Premio Racconti nella Rete 2025 “L’assedio di Vienna” di Corrado Liberi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025La vicenda che mi accingo a narrare avvenne durante l’assedio di Vienna che l’esercito di Solimano il Magnifico, Sultano dell’impero Ottomano, portò a quella città e che durò dal settembre all’ottobre del 1529.
Le guerre di quel tempo venivano condotte con altri mezzi che non quelli attuali, il che non vuol dire che fossero meno cruente.
Gli scontri fra le truppe duravano dall’alba al tramonto ed allo scendere della notte il campo di battaglia veniva popolato da ombre alla ricerca dei feriti e per dare sepoltura ai morti.
Questi assedi potevano durare anche mesi, sino a quando o gli assediati si arrendevano vinti dalla fame e dalle malattie o gli assedianti, sfiduciati per l’inutilità dei tentativi o perché sferzati dalle intemperie, abbandonavano il campo, magari per riprovarci dopo qualche tempo.
Così avvenne nel 1529: i turchi, stremati dalle forti piogge e dalla neve, tolsero l’assedio per ridiscendere la penisola balcanica diretti ad Istanbul.
Quel tipo di guerra aveva un’altra particolarità: le truppe erano sostanzialmente mercenarie e la loro partecipazione veniva pagata con la libertà di saccheggiare, catturare prigionieri, stuprare donne. Alla fine della guerra i vincitori tornavano carichi del saccheggio, di donne e uomini da vendere al mercato degli schiavi. Particolare interesse avevano i prigionieri di nobili ascendenze perché il prezzo del riscatto poteva costituire veramente una fortuna per chi li avesse catturati.
Per onestà verso il lettore devo dire che il racconto che segue ha trovato spunto da un libro che trattava di quell’assedio: il resto della vicenda è frutto della mia fantasia.
Nel 1526 le truppe di Solimano il Magnifico, dopo aver conquistato l’allora Ungheria meridionale, si erano avvicinate alquanto pericolosamente a quelli che erano i confini del Granducato d’Austria, parte orientale del Sacro Romano Impero sotto il regno di Carlo V, affidato al fratello Ferdinando I d’Asburgo Arciduca d’Austria.
Nel 1527 Solimano intraprese una nuova campagna di guerra dirigendosi verso l’Austria. Nel maggio del 1529 i turchi, con una forza di 300.000 uomini, mossero verso Vienna e l’8 settembre conquistarono Buda. A questo punto Vienna era veramente in pericolo non potendo contare sulle armate di Carlo V a sua volta impegnato contro la Francia.
Nonostante fosse ben nota la ferocia degli ottomani e ci si rendesse conto che solo con un miracolo Vienna avrebbe potuto essere salvata, la vita in città non era mutata; come se si volesse esorcizzare il pericolo o per incoscienza, la vita, particolarmente della nobiltà, conosceva feste, balli, ricevimenti. Insomma anche se tutto non era più come prima tutto rimaneva come prima.
I protagonisti della nostra vicenda erano due giovani ventenni di nobilissime casate: lui, Joseph d’Asburgo-Lorena, apparteneva alla famiglia dell’Arciduca Ferdinando I; lei, Sophie von Kunigl, era una discendente dei Grandi dell’Impero. Da tempo i due erano stati destinati al matrimonio, come soleva all’epoca, per rendere più solida la casata degli Asburgo ma, a differenza di tanti matrimoni della nobiltà, il loro sarebbe stato un vero matrimonio d’amore. Compagni di giochi, si erano frequentati sin da piccoli e l’affetto tra loro era nato naturalmente, tant’è che solo dopo aver conosciuto il sentimento tra i due i rispettivi parenti pensarono all’unione.
Vedendoli, si poteva dire che la natura si fosse dilettata, tanto erano belli, estroversi. Tutta la corte ne era attratta e lo stesso Carlo V, incontrandoli, ne era rimasto ammirato promettendo che sarebbe stato presente alle nozze.
La gioventù li portava ad amare la natura, a fare lunghe passeggiate lungo il Danubio e spesso a navigare sul fiume insieme ai loro coetanei. Queste abitudini non vennero meno neppure con l’avvicinarsi delle armate turche dopo la caduta di Buda.
