Premio Racconti nella Rete 2025 “La giornata di…” di Francesco Iezzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025«Niente! Non va via», pensa.
Scompostamente seduto su un divano logoro, ma pulito, si può notare un uomo ben vestito,
trasandato nell’aspetto, che maneggia una tazza di tè fumante con l’obiettivo di collocarla sulle
gambe nella giusta posizione affinché il calore della bevanda, oltrepassando il pantalone, crei un
tepore di benessere da distribuire attraverso tutto il corpo. Dopo sbadate alternative decide di
incastrarla nell’interno coscia.
Si chiama Giovanni, ma per tutti Nanni – armonico diminutivo trionfato tra decine di dissonanti
cacofonie – ha quarant’anni, alto, fisico asciutto da palestra, di aspetto piacente nonostante una
fastidiosa oleosità tricologica causata dagli shampoo antiforfora (ma che tutto sommato controlla
con frequenti lavaggi), e ha da poco rotto con la sua ragazza.
«Eppure a volte riesco…»
Nanni è preoccupato. Nell’assestare la tazza di tè affinché si regga da sola il suo occhio intravede il
ghirigoro finale del tatuaggio sul braccio destro e ha un attimo di distrazione dai suoi pensieri:
«Devo decidere che farne…»
Era stato durante l’impulsivo decennio breve che, trovando le sue braccia naturalmente glabre,
inaspettata fortuna per l’uomo del XXI secolo, aveva deciso di ornarle con qualcosa di brioso, di
originale, e non con i soliti scialbi motivi dei suoi amici. La ricerca, lunga e difficoltosa, si era
conclusa un sabato pomeriggio tra gli stand di un mercatino, dove un simpatico commerciante lo
aveva persuaso all’acquisto di un noto romanzo dell’ottocento con cui giocherellava; così, nel tratto
interno di entrambi gli avambracci e per tutta la loro lunghezza sono apparsi, a caratteri corsivi, i
nomi Henry J. sulla destra e Edward H. sulla sinistra: un omaggio all’autore e una testimonianza
della dualità caratteriale di ognuno. Originale è originale, non si discute.
Purtroppo però, il tatuaggio si è anche rivelato oscuro ai più e continue sterili spiegazioni unite al
mancato stupore aspettato, hanno intaccato il culto della sua personalità a tal punto che, da mesi
ormai, sta valutando di cancellarlo o sovrascriverlo con qualcosa di più abbordabile, di
comprensibile a tutti.
«Ne ho visto uno in tv veramente bello!»
Ma ecco un nuovo respiro, la distrazione sparisce in un batter d’occhi e quel maledetto assillo lo
riporta alla realtà: non riesce a risolvere un problema di salute. Il suo organismo, che ha sempre
curato e vezzeggiato, lo sta tradendo senza alcun motivo.
Nel corso degli anni una fibra di ferro, minata qua e là solo da sciocchi acciacchi, ha cementificato
in lui la convinzione imperante che il corpo altro non sia che un agglomerato chimico fisico adibito
a sorreggere e trasportare i suoi desideri, a compiere le sue azioni, da decorare e addobbare a
piacere seguendo le mode e che basti osservare una vita sana per mantenere ogni congegno ben
rodato.
«Sono mesi ormai.»
Insomma, Nanni ha il fiato corto, un piccolo fastidio che non accenna a risolversi da solo, come di
solito accade per le fesserie: fatica a fare quei bei respiri ristoratori che gli riempiono i polmoni
allargando la cassa toracica al massimo per poi espellere con voluttà tutto lo scarto gassoso del suo
organismo, a dimostrazione di come la macchina perfetta funzioni ottimamente e a pieno regime.
Proprio non riesce più.
E pensare che aveva sempre avuto un ottimo rapporto col suo corpo, tanto da averci instaurato un
vero e proprio legame privilegiato che personalmente lo inorgogliva: di notte, quando si creavano le
condizioni adeguate di silenzio, ascoltava con piacere il ritmico battito del suo cuore, il fluire del
sangue nelle vene simile ad un fruscio e di come alterando il respiro la testa iniziasse a girare in
preda ad un’estasi peregrina.
