Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Non si scampa alla terra” di Daniele Cerruti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Ci sono sei, sette persone. Parlano fra loro a gruppi di due o tre. Qualcuno ha lo zaino sulle spalle. È presto, non sono nemmeno le sette e mezza. Il bus navetta è già qui. L’autista segna i nomi dei presenti a mano a mano che arrivano: nome, cognome, tipo di corso. Refresc MAMS? Sì, l’autobus è quello giusto. Partiamo alle otto: fumatevi pure una sigaretta, è ampresso.

É settembre, eppure fa ancora caldo. La mattina, con il vento fresco che carezza la pelle e il collo, è piacevole stare al sole. L‘odore di piscio, di spazzatura, di frutta irrancidita, di benzina irrita le narici. Qui, all’angolo della stazione, i barboni dormono in materassi sgualciti e sporchi che di mattina svaniscono chissà dove. Spariscono pure i senzatetto, con i borsoni pieni di calze di spugna da vendere a un euro al paio. È rimasta una ragazza di colore, magra, minuta, gli occhi che sporgono da orbite incassate. Sta seduta sulla lastra di marmo sotto la vetrina del MacDonald. Guarda la gente e la segue con lo sguardo come se la vedesse per la prima volta. Uno sguardo così, con gli occhi ardenti come pietre laviche scagliate sul mondo, fa quasi paura.

 Arrivano due militari. Sono gentili, ma fermi. La ragazza afferra il cartone e una coperta lurida e si sposta di pochi metri. Poi si alza; chiede una moneta. Due tipi con lo zaino si voltano, restituiscono volti inespressivi. La ragazza se ne va.

Ne abbiamo viste troppe. La terra non ci riguarda.

Si inizia a salire sul pullman torpidi come se fossimo sfibrati. La polvere pesa sulle nostre caviglie.   Abbiamo il riserbo dell’animale selvatico, la cautela della preda nel fitto della boscaglia.

Le parole beccheggiano, sempre uguali, nel corridoio tra i sedili: con chi navighi?  Che tratte fate? Come si sta lì da voi? Quelli al primo imbarco si riconoscono dall’entusiasmo; i vecchi, dalla rassegnazione.

Un uomo parla al telefono col figlio: “Genna hai a ì a scola. Hai fatto i compiti? Oh, non piangere… Che poi la direttrice, da sola…. Poi te levano internet, eh! E a Mario Bros non puoi giocare più.”

Fuori la ragazza di colore si è stesa sul cartone e si è avvolta nella coperta fino alla testa. Sembra un mucchio di spazzatura. La gente le passa accanto, la sfiora con gli occhi, irrigidisce il collo e lo sguardo.

“I compiti li hai fatti a papà? E allora… dai, a papà. … Vai là: è ‘na mattinata. Hai fatto pure i compiti. Poi, come premio, ti rimandano a casa”.

Qualcuno ha sbagliato autobus. L’autista lo rimprovera:” Con voi è sempre un casino”. È che a terra, noi, si fa confusione. ‘Ste cose dritte, qui, organizzate: gli autobus, le fermate, gli orari da rispettare; ci fanno sentire foresti e incongrui. Noi, si vive che gli orari sono pochi. La prima mensa è alle undici; la seconda a mezzogiorno. Le sigarette ogni cinque giorni, ma il cambusiere, se lo sai prendere, alla fine te le dà lo stesso.

Gennaro si dev‘essere convinto. Ma sì, Gennà, alla fine è giusto una mattinata, che vuoi che sia.

L’autista ha acceso il motore. Mancano cinque minuti alle otto. Un tipo spegne una mezza sigaretta, la getta a terra e sale. Guardo la cicca e m’imprimo nella mente la forma ritorta. Chissà se quando torniamo, tra due giorni, la sigaretta sarà ancora lì.

L’autobus parte. Andiamo, va’, andiamo a fare ‘sti i compiti.

Così poi, alla fine, ci rimandano a casa.

.

Il tizio con la maglietta blu e bianca con la scritta istruttore ricamata a destra, da noi faceva il direttore di macchina. L’ho navigato due o tre volte. È un bravo cristo.

Lui si ricorda di me. Mi guarda per un po’, strizza le palpebre e accenna un mezzo sorriso.

