di quel che ricordavo, ma l’albero è ancora immenso, il mio collo ancora troppo rigido.

Mia madre si sedette in un incavo formato da due enormi radici, la schiena le aderì perfettamente al tronco, sembrava un trono scolpito apposta per lei.

“Vieni qui,” mi disse indicando la corteccia. Io mi misi seduta affianco a lei ma le insenature del legno mi facevano male alla schiena, continuavo a muovermi cercando un posto comodo come il suo ma senza riuscirci, sbuffavo e mi lamentavo senza star ferma. Lei allora riaprii gli occhi e con una mano si picchiettò le gambe distese. Io ci appoggiai la testa e finalmente, sull’erba umida, sotto uno sbrilluccichìo di raggi in mezzo alle foglie, mi ero sentita comoda. Le pagliuzze dorate mi ricordavano le code dei pesci colpite dal sole attraverso l’acqua, e per un attimo sentii il dimenarsi metallico che si sente quando si mette la testa in mare.

Eravamo rimaste per un po’ così, ad ascoltare i rumori intorno, l’orchestra dei cinguettii, i colombi tubare, le cicale, le foglie sfregare al vento, il cuore che batteva placido nella pelle di mia madre.

“Lo sai, no, che questa era la casa di mia nonna?”

Io annuii a occhi chiusi.

“E che i miei genitori erano quasi sempre via per lavoro?”

Scossi la testa senza aprire gli occhi.

“È così, viaggiavano tanto, tantissimo, e io venivo dalla nonna Ebe.” Fece una pausa come se stesse rivedendo quei giorni intorno a sé. “Mi diceva sempre di non andare mai a letto arrabbiata. E sai cosa mi diceva di fare se capitava?”

“Cosa?”

“Di andare in giardino ad abbracciare un albero.”

Io risi aprendo gli occhi, vedevo il suo viso circondato dalle fronde, come il prolungamento dei suoi capelli.

“Diceva che gli alberi hanno un potere, assorbono tutta la tristezza, che come per magia scompare, non la senti più. È matematicamente impossibile essere triste dopo che hai abbracciato un albero.”

“E tu ci credevi?”

“Certo, e ci credo ancora. Perché, tu no?”

Dopo avermi spostato la testa si era alzata, si era avvicinata all’albero e l’aveva stretto come se lui potesse ricambiare; tenendo gli occhi chiusi e la bocca in un sorriso, era rimasta lì, coi piedi nudi su una radice. Io l’avevo guardata per un po’ in silenzio poi ero andata dall’altra parte del tronco e avevo fatto lo stesso. Mi ero sentita in imbarazzo, poi avevo visto le dita di rose di mia madre spuntare sul tronco, strisciare a passi piccoli sul legno umido fino a raggiungere le mie e intrecciarsi, allora avevo sorriso e chiuso gli occhi anch’io. E la tristezza era scomparsa.

“Hai preparato la valigia?” gridò dall’altra stanza mia madre, mentre dava da mangiare a Olmo, chiudeva le finestre, raggruppava le cartelline e i fogli del lavoro, impilava nel lavandino piatti sbriciolati e tazze con residui polverosi di caffè.

“Sì!” le urlai io dalla mia camera. Come ogni volta, avevo sistemato tutti i pupazzi in fila sul letto, con le teste appoggiate al cuscino e il lenzuolo ben rincalzato, poi sfilai quello a forma di coniglio, lasciando un vuoto tra la giraffa e il gatto arancione. Aveva un’orecchia mangiucchiata da Olmo e il naso e le zampe una volta rosa erano stinte. Chiusi la porta in fretta e andai di là.

Olmo era seduto sullo sgabello affianco al tavolo, si leccava la zampa e la passava dietro le orecchie, mia madre gli correva intorno lanciando vestiti e pochette dentro una valigia aperta in mezzo al salotto; avrebbe scosso la testa se avesse potuto, invece tutto il suo disappunto lo aveva concentrato negli occhi felini.