Tempi andati, tempi di meravigliosa armonia.
«E se facessi una colazione diversa?»
All’inizio della fesseria aveva scrollato le spalle e, più per parlare che per stemperare i dubbi, si era
accontentato di chiedere consiglio alla mamma – «Tu non mangi abbastanza!» -, ad un amico – «Tu
non scopi abbastanza!» -, ad una amica – «Tu non mediti abbastanza!» -, ad una attempata signora in fila al supermarket – «Forse non dorme abbastanza!» -, ma nulla: a parte una indefinita carenza
quantitativa non aveva ottenuto altro.
Intanto tutto scorreva e il respiro non migliorava.
Accantonate le diagnosi estemporanee, e dopo un imprecisato periodo di angoscioso
approfondimento su svariati blog medici (individuati accuratamente dalle interiora di Internet grazie
a famigerati e fumosi algoritmi, aruspici post moderni), non giungendo ad una soluzione si era
persuaso ad interpellare un noto luminare della medicina: il Professor Russo, indiscussa autorità in
campo pneumopatologico.
Lo aveva chiamato, aveva preso un appuntamento, aveva fatto una prima visita, aveva prenotato il
prelievo al CUP, aveva atteso il referto, aveva inviato i documenti al dottore, tutto seguendo la ben
determinata scaletta della burocrazia medica necessaria per ottenere la certificazione di malato
perché era evidente che di malattia si trattava; il passare dei giorni, delle settimane e il lento lavorio
dell’inquietudine lo stavano sempre più imprigionando.
L’autorevole clinico, dopo aver ricevuto i risultati della dozzina di esami prescritti, lo aveva
convocato nel suo ambulatorio accuratamente addobbato con lampadari, luci e neon accesi alla
massima potenza.
Nanni, entrato con deferenza, era rimasto in piedi accecato dalle luminarie e dal luminare (che
vedeva concentrato a leggere le sue analisi) e dopo due minuti di eterno silenzio il Professor Russo
gli aveva mostrato i fogli dei risultati come fosse Mosè con le tavole della Legge, lo aveva guardato
con severità e, dogmatico, disse:
«Lei è sano come un pesce.»
«E il fiato corto?»
«Non è niente. Non ci pensi più!»
«Tutto qua?»
«Mi ringrazi se è tutto qua!»
Lapidario, ma, purtroppo, non risolutivo.
Eppure Nanni aveva provato a seguire il consiglio del Professor Russo. Per circa una settimana si
era sforzato: «Non pensarci. Non ci devi pensare e basta!», ma il fiato corto non ne voleva sapere di
essere ignorato e la sua persistente, ostinata presenza aveva acuito i suoi malumori tanto che si
erano affinati e affannati intorno al suo malanno che da semplice fastidio era stato innalzato a
preoccupazione cronica.
E torniamo al giorno odierno. La colazione, intanto, è finita e Nanni si appresta ad uscire di casa per
andare al lavoro. Poggia la tazza nel lavello, prende lo zaino con tutto l’occorrente ed esce per
dirigersi alla fermata del bus sotto un meraviglioso cielo limpido di fine aprile. Sono le otto del
mattino.
Sale sul 27, timbra il biglietto, si siede vicino al finestrino con l’intento di guardare fuori lo scorrere
della città e spera in una tregua da parte del suo fiato corto. Prima di volgere lo sguardo all’esterno,
tra il caotico e inconcludente chiacchiericcio dei vicini, la sua attenzione viene catturata da un
bambino in piedi accanto al papà che gli stringe la mano in silenzio, immobile; e che lo fissa
serioso.
