Premio Racconti nella Rete 2025 “Elide e io” di Fabiola L. Falconieri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Avete mai visitato Borgameno? Vi assicuro che è un posto davvero prezioso, un borghetto, forse di origini medievali, in mezzo alla natura, circondato da forre spettacolari. Vi assicuro che dall’alto del campanile si può godere di un panorama unico. Quando l’aria è nitida, si vedono anche le montagne lontane, grigie oltre le colline verdi. A volte, d’inverno, nelle giornate fredde e terse si vedono le cime bianche di neve. “Un luogo incantato”, dice il cartello fuori dalle mura, prima dell’antica porta ad arco attraverso la quale si entra in paese, “dove abbandonare la vita frenetica di oggigiorno – Divieto di accesso ai veicoli non autorizzati”.
Il cartello non l’abbiamo fatto mettere noi, mia sorella Elide e io, che siamo gli unici veri abitanti di Borgameno, ma è stato piantato dalla Global Touring, una multinazionale che ha acquistato tutto il borgo e vuole trasformarlo in un resort diffuso. Anche questo è scritto sul cartello, in basso, con caratteri più piccoli. Un giorno, inaspettati, sono arrivati un trattore, un camion e una betoniera; hanno sradicato due lecci che stavano lì da prima che nascessi e tutti i cespugli intorno e hanno creato un ampio spazio per il parcheggio. Hanno piantato il cartello e, a lato, hanno messo su anche una casupolina prefabbricata in legno. Secondo Elide sono le toilette. Quindi avremo visitatori. D’altra parte c’era da aspettarselo che, prima o poi, qualche pezzo grosso del turismo avrebbe messo gli occhi sul nostro piccolo paradiso: non troppo lontano dalla città, silenzioso e tranquillo, aria pulita. Anche le falde acquifere si saranno ripulite ormai, se mai fosse stata vera quella voce che girava sulla vecchia conceria, che inquinava e avvelenava tutto il paese. Elide e io non avremmo fatto obiezioni: passare al turismo per dare nuova vita al piccolo borgo dimenticato ci sembra una buona idea. Però qualcuno avrebbe potuto almeno informarci. Questo è il nostro paese, siamo nati qui e abbiamo sempre vissuto qui, anche quando tutti pian, pianino hanno iniziato ad andarsene, noi siamo rimasti qui.
Finché c’era la conceria, c’era il lavoro; sporco, ma chi lavora si sporca, no? E faticoso, ma quale lavoro non è fatica? Tra le stradine di Borgameno trovavi le botteghe dei nostri artigiani che vendevano ogni genere di oggetto in cuoio, dagli abatjour agli zoccoli; c’era il forno e la latteria, e persino una piccola tabaccheria dove potevi comprare anche l’aspirina. Borgameno risuonava delle voci dei suoi bambini. Non eravamo molti, ma di chiasso ne facevamo, all’uscita dalla scuola con la classe unica, correndo tra i vicoli e scorrazzando su per le colline dietro le case. A scuola, Elide che ha 2 anni più di me, mi correggeva di nascosto gli errori di ortografia del dettato, ma la maestra se ne accorgeva sempre e la metteva a sedere nell’angolo più remoto dell’aula. Da quell’angolo lontano, Elide mi guardava e alzava il pollice, come aveva visto fare nei telefilm americani: tutto ok, non preoccuparti. Andava bene così.
Poi però, qualcosa non andò più bene. Nessuno capiva perché, ma i bambini di Borgameno cominciarono a non correre più, troppo stanchi, troppo deboli e pallidi. Nell’aula della classe mista era apparso qualche banco vuoto, di qualcuno che non si era più visto e la maestra, prima della lezione, ci chiedeva di fare una preghierina per i nostri amichetti in cielo. Girava quella voce sulla conceria, qualcuno diceva che inquinava le falde; tanti si lamentavano che l’acqua puzzava, ma si andava avanti lo stesso, perché, diceva nostro papà: “Senza lavoro, come la campi tutta la famiglia?”
E infatti non fu per colpa di quel medico della mutua che voleva denunciare tutti, perché si diceva che avesse fatto analizzare l’acqua e avesse le prove, che il borgo si è spopolato. Finché c’è stata la conceria, c’è stata gente a Borgameno. Triste e pallida, ma operosa e resistente. Fu quando dalla città arrivò qualcuno a mettere i sigilli, perché non si poteva più tenere a tacere la cosa; ecco, fu allora, il paese divenne povero e piano, piano iniziò a spopolarsi.
Anche la mamma voleva andar via, diceva che dovevano farlo per noi, Elide e io, per il nostro bene.
“Ho chiamato Santo”, Santo era il cugino che viveva lontano, in una città del nord, “ha detto che ci può ospitare per un po’, finché non troviamo un posto per noi. Nella sua fabbrica cercano gente.”
Papà no, lui a Borgameno ci era nato e ci voleva morire.
