Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Il Piccolo Kendoka” di Linda Lercari (sezione racconti per bambini)

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Nelle orecchie il pulsare ritmico e quasi assordante del cuore, gli occhi due fessure sottili simili a quelle di un gatto in caccia, il respiro tenuto stretto fra i denti forse a non voler far scappare il fiato. Marco scuote un poco il capo e cerca di calmarsi: è davvero troppo, troppo agitato!

Si guarda intorno, tutto gli pare così grande, così fuori dalla sua portata e lui? Lui si sente ancora piccolo, inerme, indifeso. In mente l’appellativo con cui, con bonario affetto, spesso lo avevano chiamato in tutti quegli anni.

No!

Marco picchia il piede destro sul parquet e cerca di concentrarsi. Si sta lasciando sopraffare dall’emozione. Sospira con lentezza, gustando l’aria man mano che dalle narici passa ai polmoni per poi uscire dalla bocca. Chiude gli occhi per un istante e il pensiero torna a dodici anni prima.

Ricorda tutto, tutto è scolpito nella mente. La sua mano così piccola protetta da quella più grande della zia, il trotterellare nel corridoio lungo e freddo sino all’accesso agli spalti, la ricerca frenetica dei posti. Il Palazzetto dello Sport si stava riempiendo velocemente e l’aria era pregna di frizzante aspettativa. Marco e sua zia Camilla avevano fatto un lungo, e un po’ noioso, viaggio per arrivare in quella città chiamata Novara. Era il 2012 e l’evento tanto atteso erano i Mondiali di Kendo.

Il Kendo… La zia gliene aveva parlato con tanto entusiasmo da aver stuzzicato la sua curiosità. Aveva sei anni e aveva fatto non pochi capricci per convincere il papà e la mamma a lasciarlo andare. Sei troppo piccolo! Non ci capirai nulla! Ma che roba è il Kendo? Le obiezioni erano fioccate come frecce ben scoccate dall’arco del rifiuto dei genitori, ma Marco non si era arreso. C’era la zia Camilla: lei se la cavava sempre, non ci sarebbero stati problemi. Una fiducia quasi cieca in quell’adulto tanto strano. La zia che non aveva figli suoi, che un paio di sere a settimana “andava agli allenamenti” oppure “faceva le prove di teatro” e mille e mille altre attività oscure e misteriose che lui non sempre riusciva a comprendere. Dopotutto non si poteva neppure pretendere che un bimbo di sei anni conoscesse più che il mondo che riusciva a raggiungere con le sue manine e i suoi piedini.

Marco torna al presente, apre gli occhi e si rende conto che è ancora presto. Guarda i maestosi fari che illuminano l’area delimitata da strisce di nastro bianco poste sul parquet, sorride e poi richiude gli occhi cullandosi ancora nel ricordo.

Avevano trovato i posti, ma erano un po’ scomodi e rigidi. La zia aveva avuto un moto di disappunto. Aveva storto la bocca e si era dispiaciuta per lui. Temeva che il nipote potesse annoiarsi e che non potesse neppure schiacciare un pisolino in caso di necessità. Lo aveva fatto accomodare ammorbidendo la seduta con la giacca ripiegata e sperando che fosse sufficiente. Marco sentiva prepotente la sensazione di vuoto davanti a sé. Erano in alto e vedeva i quadrati bordati di bianco così lontani. Il pavimento di legno era tanto diverso rispetto al campo da calcio. L’aspettativa si respirava a grandi boccate e, anche se era un bimbo, aveva già compreso una grande differenza fra quella disciplina e le partite di pallone che era solito vedere alla televisione: la tifoseria. Le persone sembravano tutte molto ansiose, interessate, trepidanti, ma il brusio tutt’intorno era sommesso, contenuto. Nessuno gridava, nessuno alzava la voce.

Si riscuote un istante. Percepisce la quantità di persone che si stanno avvicendando e ora, come allora, tutto è attesa, ma quieta, silente. Marco torna al passato.

