Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Condannato a luce” di Nicolò Pezzuti

Categoria: In Concorso

Axel Harper si alzò lentamente, con le manette ai polsi e il respiro affannato.
— La giuria ha riconosciuto l’imputato colpevole dell’omicidio di una minorenne. La Corte lo condanna alla pena capitale.
Nessun applauso. Nessuna lacrima.
Solo un lieve sospiro di sollievo tra i banchi dei parenti della vittima.
Axel rimase immobile. Le labbra si contrassero. Il pianto gli serrò la gola.
— No… Vostro Onore, sono innocente… amo mia moglie… amo i miei figli…
Barcollò. Due agenti lo sorressero.
Il giudice non disse nulla. L’udienza finì.
Lo portarono via. L’aula si svuotò in silenzio.
Due giorni dopo lo trasferirono alla Polunsky Unit: braccio della morte, celle isolate, un’ora d’aria al giorno.
Otto anni. In silenzio. Senza appello.
Tutti i ricorsi respinti: Corte d’Appello, Corte federale, governatore.
Negli ultimi tre anni non aveva più parlato. Ma ogni giorno scriveva:
“Mi chiamo Axel Harper. Sono innocente. Amo mia moglie. Amo i miei figli.”
Vide i gemelli crescere attraverso un vetro. Ora erano adolescenti. Di lui non restava nulla.
— Hai ricevuto la nostra lettera? — chiese la moglie attraverso la cornetta.
Lui annuì.
— Hai mai pensato a qualcosa che non puoi dire a nessuno?
Silenzio.
— Ho pensato al suicidio.
Poi, una notte, ho sentito una voce: “Non dargli la soddisfazione. Vivi fino all’ultimo giorno.”
— Una voce? Axel…
— Lo so cosa pensi, Taylor. Che sono impazzito.
Ma io l’ho sentita. E ci credo.
La sera prima dell’esecuzione, tornato in cella, si sdraiò.
La coperta era la stessa da otto anni: ne conosceva ogni piega, ogni centimetro.
Chiuse gli occhi. Sentì un soffio sul volto. Lo scacciò.
Solo buio.
Poi tornò: una presenza calda.
Provò a muoversi. Era paralizzato.
Il corpo levitò, come sollevato da mani invisibili.
La stessa voce parlò:
— Axel. Non posso cambiare ciò che accadrà domani.
Ma stanotte posso farti vivere, in poche ore, più vite di chiunque.
Vuoi farlo?
Axel non rispose.
Ma dentro di sé disse: Sì.
Il buio lo avvolse.

Qualcosa lo colpì in faccia. Poi di nuovo. Più forte.
Aprì gli occhi. La luce era accecante.
Un uomo rideva mentre lo schiaffeggiava. Pelle color rame, turbante stinto, denti radi. Indossava lino scolorito e collane sfilacciate. Sudava fumo e spezie.
— Si sta riprendendo — disse uno dei presenti.
Gli altri risero. Uno lo imitò barcollando, con le braccia molli e il collo storto.
L’uomo gli porse un bicchiere colmo d’acqua di fiume. Axel bevve.
Era calda, limpida, con il sapore della terra. Ma gli parve vita.
Il sole cadeva a picco sulle pietre. L’aria tremava.
Tutto brillava, come se il mondo evaporasse luce.
Il fiume scorreva, largo e maestoso, con il riflesso del cielo in ogni goccia.
Uomini magri si bagnavano. Alcuni si strofinavano con cenere. Altri pregavano.
Una mucca brucava tra la polvere, un’altra beveva lentamente.
Petali arancioni e rossi galleggiavano tra resti bruciati. Statue annerite affioravano dal fango.
Poi l’acqua si increspò. Si aprì, silenziosa, come richiamata da una volontà antica.
Emerse una creatura snella, simile a un coccodrillo scolpito nel tempo.
Sopra di lei, una donna. Veste avorio, capelli sciolti intrecciati di fiori bianchi.
Scivolava sul liquido vivo.
Le mani nude alzate. Non per accogliere, ma per attendere.
— Tu non hai ucciso. Ma nemmeno sei puro.
— Il karma non è colpa. È impronta.
Indicò il fiume.
— Lui non giudica. Ti svuota.
— Non assolve. Ma rende possibile il ritorno.
— Non entrare per ciò che hai fatto. Ma per ciò che ancora porti.
Axel annuì.
Si tolse la tuta arancione, quella con il nome cucito sul cuore.
Fece un passo. Poi un altro.
Lo avvolse qualcosa di tiepido. Materno.
Si immerse senza resistenza.
Chiuse gli occhi. Anche la testa scomparve sotto la superficie.
Solo quiete. Nessun tempo.
Poi, sott’acqua, sentì qualcosa cambiare.
Il fondale iniziò a dissolversi. Sabbia e limo svanivano.
Al loro posto, erba.
Riaprì gli occhi. Era riemerso. Ma non nel fiume.
Attorno a lui, una pianura verde.
Non c’erano volti. Né animali.
Solo una sagoma solitaria in lontananza: un grande albero.
Ai suoi piedi, un uomo seduto a gambe incrociate.
Axel si voltò.
Alle sue spalle, il fiume sacro svaniva.
Il Gange.

