Premio Racconti nella Rete 2025 “Entrata chiusa” di Claudio Righenzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Ci sono solo due modi per vivere la tua vita. Uno è come se niente è un miracolo. L’altro è come se tutto è un miracolo.
(Albert Einstein)
«E lei cosa ci fa qui?»
Non l’ha visto arrivare, perché ha gli occhi chiusi e la mente perduta in un altrove, seduto sotto la pensilina alla fermata degli autobus. Una nebbiolina leggera che sale dal terreno avvolge quel luogo in un velo malinconico. Guarda e non lo riconosce, ma quella voce risveglia in lui sensazioni lontane che stenta a concretizzare.
Lo sconosciuto è piccolino, secco come un albero in inverno e le rughe sul viso color del deserto gli conferiscono un aspetto triste. Solo gli occhi di carbone guizzano vividi e trasmettono la voglia di comunicare.
«Signor Caleb, non si ricorda di me?»
Sentir pronunciare il suo nome gli fa strizzare gli occhi per mettere a fuoco quel viso.
«Sì, mi pare…lavorava da noi, giusto?»
«Esatto, sono io, Amir, rammenta? Lavoravo in archivio, nella sua banca, qualche anno fa. A quel tempo lei era già direttore, molto in carriera e ogni tanto scendeva giù da noi, al meno uno, a cercare un dossier che le serviva. Era diverso dagli altri, lei, era gentile e si interessava a noi e al nostro lavoro. Per lei non eravamo diversi.»
Certo che no, stava per rispondere, visto che non ha mai considerato i palestinesi con l’atteggiamento di superiorità che riscontrava in molti suoi colleghi, ma l’altro non gli ha lasciato il tempo di replicare e ha proseguito: «Non mi aspettavo di trovarla qui, a quest’ora. Sta aspettando anche lei il suo, vero? Non si sa mai a che ora passano questi benedetti autobus. Quando alla fine ne vedi arrivare uno, ti accorgi che non è il tuo numero. È da tanto che aspetta?»
«Non lo so,» riflette a voce alta, «credo di essermi appisolato. Non so nemmeno da quanto tempo sono qui.»
«Io sono arrivato da poco e lei era già qui.» Amir si è seduto di fianco e lo osserva come attraverso una lente d’ingrandimento. La mente di Caleb ricomincia a collegare le sinapsi e il film si riavvolge. Lo vede scorrere nitido davanti ai suoi occhi.
Però il finale non gli piace.
L’incalzare di Amir sposta la sua attenzione su un tema che non vorrebbe affrontare. Non adesso, non in questo luogo. «State facendo un carneficina, laggiù. Non riuscite proprio a trovare una soluzione pacifica, vero?» L’arabo spara dritto al cuore, come un cecchino provetto.
«Non è solo colpa nostra,» l’appartenenza e la testimonianza armano la risposta di Caleb, «avete iniziato voi. La strage del 7 ottobre non poteva restare impunita.»
«Ma le donne e i bambini? I vecchi, che colpe hanno?»
«Per l’operazione Alluvione Al-Aqsa, come la chiamate voi, sono morti 1200 israeliani, militari e civili: gente che lavorava nei kibbutz o si divertiva, come quei ragazzi del rave party, oppure svolgeva il proprio compito di soldato, a protezione del territorio.»
«Peccato che quel territorio sarebbe nostro e voi lo occupate illegalmente.»
Vorrebbe replicare che la storia non è così semplice da raccontare, ma Amir non sta zitto: «E distruggere Gaza e tutti i suoi abitanti fa parte di quel concetto di protezione del territorio?»
«Gaza non è altro che un grande campo di addestramento per i fanatici di Hamas: non si poteva continuare a far finta di non vedere.»
A Caleb fa un po’ effetto trovarsi a difendere la posizione del governo. Dal primo momento, non ne è mai stato pienamente convinto: troppi lati oscuri non lo convincono, ma, di fronte alla provocazione di Amir, si sente in dovere di difendere la sua gente.
«Comunque potremmo stare qui a discuterne per ore e non ci troveremmo mai d’accordo.» La lucida razionalità del palestinese lo spiazza.
«Hai ragione Amir, purtroppo è così… da troppi anni.»
«Sì, signor Caleb, da troppi e la favola dei due popoli, delle due nazioni? Quante volte ne abbiamo sentito parlare e siamo sempre al punto di partenza. Non saremo certo noi due, con i nostri discorsi a trovare una soluzione. Adesso poi…»
Replica che a lui piace confrontarsi con quelli come lui, che ha molti amici arabo-israeliani e anche palestinesi e si è sempre trovato bene con tutti. Non ha mai avuto problemi, convinto che la convivenza fosse possibile fin da quando era uno studente e, al liceo, si impegnava nel movimento. Fare politica a quei tempi non era facile, quando la guerra dei sei giorni aveva cambiato la geografia del territorio e la politica era entrata nella scuola e nelle discussioni, dopo il dramma della guerra con gli arabi. Era uno dei più attivi, nelle assemblee e gli piaceva fare politica: aveva carisma e i compagni intravedevano in lui un futuro leader del partito.
Fino al giorno in cui si era innamorato.