Sembrava non si rendessero conto della gravità del momento; eppure il pericolo doveva essere conosciuto almeno da Joseph che con la sua compagnia di fanti aveva il compito di pattugliare le alture attorno alla città per osservare l’avanzata dei turchi.
Ma si sa: da sempre la forza della gioventù non è confortata dall’esperienza e la voglia di vivere prevale sulla percezione dei pericoli.
Verso la metà di settembre del 1529 le prime pattuglie dei turchi giunsero in vista di Vienna e le porte della città vennero chiuse. Dopo qualche giorno Vienna veniva circondata e sottoposta agli attacchi e la vita dei cittadini cambiò totalmente condizionando anche quella dei giovani, impegnati attivamente nella difesa.
Cominciarono gli assalti alle mura e i tentativi di aprirvi una breccia e le sortite dei difensori per allentare la pressione. Erano lotte corpo a corpo, con una crudeltà, una ferocia impressionante dove non si facevano prigionieri ma si cercava solo di diminuire il numero degli avversari.
Ad autunno avanzato il sole calava presto e il campo di battaglia veniva coperto da una coltre di buio; a quel punto iniziava la misericordiosa opera di soccorrere i feriti e dare sepoltura ai morti. Il triste incarico era lasciato agli inabili alla battaglia sorvegliati da alcune pattuglie.
I nostri due giovani avevano abbandonato le loro abitudini ma il desiderio di incontrarsi era ancora più forte, reso tale dalla incertezza del futuro e dagli impegni di lui che limitavano le possibilità di incontri. Se il solo pensiero di sapersi ancora vivi sollevava l’animo di entrambi, il desiderio di stringersi l’uno l’altro non poteva essere soddisfatto con gli occhi. Volevano ritrovare quella intimità, sia pure per un solo istante, al momento negata.
Una sera, accompagnandosi a quelli che uscivano per recuperare i feriti ed i morti, Sophie e Joseph abbandonarono la città inoltrandosi verso il Danubio. Di loro non si seppe più nulla.
Le famiglie, anche per il disordine che regnava in città a causa dell’assedio, solo con alquanto ritardo si accorsero delle loro assenze. Dopo alcuni giorni ci fu chi ricordò di averli visti uscire dalle mura. Si sperò che si fossero allontanati per sfuggire all’assedio ma questo per Joseph voleva dire diserzione, assolutamente impensabile per il carattere ed il coraggio che aveva mostrato nelle azioni di guerra, per cui si preferì credere che, volendo aiutare il recupero dei feriti, fossero stati catturati dai turchi; non che fosse il minore dei mali, ma almeno si poteva pensarli ancora in vita.
I familiari dei ragazzi liberarono un prigioniero turco con l’incarico di riferire al Gran Visir Pargali Ibrahim Pascià che avrebbero pagato qualsiasi riscatto per la loro liberazione. Il Gran Visir restituì un prigioniero austriaco perché riferisse che quei ragazzi non erano tra i prigionieri.
Così si usava all’epoca.
I parenti dei ragazzi trovarono conforto in quel messaggio, ritenendolo veritiero, perché non era pensabile che il comandante dell’esercito turco potesse mentire, anche perché avrebbe avuto l’opportunità di ottenere una notevole somma per il riscatto.
Quando alla fine di ottobre l’esercito turco tolse l’assedio e riprese la strada del ritorno verso Istanbul, vennero fatte ricerche in tutto il territorio dell’Austria e dell’Ungheria, senza trascurare i più piccoli villaggi. Dei ragazzi nessuna traccia. Si pensò, nell’ipotesi più dolorosa, che fossero stati uccisi ed i loro corpi gettati nel Danubio.
Con il trascorrere del tempo il dolore delle famiglie divenne una pena costante che premeva sui loro cuori.
Le cose, in realtà, erano andate diversamente.
Si erano allontanati di un centinaio di metri dalle mura quando furono catturati da una pattuglia di giannizzeri che immediatamente li condussero nell’accampamento consegnandoli al loro comandante. Questi, considerandoli di sua appartenenza, li trattenne alcuni giorni all’interno delle proprie tende.