– Ma dove ci siamo navigati noi. – Non è una domanda. Io faccio il nome di qualche nave.

– Bei tempi – dice poi, e lo fa senza sorridere.

–  Lasci stare, Direttò – rispondo – Non è più come ai tempi vostri. – È una risposta che ho imparato a dare in automatico. Nemmeno ci penso più di tanto; vedo uno che non naviga da tempo e mi parte il “nonèpiùcomeaitempivostri”. L’altro di solito sorride soddisfatto. Sa che il meglio se l’è preso, che può starsene con la moglie, la sera, in poltrona a vedere il quiz del preserale senza troppi rimpianti.

Il direttore stira gli angoli della bocca. D’altra parte, lui, l’aveva detto dieci anni prima. Che sarebbe diventato tutto ‘na merda. Che a bordo già non si poteva stare più allora, figuriamoci adesso. Dicono tutti così. Il futuro, per un marittimo, è un ombrinale dove cola tutto il liquame rancido che chiamiamo presente. Tornerebbe indietro? No, mai: mica è fesso. Anche se le navi, dopotutto, un po’gli mancano.

-Tu che devi fare? – domanda.

U refresc du mams– faccio io.

– Bene: sei con me. Scrivi qui: corso n° 76. E poi sotto, vedi? “Marittimo abilitato ai mezzi salvataggio” Tutto quanto, per esteso.

Scrivo. La rotellina di acciaio della biro gratta il foglio ruvido del formulario.

Direttò

– Eh, che è? Hai scritto?

– No, è che…

– Ma non ti preoccupare. Passano tutti. Vuoi non passare tu?

Si sta un paio di giorni per fare i refresc. I refresc sono corsi brevi di aggiornamento. Si fanno ogni cinque anni. Se imbarchi per la prima volta i corsi li fai per intero e durano dieci giorni. Dopo cinque anni, fai il refresc.

Il mio dura due giorni. Anzi un giorno e mezzo. Stasera dormo in struttura, come dicono loro e mangio qui.

L’indomani c’è l’ultima lezione: fai il test finale, ti prendi l’attestato e te ne vai.

Domani, all’una, hai finito.

Ciro lo incontro al baretto sotto il porticato. Alle dieci c’è la pausa caffè e siamo tutti lì. È molto più magro dall’ultima volta che l’ho navigato, il viso mi sembra più smunto e scavato. Sta facendo l’antincendio, dice. Parliamo del più e del meno; mi racconta del suo ultimo imbarco; di un collega, con cui ha avuto discussioni. A pochi metri da noi c’è la piscina all’aperto, proprio davanti al punto ristoro. Il sole del mattino copre di scaglie di luce la superficie dell’acqua. Sembrano strisce di carta argentata che galleggiano a fatica sulla superficie appena increspata dal vento. Qualche bagliore inaspettato costringe a schiudere le palpebre e a reclinare il viso di traverso.

– Quando vai via? Domani? – Mi chiede e va avanti senza sentire la risposta, come se parlasse fra sé: – Io no, ho ancora la sopravvivenza: ci vorrà un’altra giornata.

Tace, di colpo, e lascia che gli occhi si spostino sul bordo della piscina e poi più avanti, sull’acqua smorta.  Io sto zitto, aspetto. L’odore del caffè, che proviene dal bar, si mescola ai vapori di cloro. A bordo vasca arriva un gruppo di corsisti. Devono fare le prove in acqua. Indossano il costume, il salvagente arancione con le strisce catarifrangenti. Si muovono svogliati, strascicando le ciabatte di plastica sulle piastrelle in vetroceramica dell’impiantito.  Ciro mi guarda, abbassa di poco il mento e il tono della voce.

– Io qui manco ci dovrei stare.  Con quello che ha mio cognato.

L’istruttore ha indicato un tipo tarchiato con i capelli corti. Quello china il capo, si volta e s’incammina verso la pedana del tuffo. Vicino alla scala, scalcia via le ciabatte, e inizia a salire.

– Solo che ora è in terapia. Ne avrà per mesi. Non ci facciamo illusioni.