La nebbia, diventata più densa, impedisce di scorgere cosa c’è intorno e il tetto della pensilina sembra volare su un mare lattiginoso. Il volto di Amir si avvicina per guardare Caleb negli occhi e, muto, lo invita a continuare il racconto.
Esther era la ragazza più bella del quartiere, di una bellezza austera, che lo intimidiva. Era troppo bella, troppo elegante per lui e Caleb si limitava ad osservarla da lontano, incapace di trovare il coraggio di fermarla. Fu lei a fare il primo passo, un sabato pomeriggio all’uscita dalla funzione, sui gradini della sinagoga. Era appena rientrato da due anni di servizio militare e, persi di vista i vecchi amici, era ancora spaesato: la vita del quartiere era continuata senza di lui e faticava a ritrovare i contatti. Se ne stava in disparte, vicino all’uscita, quando gli si avvicinò con un sorriso radioso, per presentarsi. La stretta della sua mano trasmise una sensazione di benessere che non aveva mai provato. Dopo qualche giorno, durante una passeggiata al parco, si diedero il primo bacio.
Per un paio d’anni vissero un amore senza limiti e lei era tutto il suo mondo.
L’incanto finì quando Esther partì con la sua famiglia per assistere alle gare delle Olimpiadi di Monaco. Ciò che accadde durante quei tragici giorni cambiò la loro vita. Esther non era nei pressi della palazzina dell’attacco dei terroristi, ma in un hotel lontano e non fu coinvolta nella strage, però tutti i cittadini israeliani furono fatti evacuare in fretta, per evitare altri rischi. Quei fatti drammatici la turbarono a tal punto che, al rientro, si chiuse in un silenzio drammatico. Disse che il suo cuore si era spento e non volle più continuare la loro relazione.
«E non l’ha mai più rivista?»
Il rumore di un autobus che si allontana copre la risposta di Caleb che si agita, saltando in piedi d’istinto.
«Ero perso nel racconto, Amir e non ho visto che numero fosse: è sbucato dalla nebbia all’improvviso ed è ripartito subito.»
«Non era il nostro, tranquillo, noi dobbiamo aspettare ancora. Intanto continui a raccontarmi la sua vita, signor Caleb, mi piace ascoltarla.»
«Ho rincontrato Esther per caso, qualche anno dopo, mentre usciva da casa dei suoi genitori, non lontano da dove abitavo. Ci sedemmo al tavolino di un bar e iniziammo a chiacchierare. Mi raccontò che aveva sposato il giovane erede di una delle famiglie più ricche della città e aveva una bambina di pochi mesi, che aveva chiamata Sarah. Ricordo che pensai con tenerezza a quanto mi sarebbe piaciuto avere una figlia con quel nome. Disse di essere felice del suo matrimonio e della sua vita, ma gli occhi esprimevano il contrario. Non ebbi il coraggio di dirle che la pensavo ancora ogni giorno: allora il concetto di famiglia era sacro e chi ero io per poterla distruggere?»
«E lei, si è fatto una famiglia poi?»
Dalla bcca di Amir esce il fumo della condensa nell’aria fredda scesa con le ombre della sera. Nessun autobus si è più palesato e l’attesa dei due uomini sembra sospesa in una stasi senza tempo.
«No, non mi sono fatto nessuna famiglia, io, ho sposato il mio lavoro.» Gli occhi tristi non esprimono ciò che le parole dicono. «Ho avuto molto successo, ho scalato la gerarchia e sono stato un uomo potente.»
«E ricco…» conclude Amir, con un sorriso sarcastico.
«Sì, forse. Finché mi sono accorto di aver corso tutta la vita per raggiungere…che cosa, poi? Non lo so nemmeno io.» Le rughe sulla fronte sono ancora più profonde.
«E quando ha smesso di correre, signor Caleb?»
«Quella mattina, proprio davanti all’entrata della mia banca. Ho sentito un boato e mi sono sentito sollevare. L’aria era piena di fumo e di urla. Mi guardavo intorno e non capivo. Poi mi sono visto a terra, accanto a una donna piena di sangue e non capivo. Quando è scesa la nebbia, non so come, mi sono trovato seduto qui. E tu, Amir? Come ci sei arrivato?»
«Io ero quella bomba, signor Caleb. Non potevo più restare a guardare, dovevo fare qualcosa.»
Il viso di Amir si riempie di lacrime.
«Ma forse il mio autobus non arriverà mai e l’entrata, per me, resterà chiusa.»
Si capisce abbastanza presto cosa si nascondesse tra le righe, ma non è un difetto, anzi: rende la vicenda ancora più struggente. Grazie!
Bellissimo racconto, complimenti!
Forse è l’attesa alla fermata del bus immersa nella nebbia che fa subito pensare all’al di là, anche se il dialogo che segue cattura e crea una situazione di relativa naturalezza in cui il finale arriva con una sua carica di sorpresa. Bel racconto, che filtra il tragico dell’attualità attraverso un’atmosfera che mescola un certo senso di attesa con la normalità di due persone che s’incontrano dopo molto tempo. Per come piacciono a me i racconti, apprezzo in modo particolare la sobrietà di questa opera, senza retorica e ricca di umanità. Bello, complimenti!