Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Il Gigante Buono” di Davide Lugli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Bologna, primi anni ’80. Una città vivace, aperta, accogliente. Sul crescentone di Piazza Maggiore poteva capitarti di incontrare personaggi quali Gianni Morandi e Lucio Dalla a passeggio nella loro città. Sulla stessa piazza ogni giorno trovavi capannelli di anziani, che a loro volta ne circondavano un altro, tutti presi a discutere o ad ascoltare l’improvvisato allenatore o il politico di turno. A mano a mano che ci si spostava dal centro verso i quartieri periferici, queste discussioni di altissimo livello non scomparivano, ma trovavano spazio nei bar o nelle bocciofile. Con modalità diverse, Bologna era sempre la stessa.

In quella Bologna viva e vivace, in un freddo inverno del 1982, avvenne un incontro davvero importante per la mia vita futura. Nonna Tina mi portò per la prima volta a fare il giro delle botteghe di via Galeotti e via San Donato. Mi aveva vestito come se fossimo stati in alta montagna, ma io, bambino di nemmeno quattro anni, non avevo possibilità di scelta né di critica. Mi vestivano e via andare.

Per nonna quello era, invece, un sacro rituale, una sorta di via crucis giornaliera, dove, in rigoroso ordine di numero civico e topografia, si andava prima dal formaggiaio, poi dal fornaio e, infine, dal salumiere. Quella del San Donato era per davvero una “zona popolare” di Bologna: un modo garbato per dire che, se non eri ricco, quello era il posto perfetto per te. In quel quartiere, dall’immediato dopoguerra, si erano stabiliti in gran parte gli immigrati che dal meridione italiano erano saliti in cerca di fortuna e, quindi, quelle case del comune erano divenute un crogiuolo di regionalità disparate. Gente per bene, di cuore, persone che oggi, forse, non esistono neanche più.

Quel periodo, però, era anche segnato dall’eroina che trovava terreno molto fertile in quel contesto povero dove, camminando semplicemente per strada, non era difficile imbattersi in cattive compagnie. Il compito dei bottegai della zona era anche questo: tenere noi bambini fuori da qualsiasi pericolo, intervenire se qualche sbandato si avvicinava un po’ troppo. Insomma – ecco l’antica solidarietà dei quartieri popolari – erano una sorta di seconda famiglia che godeva di una fiducia sconfinata da parte del nostro parentado. E tra tutti questi c’era lui: un omone che per noi piccoli era letteralmente un gigante. Dietro al suo bancone, dall’alto del suo metro e novanta, affettava ogni giorno chilometri di salumi, sempre sorridente, ma con una voce così cavernosa che, quando ti rimbrottava per qualcosa che avevi combinato, non ci pensavi minimamente a non dargli retta.

Nella sua bottega respiravi sapori autentici, forti, quelli che oggi nei supermercati non ritrovi uguali. Si chiamava Dante, di cognome Canè, ed era uno che, quando attaccava bottone, passavi delle mezze ore a chiacchierare del Bologna, della Virtus o, più in generale, di qualsiasi sport che trovasse spazio in quegli anni sul Resto del Carlino e su Stadio. Quando, però, toccavi l’argomento pugilato, vedevi i suoi occhi brillare di una luce scintillante, tanto gli era caro quell’argomento. Il primo ricordo che ho di lui è di quel freddo gennaio: entrai nel suo regno e vidi, appesa alle sue spalle, la sua foto in bianco e nero su un ring. Lui, baffoni e faccia da buono, uscì dal bancone verso di me, mi prese e mi fece volare verso il soffitto. Un incontro decisamente indimenticabile.

Per noi bambini, e per me in particolare, la sua salumeria divenne nel corso degli anni una sorta di rifugio e insieme di doposcuola. E quando quella montagna umana cominciava a parlare, ti portava nel suo mondo, su quel ring che aveva abbandonato pochi anni prima e che tanto gli era stato caro. Ti raccontava di città lontane visitate e di quel Madison Square Garden che io manco sapevo dove caspita fosse. Anche se quell’uomo tanto alto e imponente era quasi triste quando raccontava della sua vita passata, mi affascinavano i suoi racconti: mi sembrava di essere lì con lui, di assistere all’incontro e, anche se non conoscevo la metà dei nomi che mi diceva, annuivo contento, pur sospettando talvolta che le sparasse un po’ grosse, quasi per prenderci in giro.

Invece, Dante, non mi stava affatto prendendo in giro, perché quelle cose che raccontava, le aveva vissute per davvero. Chiesi a mio nonno di raccontarmi la sua storia, perché in quegli anni io conoscevo i pugili del momento, ma di Canè non sapevo davvero nulla. Il nonno prese dei vecchi ritagli di giornale per farmi vedere le foto di quando Dante era sul ring. Aveva combattuto, vinto e perso. Era stato negli Stati Uniti e scoprii finalmente anche dov’era il Madison Square Garden; era stato in Canada, dove era uscito sconfitto in maniera onorevole contro Chuvalo, uno che era rimasto in piedi per quindici riprese nientemeno che contro il grande Mohammed Ali. Più volte campione italiano, aveva tentato due volte l’assalto alla cintura europea, perdendo entrambe gli incontri, prima contro Joe Bugner e poi, nell’ultimo match della sua carriera, con Alfredo Evangelista.

Che sorpresa! Quello che tutte le mattine mi preparava la rosetta con il salame prima di andare a scuola, era stato davvero un grande campione di pugilato. La bottega di Dante, che nel frattempo si era spostato qualche civico più in là sempre su via Galeotti, divenne per me una sorta di tempio. Mi raccontava di quando tutto era iniziato da papà Bruno, che lui aiutava in bottega; di quando era passato ad allenarsi alla Sempre Avanti e di quel Leone Blasi che lo aveva “battezzato” non appena varcata la soglia della palestra. Parlava e io non mi stancavo di ascoltarlo, perché nelle sue parole c’era pathos, tanto pathos, e non era solo un grande oratore; si prendeva cura di me, si interessava che io non mi cacciassi in qualche casino. Dante era questo: un campione tra la gente e per la sua gente, per tanti ragazzi una sorta di ultimo baluardo davanti al precipizio. Al suo ultimo incontro, il secondo per il titolo europeo a fine anni ‘70, pur strapazzato in appena quattro riprese, venne acclamato dal pubblico come un vincitore: un eroe.

Eppure, anche quell’uomo così imponente aveva un limite. Quando nel 1997 muore la moglie Paola, per lui è un colpo da KO, di quelli dai quali non ti riesci più a rialzare. Tante volte era stato messo alle corde o finito al tappeto e si era ripreso, ma quella vita senza di lei era diventata improvvisamente qualcosa contro cui era inutile lottare. Lo vidi un’ultima volta nella primavera del 2000, mentre scaricava la macchina davanti alla salumeria: un cenno di saluto, un sorriso stanco, quasi di consuetudine. No, quello non era Dante. Pochi giorni ancora e arrivò per lui la chiamata dall’alto. Mi piace pensare che in quel momento, quando il suo cuore si fermò per sempre, abbia sentito lo stesso applauso di quel dicembre del ’78, quello del Madison di Piazza Azzarita, quando sconfitto davanti al proprio pubblico e nella sua Bologna, nell’ultimo incontro della sua carriera, non esitò, con la sua solita umiltà, a chiedere scusa a tutti. E tutti si alzarono per applaudire il gigante buono, Dante Canè, il pugile che prima sul ring e poi come uomo, aveva sempre dato veramente tutto quello che poteva dare.

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