“Tu sei tutta pazza, cosa ti è venuto in mente?
Ma qui, ho vomitato la minestra sul pavimento della cucina e la risposta non è mai arrivata. Il giorno dopo è venuto il dottore, invece. Mi ha fatto spogliare tutto e tastato sulla pancia e sulla schiena, poi ha voluto vedere anche Elide. Non ci piaceva essere tastati, ma prima di andarsene, il dottore ci ha lasciato un sacchetto di caramelle al miele. Era un tipo simpatico, dopotutto. Quella sera, a cena, Elide e io non volevamo mangiare la minestra e tutti stavamo zitti. A un tratto, papà si è passato una mano sulla fronte e ha detto: “Vai alla posta, domani, chiama Santo.”
Così, anche a casa nostra, sono iniziati i preparativi per la partenza. Intanto, tutte le mattine, mamma ci lasciava salire sulla collina a raccogliere le ghiande e prendere aria buona, come aveva detto il dottore. Ma Elide e io non correvamo più, eravamo troppo stanchi. Quel giorno me lo ricordo bene: salivamo in silenzio verso il grande leccio, le gambe non mi tenevano e mi mancava il fiato anche se stavo zitto. Sono scivolato sul brecciolino. Ho sentito Elide strillare il mio nome, ha cercato di afferrarmi per la manica del giubbottino e ci è riuscita, ha cercato di tenermi, ma non poteva farcela. Insieme siamo rotolati giù nella forra maleodorante. Insieme, siamo rimasti lì, ben nascosti e nessuno ci ha trovati.
Stamattina il parcheggio è pieno, ci sono tante automobili. Da dietro una grande quercia, Elide e io stiamo a guardare: si è formato un gruppo di almeno una ventina di persone e due di loro sembrano le guide, parlano con tutti e indicano spesso la casupola-toilette. Siamo davvero eccitati, era tanto tempo che non si vedeva così tanta bella gente dalle nostre parti. Decidiamo di seguirli nella loro passeggiata attraverso i vicoli, che, solo adesso ce ne rendiamo conto, sono stati tutti ripuliti dalle erbacce per l’occasione. Una delle guide racconta la storia della conceria, della famiglia di imprenditori che dalla città era venuta a metter su il loro piccolo impero delle pelli qui da noi, perché c’era l’acqua, tanta acqua. La conceria aveva portato il benessere, la ricchezza e l’inquinamento delle falde, “che ormai è tutto risanato”, si affretta a concludere la guida, per invitare tutti a visitare quello che un tempo era il forno del paese. Anche qui, qualcuno ha ripulito ogni cosa e messo in bella mostra i taglieri, le pale e gli attizzatoi abbandonati. La visita non dura molto, Elide e io, rimasti ad attendere sul vicolo che da lì porta alla piazza del campanile, come è buona educazione, salutiamo e diamo a tutti la buona giornata. Improvvisamente, proprio di fronte a me, un signore si sente male, ha una specie di crisi e comincia a urlare. Non ricordo di aver mai sentito urla così terrificanti. Si crea un improvviso trambusto in mezzo al gruppo, qualcuno tenta di soccorrerlo, qualcuno scappa terrorizzato. Tutti alla fine, senza degnarci di uno sguardo, si affrettano verso le loro automobili. Elide e io rimaniamo lì a domandarci cosa ci sia di sbagliato a salutare.
“Forse è il nostro aspetto che li ha spaventati”, sussurra Elide
“Ma che scemenza dici…”
“Forse è da troppo tempo che viviamo qui da soli e non siamo più … presentabili.”
Elide è sempre stata saggia e inoltre non c’è uno specchio sano in paese.
“Saranno anni che non ci guardiamo in uno specchio, Elide!”
E ci mettiamo a correre verso la toilette prefabbricata, perché lì avevamo visto montare un grande specchio. Siamo curiosi, eccitati, un po’ preoccupati: quanto potremmo essere cambiati? Quanto potrei essere diverso da come mi ricordo? Elide mi rassicura che nonostante gli anni ho ancora l’aspetto di un ragazzino e io le ripeto, correndo, che sarà sempre la mia grande, pallida sorellina. Siamo entrati ridendo, ma c’è qualcuno nella toilette: una donna del gruppo dei visitatori che si sta lavando le mani. Si gira verso di noi e apre la bocca come se volesse urlare qualcosa, ma non emette un suono, solo stramazza a terra, con una strana smorfia di terrore sul viso; una felpa color glicine e i jeans blu contro il pavimento in calcestruzzo rosso mattone. Cosa avrà potuto mai terrorizzarla così? Noi non abbiamo visto nulla, nemmeno nello specchio, non c’è nulla di riflesso, solo le finte mattonelle giallo ocra della toilette.
Comunque, quando si è ripresa dallo spavento, la visitatrice ci ha detto di chiamarsi Marta. Gli altri sono andati via tutti, ma lei è rimasta con noi. Per sempre.