La zia si era raccomandata che se si fosse annoiato lo avrebbe portato fuori, non voleva costringerlo ad assistere per forza. “La vita è troppo breve per viverla a forza” gli diceva spesso. Il sorriso sempre pronto, una buona parola, un consiglio, ma soprattutto libri. La zia Camilla gli regalava spesso romanzi e fumetti, lei adorava leggere e sperava di istillare in lui la stessa passione. Ma quante passioni aveva la zia Camilla: recitazione, scrittura, poesia e… e il Kendo. Marco si sentì afferrare dolcemente la mano e fu fatto rimettere in piedi: i Mondiali stavano iniziando e nell’aria le note ben conosciute. “Mi raccomando, si sta in piedi durante l’Inno Nazionale” gli sussurrò la zia. E per rispetto, quel giorno, lo fece alzare diverse volte perché erano tante le nazioni ospiti e altrettante le meravigliose musiche trasmesse. Tutto era magico, profondo, molto cerimonioso. Poi erano cominciati gli scontri. Marco non riusciva a distogliere lo sguardo carico di stupore e ammirazione. Gli inchini dei contendenti, gli scatti fulminei, lo sventagliare veloce delle spade di bambù i colpi andati a segno, le bandierine rosse e bianche degli arbitri così eleganti. Camilla gli spiegava i punti essenziali cercando di non distrarlo troppo. Il bambino era affascinato dai vestiti indaco tradizionali, quelle gonne pantalone dalle pieghe così definite, quelle protezioni lucide sul ventre, ma, soprattutto, i caschi dai grandi alettoni laterali e con quelle grate metalliche a proteggere i volti. Sembravano tanti fieri Samurai durante una specie di battaglia, ma una battaglia orchestrata, precisa, sì senza esclusione di colpi, ma carica di onore, di gloria, di lealtà nei confronti degli avversari.

“Il casco si chiama Men, i guantoni Kote, il pettorale Do. Sotto si porta la giacca chiamata Kendogi e la gonna pantalone è l’Hakama… Poi vedi? Quella specie di grembiulino rigido con i simboli delle varie nazioni? Quello è il Tare” La zia indicava e spiegava con pazienza e rispondeva con amore alle domande vibrate di Marco che non si capacitava dello spettacolo a cui stava assistendo. “Ma non si fanno male?” chiedeva il bambino osservando come gli Shinai – così gli aveva capito che si chiamavano le spade di bambù – colpivano sulle varie protezioni. “Be’, a volte proprio bene non si fanno…” scherzava Camilla “ma non ti preoccupare, il grosso dell’urto viene attutito da tutte quelle cose che ti ho detto e poi… poi qualche piccolo livido fa parte del curriculum di ogni buon guerriero, guarda!” e la zia aveva scoperto il braccio per far vedere allo stupito nipotino una chiazza violacea poco sotto il gomito. “Ma zia! Ma non ti fa male?” lei gli aveva sorriso “fa più male vivere senza sfidare sé stessi”.

… Sfidare se stessi…

Marco scuote di nuovo la testa. Le parole della donna lo hanno accompagnato sin lì. Sino a quel momento, al momento decisivo.

Per un attimo ancora ricorda quei mondiali. L’emozione, la curiosità e quella complicità che era nata con la zia. Poi il loro ritorno sino a casa. Era stato un viaggio ricco di domande, di perplessità e la zia gli aveva detto che, se era tanto interessato, lo avrebbe portato al Dojo – il luogo preposto agli allenamenti – per togliersi ogni dubbio. E, infatti, pochi giorni dopo Marco aveva avuto il permesso di recarsi alla palestra con la zia. Anche il papà e la mamma avevano accompagnato il ragazzino e avevano assistito un po’ dubbiosi a una lezione. Marco non stava nella pelle dalla voglia di provare a fare quello che aveva visto a Novara e vedere la zia vestita di tutto punto come quei Samurai lo aveva elettrizzato. “Zia, ma anche tu sai combattere come loro?” Il sorriso leggero di Camilla attraverso la grata del Men che le proteggeva il viso era appena percettibile. “No, tesoro, non ho tanto talento, ma non per questo mi tiro indietro. Vedi? Ognuno combatte come può, basta avere cuore e voglia di imparare a migliorarsi giorno dopo giorno. L’importante è seguire la Via”.

La Via.

La zia gli aveva parlato della Via. Kendo, la Via della Spada, ma era un percorso che sarebbe durato tutta la vita, in ballo non c’era solo un’attività sportiva, ma una disciplina che accompagnava chiunque vi si dedicasse per il resto dei suoi giorni.

Infine Marco era stato presentato la Maestro che era scettico sull’accogliere il bambino nel Dojo. “Non sei un po’ piccolo per praticare il Kendo?” gli aveva chiesto e Marco aveva alzato fiero il capino verso quel signore dall’aria saggia e pensierosa: “voglio essere un Samurai! Voglio essere come mia zia!” Camilla aveva sorriso ed era intervenuta: “Sicuramente anche meglio, sicuramente anche meglio!”.