La notizia, tuttavia, non poté rimanere segreta a lungo finché giunse alle orecchie del Gran Visir che chiamato quel comandante gli ordinò di consegnarglieli.
Alla loro vista Pargali rimase ammaliato dalla bellezza della ragazza e pensò di farne dono al Sultano in segno di amicizia e di riconoscenza mentre dal ragazzo si poteva trarre un ottimo riscatto. Tuttavia due cose lo impedivano: aveva negato la loro cattura; la restituzione del ragazzo era impossibile perché questi avrebbe riferito che la ragazza era stata trattenuta. Preferì quindi trattenere i due ben custoditi e sulla loro sorte avrebbe deciso giunto ad Istanbul.
Appena giunto ad Istanbul si presentò a Solimano, suo amico di infanzia e cognato avendone sposato la sorella, e, quasi per scusarsi del cattivo esito della spedizione, gli consegnò Sophie. Il Sultano apprezzò molto il dono e la ragazza fu scelta quale preferita del suo harem.
Il ragazzo fu trattenuto da Pargali che lo prese al suo servizio e poi, avendone conosciute l’intelligenza e le capacità, lo nominò primo segretario. Questo incarico, oltre a consentirgli di circolare liberamente per la città, lo portò a conoscere e frequentare importanti personaggi, e cosa che nel seguito gli fu di notevole aiuto, mercanti genovesi e veneziani che avevano in Istanbul il loro centro dei commerci.
A volte, su incarico del Gran Visir, il ragazzo, che aveva assunto il nome arabo “Abn Alsham” (figlio del sole) per la sua bellezza, si recava al palazzo del Sultano e gli era di gran dolore sapere di essere così vicino a Sophie e non poterla vedere, parlarle, sapere come stava, chiederle perdono per averle distrutto la vita nel portarla in quella maledetta passeggiata. E di nessun sollievo era il fatto che lo aveva chiesto proprio lei; lui, conoscendo i pericoli che potevano correre, si sarebbe dovuto opporre. Il pensiero più opprimente, da cui non poteva distogliersi, non era il fatto di averla persa ma che era in condizione di schiavitù sessuale a vita. Ed ogni volta che entrava nel Topkapi lo sguardo andava sempre all’harem sperando di poterla vedere, cosa impossibile, ma che almeno lei potesse riconoscerlo anche se bardato alla turca.
Questa situazione era per Joseph un dolore, una pena che non lo abbandonavano mai e per questo era sempre cupo e pensieroso. Questo suo atteggiamento fu notato dalla moglie di Pargali, Hatice Sultan, che ne chiese il motivo. Pargali, greco di nascita, da bambino rapito e portato in Anatolia dal padre di Solimano, e che ben capiva il dolore di Joseph, narrò ad Hatice l’intera vicenda.
La donna, colpita dall’umanità della vicenda, specie in quanto donna, un giorno prese da parte Joseph e gli chiese di Sophie. Il ragazzo espresse il suo dolore, la colpa per non avere evitato il rischio, le preoccupazioni sulle condizioni fisiche e lo stato di prostrazione in cui doveva trovarsi la ragazza, ridotta in schiavitù, e quale tipo di schiavitù, per tutta la vita.
Hatice fu colpita dal racconto e dal dolore del ragazzo e gli promise di tentare di fargli avere qualche notizia, anche se la vita nell’harem era controllata dalla terribile Roxelana, la moglie ufficiale di Solimano.
Qualcosa riuscì a sapere: Sophie stava bene in salute, aveva un buon rapporto con le altre donne dell’harem. Evitò di riferire delle pratiche sessuali alle quali aveva dovuto sottostare all’ingresso nell’harem e dopo.
Hatice, per cercare di risollevare un poco l’umore del ragazzo, ogni tanto gli dava qualche informazione, in parte frutto della sua fantasia per non creare sospetti.