Sta per sorridere al piccolo, ma di colpo ha una vertigine, il cuore inizia a battere velocemente,
molto velocemente, il fiato corto si fa ancora più corto, si sente soffocare e la sua mente, in un
vorticoso rimescolio di recenti conoscenze mediche, si àncora ad un agglomerato di incontestabili
certezze: «Ho un calo di zuccheri: sto per svenire! Anzi no, sto per morire! Il mio cuore fra poco
crepa! Devo salvarmi!».
In preda a queste indomabili sensazioni si alza di scatto e brama solo scendere immediatamente dal
pullman, lo opprime, lo asfissia, è in trappola, vuole fuggire per mettersi in salvo, e si guarda
intorno non per cercare aiuto ma per evitare che una rovinosa caduta a terra (definitiva o meno poco
importa) venga saccheggiata dalle onnipresenti orde di Social Content Media Creator: le storie
prima di tutto.
Prenota la fermata, la testa gli gira, non fa che muoversi avanti e indietro cercando un sostegno:
«Non ce la faccio e questo maledetto…» autobus impiega un tempo irragionevole e del tutto fuorimisura per compiere poche decine di metri tanto che Nanni, inspiegabilmente, inizia ad avvertire
una intensa e incontrollabile minzione: «…e devo pure pisciare…urgentemente!»
Dopo 1 minuto e 140 battiti scende dal quel mezzo mefitico, si siede su una panchina, testa fra le
mani.
Sente di svenire ma non sviene sente di morire ma non muore sente la pipì ma non la fa: il caos, è il
caos assoluto.
I suoi pensieri si accavallano uno sull’altro cercando disperatamente una spiegazione, una
motivazione al suo stato, una narrazione che lo riporti all’interno del mausoleo granitico della sua
quotidianità, della sua abitudine, perché là fuori è un brancolar nel buio calpestando cocci, cocci
dappertutto. Affranto volge lo sguardo in cielo ma vede solo un aereo che disegna ingegneristiche
scie diretto chissà dove.
«Ma che mi succede?»
Mentre sbircia intorno implorando una qualche rassicurazione emotiva, posa gli occhi sull’insegna
di una farmacia non molto lontana, un barlume di speranza lo convince che non è tutto perduto e
con uno sforzo erculeo si alza dalla panchina conquistando l’ingresso a passi incerti.
«Madonna questo. Guarda com’è messo!» (rivolta alla collega)
«Senti un po’ che vuole.»
«Buongiorno. Mi dica.»
«Buongiorno. (Reggendosi al bancone per il timore di svenire) Io stamattina ho fatto colazione
tutto bene poi ho il fiato corto da un po’ pensavo niente pure il medico mi ha detto niente e invece
io lo sapevo che era qualcosa altro che niente e adesso sull’autobus non respiravo più poi pure la
pipì e c’era il bambino che guardava…»
«Aspetti aspetti. Mi scusi ma non ho capito niente. Che le succede?»
«È che ho il cuore che batte forte e non respiro molto e forse potrei svenire o morire. Sono in preda
ad una fortissima ansia. Mi aiuti la prego.»
«Senza prescrizione medica non le posso dare nulla.»
«Qualsiasi cosa.»
«Ho solo un estratto omeopatico all’ambra grisea concentrata. Dicono che calmi.»
«Lo prendo!»
«D’accordo. Ne prenda ventitre gocce due volte al giorno. Sono 39,90€.»
«Pago con la carta.»
(La commessa inserisce la carta nel pos e aspetta. Silenzio)
«La connessione la mattina è sempre lenta.»
«Posso nel frattempo prendere le gocce?»
(Beep beep)
«Ecco ci siamo. Pin per favore.»
Nanni esce dalla farmacia certo d’avere tra le mani un potente ritrovato della ricerca scientifica e
soprattutto di un’arte medica innovativa, alternativa, l’omeopatia, che sta rivoluzionando la cura nel
mondo; si siede su un muretto e prende le ventitre gocce prescritte convinto di calmarsi da un
momento all’altro: un minuto… due minuti… tre minuti; non succede nulla. Altre ventidue
gocce….sopra la lingua, sotto la lingua….nulla di nulla. Guarda la confezione sperando che sia
scaduta: «…no, non è scaduta! Perché? Perché non sei scaduta?».