E così Marco aveva intrapreso la Via. Un percorso dapprima lento fatto di ripetizioni e ripetizioni degli stessi movimenti. Soprattutto il corretto modo di camminare, di impostare i piedi, di tenere le spalle dritte. Marco si era un po’ scoraggiato perché aveva sperato di impugnare subito lo shinai, invece c’era voluto molto tempo, ma tutti, al Dojo, lo incoraggiavano. Per loro era il “piccolo Kendoka”, per via della statura. In quegli anni procurarsi l’attrezzatura per un bambino non era stato semplice, ma il Dojo si era organizzato. Gli avevano insegnato il significato delle sette pieghe tradizionali dell’Hakama, la gonna pantalone: benevolenza, onore, cortesia, saggezza, sincerità, lealtà e pietà; e questi precetti avrebbe sempre dovuto attenersi. Il Piccolo Kendoka proseguiva. Trascorsero i mesi, poi gli anni, ma Marco non si dava mai per vinto. E al suo fianco sempre la Zia Camilla. Ogni tanto qualche livido, ma non più di quelli che avrebbe potuto procurarsi con qualsiasi altra attività sportiva. Anche se stava attendo a usare quella parola. “Il Kendo non è uno sport, è un’arte marziale” ripeteva spesso il Maestro. E pian piano Marco assorbiva gli insegnamenti, la capacità di meditare, la concentrazione. I genitori, così dubbiosi all’inizio, si erano ritrovati entusiasti di quanto quella disciplina facesse bene al ragazzo. Era più attento a scuola, più interessato al mondo che lo circondava e cresceva in lui quella sicurezza che lo aiutava a risolvere i mille piccoli e grandi problemi che la vita gli presentava. A volte si era sentito un po’ emarginato perché non aveva tanto tempo per giocare a pallone con gli altri, ma pian piano aveva convinto qualche compagno di scuola ad andare a vedere i suoi allenamenti e i ragazzi erano rimasti molto colpiti dal vedere Marco combattere con avversari tanto più grandi di lui. Dopodiché a scuola nessuno aveva più pensato che Marco fosse un ragazzo bizzarro, anzi! A scuola tutti avevano preso a chiamarlo “Il samurai”, un po’ forse anche scherzosamente, ma non troppo. C’era in Marco una fierezza indomita che traspariva in ogni gesto, in ogni sguardo.

Crescendo aveva potuto allenarsi in vari Dojo in giro per l’Italia. Marco aveva combattuto con ragazzi quasi della sua stessa età e poi si era confrontato con avversari più esperti, più formati. Non indietreggiava mai. Un po’ si dispiaceva per la zia Camilla, perché in lei percepiva tanta dedizione che, purtroppo, non andava di pari passo con i suoi progressi. A volte ne avevano parlato e la donna lo aveva guardato dritto negli occhi “Quello che conta è seguire la Via, mio piccolo Kendoka”. E la questione era stata chiusa. Eppure lui avrebbe voluto che la zia fosse più forte, più agile più… come lui. Sì, perché Marco era diventato un abile spadaccino e sempre più spesso lo chiamavano per le competizioni giovanili. Nel suo Dojo avevano organizzato anche una bella festa quando aveva ottenuto il secondo Dan – nel Kendo non ci sono cinture come nel Karate, si contano i Dan, ma non ci sono cambiamenti nell’abbigliamento – perché aveva letteralmente bruciato le tappe della sua istruzione. Marco era davvero dedito: non importava se era freddo e il pavimento gelido – il Kendo si pratica scalzi – e non faceva caso alle zanzare nei giorni estivi. Praticava sempre e sempre con grande impegno.

Marco respira ancora a fondo. Ora è calmo, ora è pronto. Il contatto con le assi del parquet gli dona sicurezza. Si sente tutt’uno con il mondo che lo circonda. Si sente completo, in pace con sé stesso e pronto ad affrontare ogni sfida.

Camilla osserva dagli spalti. Il Palazzetto non è più quello di Novara, ma di Milano e l’Italia ospita nuovamente i Mondiali di Kendo. Dodici anni non sono molti per un adulto, ma per un ragazzo sono una vita intera. Guarda suo nipote mentre indossa la divisa completa e il Tare coi colori dell’Italia. A fianco a lei i genitori di Marco e il Maestro. Tutti loro sorridono pensando a quei dodici anni di sacrifici e dedizione del loro Piccolo Kendoka.

Poi si alzano in piedi. Nell’aria l’Inno Nazionale.

E Marco sfila insieme al resto della Squadra Nazionale Maschile di Kendo. Cresciuto, giovane adulto, seguendo la Via, il suo sogno e quegli ideali che lo accompagneranno per il resto della vita, perché la Via è per sempre.

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2 commenti »

  1. Non sono del tutto sicuro che Il piccolo Kendoka sia un racconto per bambini ma questo è un problema mio 🙂 Invece sono sicuro che sia un buon racconto: interessante perché schiude una visuale su un mondo esotico e, per i più, misterioso nonché indubbiamente affascinante; emozionante perché insegna e veicola valori importanti, che contribuiscono a formare una persona. Confesso che il finale mi ha commosso. Grazie per questa bella storia 🙂

  2. Carissimo Ugo, ti ringrazio per il commento, ho pensato che potesse essere un racconto per l’infanzia perché parla della crescita di un ragazzino e ho ritenuto che essendo di “formazione” potesse incuriosire i giovani. I valori che vorrei trasmettere sono quelli a cui tengo anche io, un caro saluto e un abbraccio. Linda

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