Un giorno Joseph chiese ad Hatice se fosse stato possibile entrare nell’harem come eunuco. La donna disse che non esisteva alcuna possibilità: primo perché lui non era castrato e l’operazione se era possibile per i bambini per gli adulti voleva dire andare incontro quasi certamente alla morte. Poi la carica di eunuco richiedeva la fiducia assoluta del Sultano, e se si fossero conosciute le intenzioni lui e la ragazza sarebbero stati uccisi. Il ragazzo però insisteva; diceva che conosceva bene Sophie, che anche per lei era meglio la morte che continuare a vivere nell’harem.
Tanto insistette che alla fine Hatice ne parlò con Pargali. Questi rimproverò la moglie per la confidenza data ad uno schiavo, poi le rappresentò le difficoltà ed infine i rischi che loro stessi avrebbero corso se qualcosa non fosse andata nel verso giusto: i due ragazzi sarebbero stati uccisi poi sia lei, nonostante fosse sorella del Sultano, sia lui, che era il suo più vicino consigliere e suo amico di infanzia, avrebbero subito la stessa sorte.
Pargali chiamò Joseph e tentò di dissuaderlo dal proposito. Gli disse che l’azione che voleva compiere era considerata alto tradimento e che lo avrebbe portato al patibolo, perché questo era il sistema per assicurare l’assoluta fedeltà al Sultano; non esistevano pene più o meno gravi e tentare di portare via dall’harem del Sultano una concubina o introdursi nell’harem stesso era un delitto di offesa alla maestà del sovrano.
Di fronte alle insistenze di Joseph, che avrebbe comunque tentato il rapimento, Pargali si trovava dinanzi ad un bivio: uccidere il ragazzo o tentare di aiutarlo. La prima soluzione lo inorridiva, era stato schiavo lui stesso, e i sentimenti di Joseph erano umanamente comprensibili. E poi avrebbe dovuto rendere conto ad Hatice dell’omicidio. Quindi perché non tentare di aiutarlo assumendo tutte le precauzioni per non risultare coinvolto?
Il primo problema era quello della castrazione, perché senza l’impotenza era impensabile tentare. L’operazione doveva essere fatta da un chirurgo esperto, per le notevoli difficoltà e, ancora più importante, trovare una persona estremamente riservata perché la notizia della castrazione di un adulto sarebbe stata comunque sospetta.
Pargali, ricorrendo alle sue amicizie greche, riuscì a trovare un chirurgo che, in un paesino della Grecia operò Joseph. L’intervento, doloroso in misura assolutamente inimmaginabile, lo portò vicino alla morte, ma nessun sacrificio era troppo grande per la liberazione di Sophie. La forte fibra del ragazzo ebbe il sopravvento e dopo circa un mese il ragazzo poté tornare ad Istanbul rimanendo in attesa che si presentasse l’occasione.
Alcuni mesi dopo l’eunuco ufficiale fu colpito da una strana malattia della pelle e venne subito allontanato perché pericoloso per la carnagione delle concubine.
Hatice non si fece sfuggire l’occasione e convinse Pargali, reticente, a proporre la sostituzione con Joseph.
Hatice, da par suo, trovò il modo di esaltare la sensibilità e la fedeltà del giovane con Roxelana, sottolineando che privarsene, sia pure con dispiacere, era per il bene del ragazzo che meritava molto di più di ciò che loro potevano offrire.
Per Pargali il problema non si pose, anzi: il Sultano, su suggerimento di Roxelana, gli chiese di privarsi del giovane. Pargali, mostrando stupore, disse che fare a meno di Joseph gli avrebbe creato qualche problema, per le sue capacità di trattare i rapporti con i rappresentanti delle nazioni amiche e con i mercanti italiani. Comunque sarebbe stato ben lieto di concederlo al servizio del Sultano che se ne sarebbe potuto avvalere anche per gli affari del governo. Migliore presentazione non poteva esserci.
La nomina richiedeva l’accertamento della incapacità di avere rapporti sessuali. Ai medici Joseph disse che la sua castrazione avvenne a causa di un colpo di lancia ricevuto nella difesa di Vienna e che le recenti cicatrici erano relative ad un intervento per eliminare una infezione. I chirurghi attestarono che il ragazzo era idoneo all’incarico.
