Premio Racconti nella Rete 2025 “Quella volta che infiocchettammo una lavagna” di Aida Rita del Missier
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Quel pomeriggio erano usciti i tabelloni con i voti di fine anno scolastico: seconda media conclusa con ottimi risultati per il nostro inseparabile trio, Patrizia, Ugo e Rita.
Decidemmo di festeggiare adeguatamente, lanciandoci in un’impresa da ricordare. L’euforia per l’estate che avevamo davanti ci rendeva effervescenti, audaci. Direi perfino temerari.
Era l’anno delle avventure di Gianburrasca in televisione. Sarà che l’interprete si chiamava Rita come me, sarà che aveva pure le mie stesse lentiggini e statura, ma ero proprio affascinata dalla personalità e dalle imprese di quel ragazzino contestatore che lottava contro le ipocrisie del mondo degli adulti: il mio eroe.
Le aule delle elementari attigue a quelle delle nostre medie ci sembrarono il luogo adatto per esprimere tutta la nostra esuberante creatività. Chissà quale spirito sabotatore anti-sistema pre-sessantottino si impossessò di noi e ci spinse all’impresa? Non mi pare avessimo chiara consapevolezza di alcuna particolare ingiustizia o falsità da combattere o contro cui manifestare. Ma certamente qualcosa di nuovo, per quanto confuso e disordinato, stava prendendo forma dentro di me, ragazzina per bene e apparentemente giudiziosa.
Ugo, piccolo e agile, physique du rôle perfetto, si offrì, da vero gentiluomo, di fare il lavoro sporco: scassinare la finestra. Patrizia ed io entrammo signorilmente, senza sporcarci le mani, dalla porta, aperta dall’interno dal nostro intrepido ariete.
Nell’aula della quinta incollammo puntine da disegno sulle sedie, ammucchiammo cataste di libri sulla cattedra, rovesciammo il cestino della carta spargendo il contenuto su tutto il pavimento. In quarta infiocchettammo graziosamente una lavagna con la carta igienica, oscurammo le finestre con i grembiuli appesi all’attaccapanni di ferro, lanciammo in aria le cartoline delle regioni italiane, in un esaltato crescendo tra l’eccitato e il demenziale, borderline con il vandalico-delinquenziale. Terminammo l’opera attaccando tra di loro con lo scotch trasparente le gambe dei banchi della terza, trasformandoli in una specie di catafalco funebre con tanto di candeline di cera, trovate in un armadio, forse rimaste lì da un compleanno festeggiato in classe. Per fortuna qualche residuo di buonsenso ci consigliò di non accenderle.
Ce ne andammo uscendo trionfalmente dalla porta ormai aperta, soddisfatti del nostro lavoro, pregustando la reazione di maestri e alunni all’entrata in classe la mattina dopo. Le lezioni delle elementari, infatti, sarebbero durate ancora fino a fine giugno.
L’indomani nessun clamore per il nostro gesto apparve sulla cronaca locale. Neanche l’ombra di una notizia sul Gazzettino. Delusa chiesi alla figlia del fotografo, che faceva la terza e abitava vicino a me, se a scuola andasse tutto bene e lei mi rispose in modo insignificante, senza dare alcuna soddisfazione alla mia curiosità.
Due giorni dopo arrivò una telefonata del maestro Francesco, il mio amato insegnante di quinta elementare, ex-alpino, che invece della preghiera la mattina faceva cantare Il testamento del capitano o il Va’, pensiero.
«Sì, maestro, gliela passo» rispose mia madre, «Rita, vuole parlare con te.»
Capii immediatamente di essere nei guai.
«Mi ha chiesto di andare a scuola per mettere a posto i libri della biblioteca», fu la scusa che mi inventai, cercando di evitare lo sguardo perplesso di mia madre.
Il cuore mi batteva a mille e sentivo un gran caldo in faccia. Come un torero che si prepara ad affrontare l’arena, indossai in silenzio il vestito verde pistacchio, con tanto di bolerino en pendant, e le ballerine arancioni che avevo sfoggiato a maggio alla prima comunione di mia cugina.
Percorsi la breve strada che mi separava dalla scuola in una specie di trance, con orribili visioni di ciò che mi sarebbe accaduto. Arrivai davanti alla porta della quinta e bussai.
«Avanti!» mi ordinò la voce profonda del maestro.
Entrai in classe. Camminai con il cuore in tumulto e le guance infuocate, tra due file di banchi scuri e massicci e mi fermai a fianco della cattedra. Il maestro si alzò in piedi.
«Lo sai perché ti ho fatto venire qui, vero?» mi chiese severo.
«Credo per mettere a posto i libri della biblioteca» risposi, aggrappandomi alla scusa inventata per mia mamma e cercando di apparire disinvolta.
«Avete fatto una cosa gravissima. Vergognosa. Da riformatorio.»
«Che cosa? Io non so niente, maestro.»
«I bidelli vi hanno sentito. Hanno riconosciuto le voci.»
Mi sembrava che il cuore mi volesse uscire dal petto.
«Pensavano foste venuti a vedere i voti e non si sono preoccupati. E poi hanno scoperto quel disastro. Cosa hai da dirmi?» il tono del maestro diventava sempre più inquisitorio.
«Ero venuta a vedere i voti. La porta era aperta. Poi sono andata in bagno. Io non ho visto niente.»
«E la finestra? Chi ha forzato la finestra? Tu non sai nulla, vero?»
«Quale finestra? La porta era aperta» insistetti.
Il maestro proseguì l’interrogatorio davanti agli alunni che mi guardavano seri in un silenzio pieno di curiosità e rimprovero. Continuai a negare tutto, anche l’evidenza. Non cedetti ad alcun tentativo di offerta di sconto di pena in cambio di una qualche ammissione di colpa. Non confessai nulla. Non feci i nomi dei miei complici, che, seppi poi, erano stati sottoposti allo stesso mortificante trattamento.
«Lo sai che rischiate una denuncia per atti vandalici? Sai cosa vuol dire?»
Immagini di ragazzini in catene in squallide carceri minorili mi passarono davanti agli occhi: lo sceneggiato di David Copperfield mi aveva fatto scoprire che il mondo dell’infanzia poteva essere tragico e doloroso. Mi sentii svenire, ma non mi arresi. Ormai ero pietrificata nella mia parte di vittima innocente.
«Sì, so cosa vuol dire, ma io non c’entro niente” riuscii a dire con voce sempre più esitante.
«Con te ho finito. Torna a casa adesso. Parlerò con i tuoi» mi congedò brusco il maestro.
Rientrai a casa e mi chiusi subito a chiave in cameretta senza lasciare il tempo a mia madre di chiedermi nulla.
Poco dopo giunse la telefonata del maestro che informava i miei dell’accaduto.
«Apri questa porta! Ti ho detto di aprire! Si può sapere cosa vi è saltato in mente? Dio, che vergogna! Ma uscirai prima o poi! E faremo i conti.»
Mi resi conto che l’assedio sarebbe stato lungo e duro.
«Vedrai cosa ti succede quando arriva tuo padre! E con Patrizia hai chiuso! Lo sapevo io che era una brutta compagnia! Certo, con quella madre tedesca che la lascia sola a fare quello che vuole!» urlava mia madre, mescolando principi pedagogici pre-telefono azzurro e pregiudizi xenofobi.
Restai chiusa nella mia camera un giorno e una notte per sopravvivere alla furia dei miei genitori.
Poi, affamata e anche un po’ pentita, aprii la porta.