Si sedette di fronte all’uomo sotto l’albero.
Il cuore batteva forte, ma il silenzio dell’erba sembrava calmarlo.
L’uomo era immobile nella posizione del loto.
Mani in grembo, occhi chiusi. Nessuna espressione.
Axel lo fissò.
— Signore… ma il fiume? — chiese, ancora scosso. — Dov’è finito?
L’uomo non rispose subito. Poi la voce, calma, come venisse da lontano:
— Quale fiume?
— Quello che si è prosciugato.
— Sono sotto questo ficus da quarantanove giorni. Non ho visto alcun fiume. Solo silenzio.
— Ma… dove siamo?
— A Bodh Gaya. Dove ciò che credi reale comincia a dissolversi.
Axel abbassò lo sguardo.
— Sono stato condannato. Ingiustamente. Mi hanno tolto tutto.
Continuo a ripetermi che sono innocente… ma ormai non so più cosa significhi.
Eppure sono qui. E non capisco perché proprio io.
Silenzio.
Poi la voce tornò.
— Ti sembra che tutto stia svanendo?
— Sì. Come se ogni cosa mi stesse scivolando via.
— Impermanenza.
— Cosa?
— Tutto cambia. Nulla resta.
— Ma io non riesco ad accettarlo. Non riesco a lasciar andare la verità.
— Il dolore nasce dal trattenere. Anche l’innocenza, se la stringi troppo, diventa prigione.
— Io… ho perso ogni cosa.
— Niente dura per sempre. Neppure la giustizia.
E quando ogni certezza svanisce, resta il vuoto che chiamiamo nirvana.
— È… pace?
— Non è qualcosa che si ottiene. Non è un premio. È uno stato dell’essere.
Axel tacque.
Sentì un nodo sciogliersi in gola.
Per un istante, il suo stesso dolore non gli sembrò più suo.
Poi la terra cambiò.
L’uomo non si mosse, ma cominciò a dissolversi.
Il ficus, l’erba: tutto sbiadiva.
Le foglie si fecero polvere.
Axel restò seduto.
Attorno a lui, il nulla. Solo silenzio.

Dal vuoto, la materia prese a radunarsi.
Come se una forza invisibile stesse ricomponendo la realtà secondo un nuovo ordine.
La polvere si sollevò, e da essa emerse una figura.
Non camminava: si formava.
Il corpo sembrava fatto della stessa sostanza che aveva generato il fiume e l’albero.
L’uomo si ergeva davanti ad Axel.
Capelli lunghi, barba fluente.
Il volto sereno, ma attraversato da un’intensità che apparteneva a un’origine più profonda.
Indossava una veste bianca, semplice.
Intorno a lui, nessuna luce. Eppure, splendeva.
Axel lo guardò.
Fu attraversato da una certezza: lo conosceva da sempre.
Ma non sapeva da dove.
— Padre… — sussurrò, con la voce spezzata dall’emozione. — Poco fa stavo parlando con…
L’uomo lo interruppe.
La sua voce era calma.
— Sì. Stavi parlando con il figlio del re Suddhodana. Il principe di Kapilavastu.
Axel restò in silenzio. Qualcosa lo tratteneva dal rispondere.
L’uomo lo osservò con dolcezza.
— Per te sono passati pochi istanti.
Cinquecento anni separano la sua epoca dalla mia, secondo ciò che chiamate tempo.
Qui, tutto è presente.
Poi posò la mano sulla sua testa.
E in quel tocco c’era qualcosa che nessuna parola poteva contenere.
Un’energia calda lo attraversò, come se ogni ombra della sua anima evaporasse.
— Non è necessario che parli — disse l’uomo. — So già tutto.
Ogni tuo pensiero, ogni tua paura, ogni battito del tuo dolore.
Axel lo fissò.
In quella voce non c’era giudizio. Solo comprensione.
— Io, prima di te, sono stato crocifisso.
La voce si fece più grave, ma non aspra.
— Senza colpe.
Ho conosciuto l’umiliazione, il rifiuto, la morte.
Ma non è stato il mio corpo a definirmi. È stato il mio amore.
E non ho mai smesso di amare.
Axel sentì allentarsi qualcosa dentro.
Il peso che lo aveva piegato per anni sembrava, per la prima volta, più leggero.
— Non è la croce che definisce un uomo, Axel.
È la sua capacità di amare, anche nel dolore.
L’amore che non chiede nulla.
Che resta, nonostante tutto.
— Il mio cammino non è stato diverso dal tuo.
Ma ho trovato pace nel comprendere che la sofferenza esiste.
E che non può spegnere l’amore, se l’amore è vero.
Axel chiuse gli occhi.
Non c’era più nulla da chiedere.
Sentiva di aver ricevuto una risposta che non aveva forma, ma che abitava già dentro di lui.
La figura in bianco si voltò e si allontanò, passo dopo passo.
Mentre i suoi passi si dissolvevano nella distanza, all’orizzonte qualcosa prese forma.