Per evitare che dall’incontro tra i due ragazzi potessero emergere sospetti sulla loro conoscenza, e portarli alla morte, Hatice si premurò, nel modo più accorto, di preannunciare a Sophie l’arrivo di Joseph in sostituzione del vecchio eunuco. La spiegazione del perché fosse possibile addolorò profondamente la ragazza ma accrebbe in lei l’amore per il sacrificio al quale Joseph si era sottoposto per esserle vicino e vegliare su lei. Non pensò minimamente alle conseguenze della mutilazione, troppa era la gioia di poterlo riavere.
Il ragazzo piacque al Sultano, che pensò di utilizzarlo anche per l’esperienza avuta con Pargali, e a Roxelana che vide nel giovane l’opportunità di una nuova vitalità che avrebbe reso più lieta l’esistenza nell’Harem.
Al primo incontro i due ragazzi si limitarono a guardarsi, lei confondendosi con le altre concubine attratte dalla bellezza di Joseph, lui accettando i gridolini e di essere vezzeggiato da tutte le donne, specie le più giovani.
Occorreva stare molto attenti perché la vita all’interno dell’harem aveva regole ferree, tutto girava attorno alla kahya kaden, la concubina che ne aveva la responsabilità. L’eunuco era invece il responsabile della custodia dell’harem. Di conseguenza tra la kahya kaden e l’eunuco c’era un rapporto di reciproca confidenza ma, al contempo, un conflitto di interessi che li poneva in contrasto.
Per i due ragazzi era difficile potersi parlare, comunque trovarono il modo di incontrarsi fugacemente, a volte lungo i corridoi, evitando di restare soli nelle stanze, poche parole quante ne bastavano per sentirsi vicini; né lei né lui accennarono mai a quanto era successo dopo la separazione.
Nel frattempo Joseph aveva cominciato a svolgere incarichi di fiducia per il Sultano; la sua conoscenza delle diverse lingue europee era fondamentale per trattare gli affari con gli Stati e i mercanti.
Trascorse così oltre un anno.
Un giorno Sophie gli disse che era incinta e che stava per essere trasferita in un’ala del palazzo destinata a chi deve partorire un figlio del Sultano; l’accesso a quel luogo era consentito solo al Sultano e sorvegliato dai giannizzeri.
Joseph capì che con la nascita del figlio del Sultano avrebbe dovuto dire addio a Sophie. Era sua volontà di liberarsi della schiavitù e sposare Sophie ma questo doveva accadere prima della nascita del bambino, quindi entro non più di tre mesi. Ma cosa e come organizzare, chi poteva aiutarlo? A Pargali non era opportuno chiedere: l’aveva aiutato in passato e se era entrato nell’harem lo doveva a lui, ma far evadere una concubina del Sultano era una cosa molto diversa. Forse era bene non fargli conoscere nulla perché poteva darsi che questa volta lo avrebbe ostacolato. Parlarne ad Hatice meno che mai: era stata lei che aveva fatto in modo di introdurlo nell’harem ma la fuga era un atto talmente assurdo, inconcepibile per la società araba. C’erano state delle guerre per molto meno. E poi era la sorella del Sultano e tanto bastava per capire che nessun aiuto poteva venirgliene: non avrebbe mai recato offesa al fratello.
Chi dunque poteva aiutarlo? Ma prima di pensare a come far uscire Sophie dall’harem era indispensabile trovare il modo di scappare da Istanbul. La destinazione doveva essere Vienna, dove avrebbero trovato sicura protezione. Percorrere la penisola balcanica era impensabile, sia per la lunga distanza sia per i pericoli ai quali sarebbero andati incontro attraversando paesi alleati dei turchi. E poi, non avevano soldi per il mangiare: quindi impossibile.
L’unico modo era tentare via mare, ma a chi chiederlo? Chi si sarebbe voluto esporre alle eventuali ritorsioni? Per i mercanti c’era il rischio di vedersi interdetti i mercati della città. Il passaggio su una nave: ma di quale paese? Di chi fidarsi? C’era il rischio di essere traditi, e sarebbe stata la certezza della morte.
A Joseph venne in mente di verificare quali tra i mercanti veneziani e genovesi poteva aiutarlo.