Il ragazzo allinea i piedi sul bordo della pedana. Con la mano sinistra chiude le narici; con la destra afferra la spalla sinistra. Per un secondo che sembra dilatarsi all’infinito, rimane così ritto in piedi sulla pedana. La sua figura si staglia contro il lucore del cielo. C’è un silenzio nuovo intorno, carico di attesa. Poi, con una brusca risoluzione, piega le ginocchia e si tuffa. Si sente lo scroscio d’acqua. Riappare e inizia a nuotare. Qualcuno grida un “bravo!”. L’istruttore si volta, torvo, per vedere chi è stato.

– Bisogna tentare capisci? Anche se sappiamo già. Mia moglie l’ha presa male. Sai, lei ha perso il padre da piccola. Lui è stato, insomma… capisci, no?

Il tipo tarchiato è uscito dall’acqua. Sorride, mentre si toglie il salvagente.

– Se riesco a fare tutto ora, imbarco a novembre. Chiedo il prolungamento, almeno fino a febbraio. Sì a febbraio. Così sto a casa capisci? Non è per me. È per mia moglie, per i miei figli.

Bisogna trovare tempo per tutto.

Anche alla morte, dobbiamo trovare un tempo.

Il direttore passa tra i banchi e ci consegna gli attestati.

Firmiamo.

 All’uscita, tutti rilassati e sorridenti. C’è tempo per prendere un caffè al baretto, davanti alla piscina. Cerco Ciro con gli occhi. Non c’è. Abbiamo l’aria da ultimo giorno di scuola, con il sole alto che ci brucia la pelle, e il sorriso imbarazzato di circostanza.

Ci sediamo appena fuori, all’ingresso. Il sole picchia duro sull’asfalto pieno di buchi e una brezza leggera alza vortici di polvere e sporcizia davanti a noi. Stiamo in silenzio.

Arriva l’autobus bianco, con stampigliato, sulla fiancata, il logo dell’Istituto.

L’autista scende e ci viene incontro.

– Dovete andare a Napoli? Stazione o aeroporto?

A Napoli, andiamo. Stazione.

– Allora mettetevi dietro. Davanti quello che vanno all’aeroporto, che lì ci arriviamo prima. I bagagli in stiva, che sopra non c’è posto.

Posiamo le valigie nel bagagliaio.

– Anche questa è andata, dai, si torna a casa. – faccio io tanto per dire qualcosa.

–  Mi sono rotto – risponde qualcuno– ‘sta vita non si può fare.

Poi a casa nemmeno ci vado. Vado a Ercolano a vedere gli scavi. È un gioco che faccio tra me e me: provare a fingere una vita normale, così, per vedere l’effetto che fa. Mi prendo l’audioguida che costa dieci euro e giro per la città riesumata dalla cenere. Hanno ricostruito la spiaggia del settantanove dopo Cristo. L’audioguida dice che hanno trovato i resti di trecento persone ammassati sulla spiaggia e nelle rimesse delle barche.

 Scappavano, sotto il fuoco del vulcano.

Cercavano, in mare, una salvezza.

 Immagino il fumo, i lapilli, il materiale piroclastico che si abbatte sulle case, sui porticati delle ville, che sfonda le mura di cinta dei giardini patrizi. Immagino la terra rossa di rabbia che viene fuori come un demone da pietre nere e ardenti.

Dev’essere stato un inferno.

La sera torno al Bed & Breakfast. Per strada mi faccio un kebab, che non ho voglia di ristoranti. L’indomani di mattina presto, colazione: alle sette e venti c’è il treno. Passo davanti al Mc Donald.  Accanto al marciapiede dirimpetto, c’è un bus bianco. Ci sono quattro o cinque persone con gli zaini e le cartellette di plastica che parlano a gruppi di due o tre. Mi ricordo della sigaretta, provo a cercarla con lo sguardo. Non c’è più. Che idea stupida, come si fa a riconoscere un mozzicone buttato a terra due giorni prima? È che ci si attacca a tutto, anche alle idee più assurde. Tipo prendere una barca per sfuggire a un inferno.

C’è una ragazza dalla pelle scura e gli occhi di lava, seduta per terra sopra un cartone. Qualcuno fuma una sigaretta, butta la cicca sull’asfalto.

La terra si mangerà anche quella.

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