Un punto lontano si fece presenza.
Scendeva dall’alto, in volo silenzioso.
La sabbia si sollevò attorno alla sua figura.
Seicento ali, come veli di luce, si dispiegavano dietro le spalle.
Non erano piume: erano forme della volontà.
Il volto era privo di età. Gli occhi limpidi.
Il corpo, denso e splendente.
Axel lo vide. E tacque.
Sentiva solo la presenza. Immensa. Inevitabile.
Quando parlò, lo fece senza voltarsi.
Parlava in avanti, verso il deserto, verso Dio.
Ma ogni parola era per Axel.
— Non sei qui per capire.
La comprensione non è un diritto. È una grazia. E non è data a tutti.
— Essere visti è più grande che comprendere. Tu sei stato visto.
— L’uomo che pretende spiegazioni è ancora schiavo di sé stesso.
Ma chi si lascia guardare da Dio è libero, anche nella catena.
— La verità non si conquista.
La verità si lascia accogliere.
E ci si abbandona a essa, come la sabbia al vento.
Passò oltre Axel, senza toccarlo.

La cella si aprì.
Erano le 5:43.
— È ora, Harper.
Axel spalancò gli occhi ma non disse nulla.
Si alzò. Si fece ammanettare.
Due agenti lo accompagnarono lungo il corridoio.
Le pareti erano bianche.
Il pavimento lucido.
Ogni passo aveva il suono di qualcosa già accaduto.
Lo portarono nella sala d’esecuzione.
Lo stesero sul lettino.
Le cinghie ai polsi, alle caviglie. Una al torace.
Uno dei presenti lo guardò.
Il volto di Axel era calmo.
Non solo sereno. Limpido.
Come se nulla potesse più turbarlo.
Distolse lo sguardo per un istante.
Non per paura.
Perché non capiva.
Si aspettava tensione. Rabbia.
E invece vide qualcosa di diverso.
Come se Axel avesse già attraversato tutto.
E tutto fosse stato giusto.
L’ago fu inserito.
La pompa si accese.
Il monitor lampeggiò.
Poi, un blackout.
Non un’esplosione.
Solo il silenzio che fa seguito alla fine del mondo.
Tutta la sala restò ferma.
La luce non tornava.
Nemmeno quella di emergenza.
Nemmeno i monitor.
Nemmeno i comandi.
Un tecnico urlò qualcosa.
Nessuno rispose.
Axel era steso.
Gli occhi aperti.
Il petto calmo.
Sorrise.
Poi pianse.
Pensò a lei. Ai figli. E fu pace.
Mentre il buio lo circondava, sapeva.
Ganga gli aveva insegnato che
nessuno è del tutto puro,
ma l’acqua scorre comunque.
Siddhartha gli aveva mostrato che
non serve un sé da salvare,
se sai lasciarlo andare.
Gesù Cristo gli aveva detto che
si può essere uccisi da innocenti,
e amare ancora.
L’arcangelo Gabriele,
portavoce di Allah,
gli aveva sussurrato che
non serve capire tutto.
Essere visti basta.
Il buio non era più vuoto.
Era presenza. Pura.
Anche se fosse tornata la luce,
anche se l’ago avesse ripreso a scorrere,
Axel Harper non aveva più paura.

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2 commenti »

  1. Wow, che storia ambiziosa! Però, secondo me, in tutta umiltà di semplice lettore, è un’ambizione ben riposta perché il racconto è decisamente intenso, poetico, denso di significati e con un grande messaggio positivo, trasversale ai vari modi di vedere che Axel sperimenta, e noi con lui. E veicolare un messaggio positivo mi sembra già un risultato notevole, soprattutto di questi tempi! Ho apprezzato molto anche lo stile di Condannato a luce (a proposito, che bel titolo!) e la scelta di usare un periodare breve con tanti accapo, quasi una versificazione anche se il pezzo è in una bella prosa potente. Complimenti e in bocca al lupo 🙂

  2. Buonasera Ugo,
    la ringrazio di cuore per il suo commento, mi ha fatto molto piacere leggerlo.
    Sapere che il messaggio positivo del racconto le sia arrivato è per me una grande soddisfazione.
    Sono felice che anche lo stile ed il titolo le siano piaciuti.
    Crepi il lupo!

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