Tra gli incarichi che svolgeva per conto del Sultano c’era quello di esaminare le licenze per le importazioni e le esportazioni. E le sollecitazioni che riceveva per queste concessioni erano tante. Cercò un aggancio tra chi aveva maggiori interessi e quali tra i vascelli genovesi e veneziani erano quelli che con maggiore frequenza attraccavano ad Istanbul. Poiché erano in maggioranza della Serenissima, lì si sarebbero potute presentare le migliori occasioni. Cercò quindi un contatto. Pensò che un accordo poteva anche essere agevolato dalla somma che di certo la sua famiglia e quella di Sophie avrebbero versato per ricompensa.
Approfittando di una richiesta di favori fatta da tal Contarini, rappresentate di uno dei maggiori mercanti veneziani, Joseph gli chiese se poteva concedere un passaggio sino a Venezia per una giovane coppia che voleva rientrare in patria. Il Contarini disse che non ci sarebbero stati problemi e che entro quel mese avrebbe attraccato un vascello proveniente da Venezia per ripartire immediatamente, non appena caricate le mercanzie; per Venezia senza sostare ad Ancona, come soleva fare la gran parte dei vascelli, che all’epoca era alleata di Istanbul.
Se la possibilità di lasciare Istanbul era assicurata restava il problema più difficile: come fare uscire Sophie dalla zona dell’harem, la più sorvegliata, e quando: di giorno, di notte?
Aveva oramai esclusa la possibilità di ricorrere a Pargali e ad Hatice, ed a lui quella parte dell’harem era interdetta, anche se eunuco responsabile dell’harem. Cercare una complicità era impossibile: nessuno avrebbe rischiato la propria vita per liberare una concubina del Sultano.
Si stava convincendo della irrazionalità del progetto quando, assolutamente inaspettata le venne offerta la soluzione.
Occorre ricordare che Roxelana, di origini polacche, era stata prima schiava poi preferita e infine, dopo aver partorito un figlio maschio, moglie del Sultano. Era donna ambiziosa ed infida che era riuscita a catturare prima la benevolenza poi la fiducia di Solimano ed aveva una notevole influenza su lui. Ma Roxelana conosceva il suo uomo e sapeva che un’altra donna, usando bellezza e fascino, poteva scalzarla, specie se, come lei, avesse partorito un figlio maschio che poteva diventare un altro possibile erede al trono, in concorrenza con suo figlio.
Non appena seppe che Sophie era incinta e che era la preferita del Sultano, cominciò a pensare come potersi disfare della ragazza, prendendo tutte le accortezze per evitare che si risalisse a lei.
L’attenzione cadde su Joseph: era viennese come la ragazza, catturato da poco tempo quindi con il desiderio di fuggire dalla schiavitù; se fosse stato catturato chi avrebbe creduto alle sue parole? Se poi entrambi fossero stati catturati sarebbero stati eliminati e così il suo scopo veniva raggiunto senza danni.
Presa questa decisione fece venire Joseph nelle sue stanze, senza che ciò potesse destare sospetti in quanto era normale che si interessasse della conduzione dell’harem. Dopo alcuni convenevoli, tanto per aprire il discorso, gli disse che capiva la pena di Sophie, essendo stata ella stessa una schiava. Comprendeva che la ragazza anelasse la libertà e voleva quindi fare quello che a lei non era riuscito: fuggire dall’harem. Era una sorta di vittoria per sé stessa piuttosto che un atto di generosità; almeno così disse.
Certo, sapeva sia le difficoltà che avrebbero incontrato e che, se rischiavano la vita, la libertà aveva sempre un prezzo. Da parte sua avrebbe fatto tutto il possibile per la riuscita dell’impresa: lei l’avrebbe fatta uscire dal Topkapi, lui avrebbe dovuto pensare a farle lasciare Istanbul.
Joseph riuscì a dissimulare lo stupore e la gioia: era la soluzione, unica e irripetibile e bisognava correre i rischi. Mosse alcuni dubbi: accennò alla responsabilità, ai rischi ma, alla fine, dopo altre assicurazioni sulla riuscita dalla fuga dall’harem si disse disponibile e in attesa di disposizioni. Nel frattempo lui avrebbe cercato la possibilità per lasciare Istanbul.