“Mamma sei in ritardo.” Le dissi io scuotendo la testa, mentre accarezzavo Olmo sulla schiena, lui si era subito arcuato sullo sgabello, con le zampe puntate per non cadere. Si sedeva sempre lì quando mangiavamo. Quando sentiva apparecchiare si incamminava stanco e stiracchiato verso il salotto, ovunque fosse a dormire; con un balzo leggero saliva sullo sgabello, e stava con noi per il tempo della cena, acciambellato con il muso sulle zampe, immobile e silenzioso come un rivestimento di pelo. Diedi uno sguardo alla valigia sul pavimento, nel gomitolo di roba nera appallottolata luccicava la sua spilla con la libellula, quella attaccata alla giacca che aveva preso a New York. Avrei voluto chiederle di lasciarmela, solo finché non fosse tornata, ma in quel momento mia madre chiuse di scatto la valigia e fece slittare la cerniera.

“Felpa, occhiali da sole, medicine, pigiama. Ho tutto. Dai che andiamo.” La seguii giù per le scale invernali, tenendo il coniglio per l’orecchia pericolante. Continuava a ripetere che era tardi tardi tardi, che se perdeva l’aereo questa volta la ditta gliene diceva di tutte i colori; faceva sobbalzare la valigia sugli scalini dietro di sé: io risi notando una manica nera che spuntava da sotto il trolley e strisciava sul marmo.

“Che c’è?” mi chiese senza girarsi, attraversando a falcate larghe il giardino fatato, con i tendini dei piedi magri che schizzavano dalle ballerine rosse.

“Niente.”

“Allora non ridere che mi fai fare tardi.” Gli occhiali le erano caduti dalla fronte mentre mi allacciava la cintura, inforcandosi sulla punta del naso; io risi, e anche lei.

Guidò in fretta, con le dita di rose che reggevano una sigaretta tutta cenere. Mise su un CD e mandò avanti le tracce fino alle prime note di La collina dei ciliegi.

“Ancora!! Basta mamma!” le dissi rovesciando la testa indietro, coi capelli che mi vorticavano negli occhi.

Lei mi guardò nello specchietto retrovisore e si mise a cantare fortissimo e stonatissima. Ogni tanto allungava la mano destra in mezzo ai sedili e mi accarezzava la caviglia lasciata scoperta dai sandali. Il sole tramontava e c’era odore d’erba.

Arrivammo davanti alla casa di mio padre che al suo volo mancava pochissimo. Mi aprì la portiera e prese la mia valigia dal bagagliaio; dopo aver suonato il citofono si inginocchiò davanti a me, le ballerine scappate dai talloni.

“Ricordati quello che ti ho detto. Se sei triste vai in giardino e abbraccia un albero, mi troverai dall’altra parte.” Il cancelletto scattò, lei mi diede un bacio lunghissimo sulla fronte, “Ci vediamo tra una settimana.”

Prima di entrare mi fermai a guardarla mentre partiva, aveva messo in moto e dai finestrini scivolava fuori

no non temere, tu non sarai preda dei venti,

poi era partita, e la musica che decorava la strada si assottigliava a ogni metro che la macchina si allontanava

ma perché non mi dai la tua mano, perché?

Potremmo correre sulla collina e fra i ciliegi veder la mattina

Poi aveva svoltato l’angolo, e si era fatto silenzio.

“Nina?” mi chiamò mio padre da in cima alle scale. Io ne vedevo solo le scarpe marroni, quelle con le cuciture verdi, spuntare dal soffitto. Strinsi forte gli occhi e salii i gradini. Diventava triste se mi vedeva piangere, ma non triste come mia madre che cercava subito di farmi sorridere, triste che smetteva di parlare.

Mia sorella era sul tappeto della sala con la sua, di mamma; ricordo che mi ero dispiaciuta che non ne avesse una come la mia, poi ero felice a pensare alla mia, poi triste perché era partita, tristissima.

Quella sera mangiammo quasi in silenzio, giusto qualche sospiro, qualche sbuffo, una risposta irritata di mio padre, un’occhiataccia di sua moglie quando lui mi chiese dov’era andata la mamma. Quando fu l’ora di andare a letto mi infilai sotto le coperte da sopra, senza scostare il lenzuolo ancora rincalzato agli angoli, il coniglio lo misi di fianco a me, nella stessa posizione, tutti e due stretti e immobili a guardare le stelline luminose sul soffitto. Dopo aver messo a dormire mia sorella mio padre passò in camera mia, aprì la sedia pieghevole che stava tra la scrivania e il muro e prese dalla libreria il Giornalino di Giamburrasca.