Intanto il cuore pompa, accidenti se pompa, sempre più veloce in un misto di paura e necessità. E
siccome la paura modella la necessità a proprio uso e consumo, Nanni si lascia trasportare da
inquieti pensieri lungo il baratro della ragione più cupa: «Un infarto. Sto avendo un infarto.»
Grazie a questa nuova diagnosi ottenuta con il garbo e la riflessione necessari, decide di dirigersi
verso il pronto soccorso, distante un paio di chilometri, a piedi, perché «prima che arrivi
l’ambulanza sono morto e camminare fa sempre bene al cuore come sostengono tutti». Tutti, tutti
chi?
Comunque, nonostante un cuore in dismissione, passi claudicanti, paura e tombe demolite, Nanni
arriva all’accettazione del pronto soccorso e subito nota che la fortuna trovata pocanzi in farmacia gli ha voltato le spalle nel momento più necessario: ci sono quattro persone prima di lui e, in quel
luogo, tutte bisognose.
Da impavido guerriero, sfidando la morte, si mette in fila; altro non può fare. Suda, guarda intorno
senza vedere nulla, attende, legge alcuni messaggi sul telefono, legge alcuni messaggi pubblicitari,
torna a guardare intorno, guarda le scarpe, il pianto di un bambino lo agita «ma perché? Perché mi
spaventa pure il pianto di un bambino?», suda, si toglie la giacca, trova un biglietto da visita a terra,
arriva un’ambulanza a sirene spiegate, botta di terrore 142 battiti, ha le ascelle pezzate «e non ho
mai sudato così in vita mia», attende, conta il battito cardiaco: 120, lo riconta: 134 circa, chiama la
madre…non risponde. Arriva il suo turno.
«Buongiorno, io sto avendo un infarto. Credo di avere un infarto. Sto morendo. Mi aiuti!»
L’infermiera lo guarda senza scomporsi, apatica, e con la flemma dell’assuefazione alle urgenze di
vita e di morte degli impazienti risponde:
«Mi lasci un documento e vada in fondo a destra. Il dottore la visiterà.»
Rincuorato dalla solerzia dell’intervento Nanni sta per fare un bel respiro ma in un attimo si trova
catapultato nella più tragica convinzione di aver azzeccato la diagnosi e che sia bastato lo sguardo
fulmineo di un’infermiera dell’accettazione per capire la gravità della situazione da dirottarlo
immediatamente in fondo a destra: 158 battiti.
Entra nell’ambulatorio, lo mettono a sedere e immediatamente gli misurano la pressione, gli
applicano un saturimetro all’indice destro e un paio di elettrodi al petto per un rapido
elettrocardiogramma.
Esito negativo: non c’è infarto, non c’è pressione alta e il sangue ha una saturazione del 99%. A
livello circolatorio è tutto perfetto e quindi il carattere d’urgenza che si era manifestato
all’accettazione decade rapidamente e altrettanto rapidamente Nanni viene fatto accomodare in sala
d’attesa con il codice bianco sui quattro disponibili, il cui colore sta ad indicare che lui sarà l’ultimo
ad essere chiamato, quando non ci saranno tonalità più intense e quando, a sala d’aspetto quasi
deserta, ogni medico avrà esaurito tutti i livelli di solitario che offre Windows.
Eppure, tra un affanno e un disordinato battito cardiaco, quel braccialetto bianco gli procura alcuni
secondi di inaspettata serenità.
Adesso, più che mai, entrato di prepotenza nel mondo placido e privo di responsabilità dei malati,
attende solo di essere incasellato in qualche categoria medica ben specifica con una dettagliata
terapia e delle vere (vere) medicine da ingurgitare.
Si siede vicino ad un signore anch’egli col braccialetto bianco. Si guardano ma non si salutano.
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