Appena possibile andò ad incontrare Contarini perché gli facesse sapere, con un certo anticipo, il giorno e l’ora dell’imbarco con assoluta certezza. Il giorno dopo Joseph seppe che un brigantino sarebbe arrivato entro dieci giorni e ripartito il successivo ai primi venti dell’alba. La certezza, però, poteva averla solo al momento dell’arrivo.
Joseph fece in modo di incontrarsi con Roxelana che assicurò che tutto era pronto. Lui avrebbe dovuto attendere la ragazza, prima delle luci dell’alba, all’esterno della porticina sul parco Gulhane. Una barca li avrebbe traghettati dall’altra parte del Corno d’Oro all’attracco dei vascelli. Gli disse di evitare ogni contatto con la ragazza. Quanto a lui, poteva decidere se restare o fuggire; se fosse rimasto nessuno avrebbe saputo della sua partecipazione alla fuga.
Joseph trascorse i giorni che mancavano in una attesa spasmodica e nel terrore che il piano fosse tutto un inganno. Andava ogni giorno al porto, evitando di incontrare il Contarini, limitandosi a vedere se ci fosse traccia della bandiera della Serenissima.
L’idea di fuggire insieme a Sophie era stato il primo pensiero; poi ne erano sopravvenuti altri. Lui era oramai un castrato, che cosa poteva offrire alla ragazza: il suo amore? Sarebbe stato sufficiente? E se lei, giovane, avesse voluto un altro figlio, avere dei rapporti intimi? Sophie si sarebbe potuta stancare di un rapporto imperfetto. E poi, sarebbe stato possibile nascondere la sua mutilazione, e per quanto. Come si sarebbe giustificata la presenza di quel figlio che doveva nascere? Quella disavventura, di cui si sentiva colpevole, poteva distruggere la vita di Sophie; se fosse tornata da sola sarebbe stata trattata come una concubina, una donna perduta, e la sua vita sarebbe divenuta impossibile. Ma poi, chi poteva assicurare che una donna, giovane, sola e bella sarebbe riuscita a tornare a Vienna? Non avrebbe incontrato dei malviventi che l’avrebbero sottoposta a torture quali non aveva ricevuto dai turchi? Contarini poteva garantire l’arrivo a Venezia ma da lì a Vienna? E non era allora necessario che lui l’accompagnasse, per poi lasciarla, alle porte di Vienna e lui scomparire per sempre?
La sua testa era tutto un tramestio di idee: si decideva ora per l’una che abbandonava per un’altra e poi un’altra ancora; tutte erano possibili ma nessuna offriva certezze.
Una mattina camminando lungo il porto Contarini gli andò incontro e gli disse: “il vascello sta entrando in porto e domani mattina, alle prime luci dell’alba riparte per Venezia. Fatti trovare con quelle persone all’attracco un’ora prima dell’alba”.
Joseph entrò in abulia; voleva correre al palazzo ma dovette frenare le sue gambe per non destare sospetti. Voleva incontrare la moglie del Sultano al più presto ma non poteva violare le regole. Era teso come la corda di un arco. Aveva paura che, ora che tutto era a posto qualcosa avrebbe potuto far saltare il piano. Camminava per le stanze dell’harem senza una meta quando sarebbe stato meglio fermarsi e calmarsi. Aveva paura di non incontrare in tempo Roxelana.
Trascorse così la gran parte del giorno; più di una volta dovette sedersi per non cadere, tanto gli girava la testa.
La sera era sopraggiunta ed oramai Joseph si era convinto che la fuga era impossibile, quando, in un fruscio di sete Roxelana passandogli accanto gli sussurrò: “alle tre di questa notte all’esterno della porticina del parco Gulhane e poi sulla riva vicino al ponte Galata” e scomparve.
Travolto dalla gioia uscì dal palazzo prima della chiusura delle porte, e cominciò la lunga attesa rannicchiato tra i cespugli sotto le mura a ridosso della porticina.