“Allora vediamo dov’eravamo arrivati… ah ecco, ci avevo fatto un segnetto a matita, vedi che a volte son bravo.”

Io sorrisi e lui cominciò a leggere. Era passato tanto tempo dall’ultima volta, che non mi ricordavo che cosa stesse succedendo nella storia. Non glielo dissi, lo ascoltai finché si interruppe e disse che era il momento di dormire, si sfilò gli occhiali e mi appoggiò un bacio sulla fronte.

Quando chiuse la porta la stanza piombò nel buio tranne che per uno spiraglio di luce che passava sotto la porta, rimasi a fissarlo per un po’, il sonno che mi aveva chiuso gli occhi mentre mio padre leggeva era scomparso e il cuore mi batteva più forte, nel silenzio potevo sentirlo tamburellarmi nell’orecchio. Poi un’ombra oscurò lo spiffero luminoso, poi un’altra, accompagnata a delle voci che andavano e venivano. Quella di mio padre si era fatta più forte; poi sentii un tonfo, uno stridio, simile a prima, quando mia madre sistemava i piatti e i bicchieri, ma più forte. Mi era venuto da piangere e il cuore mi batteva così forte da far tremare il materasso, così mi sembrava; all’improvviso il lenzuolo era troppo stretto, il mio coniglio fuori posto e io pure. Uscii dal letto e, tenendolo per l’orecchia malconcia, abbassai pianissimo la maniglia. Guardai nello spiraglio, le voci venivano dalla cucina ma erano ovattate dalla porta chiusa. Appoggiando piano i piedi sulle mattonelle fredde arrivai alla porta a vetri del salotto, la feci scivolare piano, immobilizzandomi ogni volta che le voci smettevano.

Respirai profondamente l’odore dell’erba di notte, e mi sentii meglio, non sentivo più il cuore rimbombare, si perdeva in mezzo agli uccelli del buio e le fronde che sfregavano. L’annaffiatoio era in funzione e il prato fradicio: per un po’ ebbi freddo, poi la sensazione del terreno morbido mi piacque e me ne dimenticai, immaginavo che sotto l’erba ci fosse uno strato di marshmallow. Un po’ di magia magari c’era anche lì.

Si erano trasferiti da poco e non c’erano che tre quattro alberi, magri, appena piantati, quasi steli di corteccia. Mi avvicinai a quello più lontano dalla casa e lo abbracciai, le mani mi si appoggiarono alle braccia e stetti così per un po’, tra il freddo del legno e il caldo della pelle.

Oggi cammino di nuovo nel mio prato fatato, così breve, ma ancora secco e puntiglioso; mi sfilo le ballerine nere che per qualche motivo pestarlo a piedi nudi è più piacevole. L’albero di mia madre è ancora più immenso, i miei occhi ancora troppo piccoli per contenerlo tutto. Ma è spoglio, senza fiori, così come il giardino, anche se per me ne era sempre pieno. Eppure non c’è freddo, anzi l’aria è calda e sembra intrappolata tra questo campo di stoppie e il cielo tappato dalle nuvole, come una scatola diafana e luminosa. Mi sfilo anche la giacca, quella nera con la libellula. Durante tutta la cerimonia mi sembrava che tutti la fissassero. Adesso non credo che qualcuno l’abbia davvero notata, erano tutti concentrati sulla foto di mia madre, quella dove il sorriso le spunta dal mazzo di fiori che tiene davanti al viso, e lo sguardo le va dietro l’obiettivo.

Giacca e scarpe le ho lasciate cadere in mezzo al campo, piccole rose nere in un campo secco. Ho guardato per un po’ l’albero; mi sono chiesta se ne fossi ancora capace, ho rivisto mia madre coi piedi scalzi sulla radice, e ho fatto lo stesso. Ho steso le braccia intorno al tronco, camminato con le dita delle mani sulla corteccia finché potevo, senza riuscire ad abbracciarlo tutto, nemmeno ora che sono cresciuta. Sono stata lì, con gli occhi chiusi e il sorriso disteso, come se potesse ricambiare.

Aveva ragione, tutta la tristezza è subito scomparsa.

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