Calmatosi un poco, si chiese: come faceva Roxelana a sapere che era arrivato il vascello e l’ora dell’imbarco? Non ne aveva parlato con nessuno, o meglio solo con il Contarini. Qualcuno poteva averlo seguito. Ma Roxelana non poteva uscire dal palazzo quindi almeno un’altra persona era a conoscenza del piano. Di certo Contarini aveva dato la notizia dell’arrivo del vascello e della partenza anche ad altri. E allora? E quest’altra persona non poteva avere informato anche il Sultano? In tal caso Sophie e lui erano perduti. Ma forse il piano di Roxelana era solo quello di eliminare Sophie mettendone a parte il Sultano?
Si sentiva perso; per la seconda volta, metteva a rischio la vita di Sophie. Come aveva potuto credere a tanto? Aveva dimenticato la perfidia della moglie del Sultano: come poteva Roxelana, che aveva costretto Solimano a strangolare il figlio avuto da un’altra concubina per nominare il proprio figlio erede al trono, nutrire una qualche pietà per una concubina? Avrebbe potuto farla uccidere e far sparire il corpo. Ma allora perché coinvolgerlo nel piano?
Accucciato in un cespuglio trascorse circa sette ore fissando quella porticina. Sentiva le voci ed i passi delle sentinelle all’interno delle mura e si chiedeva come Sophie avrebbe potuto aprire la porticina senza essere vista dalle guardie. Oramai vagava in una irrazionalità senza fine: stava anche pensando di consegnarsi alle guardie rendendo vana la fuga così salvando la vita di Sophie sacrificando la propria.
Mentre era preda di tanti pensieri, la porticina si aprì appena un poco ed una esile ombra ne uscì mentre la porta si richiudeva alle sue spalle.
Balzò fuori dal nascondiglio, cinse per le spalle quell’ombra e quasi trascinandola la portò alla riva del Corno d’Oro. Senza mai parlarle la condusse verso una barca dove un uomo era in attesa.
L’ombra era protetta da un velo nero che le copriva tutto il corpo. Nell’attraversamento del mare non si scambiarono una parola né si guardarono mai.
Giunti all’altra riva c’era ad attenderli Contarini che li guidò al brigantino consegnandoli al capitano. Furono immediatamente condotti nell’alloggio del comandante.
Tutto era andato alla perfezione ma Joseph ancora si chiedeva se non fosse tutto un tranello e la persona che lui aveva condotto alla nave non fosse Sophie. Si sedettero e, con apprensione, Joseph scostò il velo che copriva il volto dell’ombra che non fu più tale: nella luce fioca di una lanterna gli apparve il bellissimo volto di Sophie e tutte le ansie scomparvero nell’abbraccio.
Oramai i dubbi che lo avevano prostrato scomparvero e rassicurò Sophie. Cominciarono allora, quasi in un sussurro, a raccontarsi le vicende occorse loro; lei non gli chiese della castrazione, lui della gravidanza.
Alle prime luci dell’alba il vascello lasciò gli ormeggi e dopo un paio di ore avevano superato lo stretto dei Dardanelli e sopraffatti dalla tensione, oramai liberi, si addormentarono abbracciati.
Dopo alcuni giorni di navigazione giunsero a Venezia e, dismessi i panni orientali, vennero accompagnati dall’Ambasciatore d’Austria che, dopo averli accolti con affetto, provvide che quanto prima rientrassero a Vienna, anche per evitare che l’Ambasciatore del Sultano venisse a conoscenza della vicenda, cosa che avrebbe potuto creare non poco danno al commercio della Serenissima.
L’accoglienza delle famiglie e degli amici fu quanto di più gioioso si può immaginare e, per dare riconoscimento ufficiale alla gravidanza, vennero celebrate le nozze.
Nessuno seppe mai tutto delle disavventure occorse e il figlio, considerato dove era stato concepito, scherzando veniva chiamato “il sultano”.
Diversi anni dopo giunse la notizia che Pargali Ibrahim Pascià era stato giustiziato perché si era attribuito un titolo che comprendeva la parola Sultano. Secondo altre fonti, invece, Solimano aveva appreso che Pargali, approfittando della sua carica e dell’affetto del Sultano, aveva commesso un gravissimo atto di lesa maestà.
Sophie e Joseph capirono.