Premio Racconti nella Rete 2025 “L’appello” di Cinzia Micci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Qualcuno, finalmente, rispose.
Aveva trentacinque anni, Ada, ed era ombrosa come la penombra della casa materna, dalle tapparelle perennemente abbassate, dove era stata allevata, in perfetta e compiuta solitudine, da una madre depressa.
Papà era morto d’infarto quando Ada aveva appena quindici mesi, lasciando la moglie vedova a soli trent’anni, con una figlia piccola da allevare.
E lei l’aveva allevata.
Le aveva dato cibo da mangiare, vesti da indossare, quando aveva compiuto i sei anni l’aveva iscritta a scuola. Il suo compito finiva lì. Ada non significava molto per Luigia, che si era spenta con la morte del marito. Segretamente, anzi, la odiava, perché le aveva impedito di lasciarsi andare alla morte come avrebbe desiderato fare per ricongiungersi all’amato Massimo, luce dei suoi occhi, l’unico essere che avesse dato un senso a una vita peraltro vuota di accadimenti.
Ada esisteva, tuttavia, e bisognava accudirla. Luigia aveva stretto i denti e aveva conservato il suo impiego al Comune, per portare a casa uno stipendio che le consentisse di non far mancare alla figlia i mezzi di cui aveva bisogno per diventare adulta. Lavorava, Luigia, sei ore al giorno più gli straordinari.
Non fece mancare nulla alla bambina sul piano materiale. Le forniva ogni bene necessario al suo sostentamento, tranne l’amore. Quello se n’era andato insieme a Massimo. Dell’amore si erano fatti carico i nonni paterni. Ada li adorava ed era felice di vivere con loro, in una vecchia casa inondata di luce e accesa di colore. Nonna Maria, con il suo affetto soffocante, le faceva dimenticare la gelida indifferenza materna. Nonno Aldo la portava alle giostre e a mangiare il gelato. Rideva con lei come un ragazzino e la guardava con occhi innamorati. L’unica riserva di amore su cui poter contare le fu offerta da quei due vecchi signori le cui età, sommate insieme, superavano abbondantemente un secolo e mezzo.
Poi accadde qualcosa.
Poi morì nonno Aldo. Un infarto se l’era portato via nel sonno, com’era accaduto a papà.
Nonna Maria si strinse ancora più saldamente alla piccola, cercando, da sola, di compensarla dell’affetto che le era venuto a mancare, ma nonna Maria era vecchia. Quando Ada aveva undici anni, se ne andò a sua volta, fulminata da un ictus.
Non restava che tornare dalla mamma, sgomenta al solo pensiero di dover interagire con quella figlia che aveva sempre tenuto a distanza. Le pesava dover condividere l’appartamento, nel tempo divenuto un sacrario di dolore, con la piccola estranea cui guardava come a una minaccia alla propria serenità.
Quando Ada rimise piede nell’appartamento della madre, fu immediatamente edotta sulle regole della casa. Non bisognava trasgredire a esse per nessun motivo, la punizione sarebbe stata terribile.
Regola uno: mai parlare. Mamma non doveva essere distratta dal proprio dolore.
Regola due: mai sollevare le tapparelle. Mamma doveva vivere in un ambiente che assomigliasse alla tomba del padre prematuramente scomparso.
Regola tre: mai invitare compagni di classe a casa. Avrebbero dissacrato il Tempio della Memoria.
Regola numero quattro: mai ridere. Ridere era assolutamente vietato. La casa era un luogo di dolore e al dolore andava consacrata.
Se Ada avesse rispettato le regole della casa, mamma non si sarebbe adirata con lei e non l’avrebbe collocata in collegio. Ada si chiese molte volte, nel corso della propria esistenza, se non sarebbe stato meglio finire in collegio, piuttosto che vivere in una tomba con una madre che non faceva alcuno sforzo per ricordarsi di essere viva.
Trascorse i successivi nove anni in punta di piedi, nell’assoluta solitudine in cui era stata relegata, e la solitudine si propagò nel suo animo come un virus.
Da bambina solare qual era, fintanto che era vissuta con i nonni, divenne taciturna e ombrosa, praticamente invisibile. Luigia non le rivolgeva mai la parola, mai la guardava negli occhi, mai osava riservarle un cenno, sia pure occasionale, di affetto.
A diciannove anni, preso il diploma, Ada decise che era tempo di vivere da sola. Sacrificò gli studi universitari pur di trovare un lavoro che le consentisse di uscire dalla casa che era stata per lei il luogo di una lunga espiazione priva di colpa.
Trovò lavoro come segretaria di uno studio medico e riuscì a ricavarne una paga sufficiente ad affittare un monolocale. Quando raccolse le sue cose per separarsi dalla madre, lei non si mostrò dispiaciuta, anzi, forse per la prima volta, le rivolse un sorriso di compiacimento. Ada non la rivide mai più, dopo aver traslocato, né ne avvertì la mancanza.
Ormai il danno era fatto. Il virus della solitudine le era stato inoculato e aveva espresso compiutamente i suoi effetti letali. Ada non era brutta. Non era bella. Il volto ovale, contrassegnato da piccoli occhi castani e da un naso leggermente aquilino, non lasciava nella memoria altrui tracce indelebili, ma, più che in relazione all’aspetto, Ada divenne trasparente agli occhi del prossimo a causa del carattere ombroso. Non aveva amici, non un rapporto affettivo che le consentisse di esprimere la carica emozionale rimasta sopita in lei per anni.
Svolgeva diligentemente, per otto ore al giorno, le mansioni da segretaria, per poi tornare in una casa vuota, senza riuscire a trovare soddisfazione all’inquietudine che le cresceva dentro, giorno dopo giorno, per l’assenza di un appagamento affettivo. Nessuno la coinvolgeva nei propri progetti. Nessuno le offriva un passaggio per tornare a casa. Nessuno si era interessato a lei al punto da chiederle il numero di telefono.
L’unico lenitivo alla solitudine era quello di trascorrere le serate, dopo il lavoro, a guardare il cielo, alla ricerca di una meteora cui affidare i desideri inappagati.
Lo guardò così a lungo, il cielo, da cominciare a interessarsi alle sue costellazioni. Comprò un manuale di astronomia e imparò tutti i nomi e le posizioni degli agglomerati di stelle che poteva osservare nel corso dell’anno.
Si appassionò così tanto che decise di trascorrere le vacanze in un’isola, per poter scrutare la volta celeste senza il disturbo delle fonti luminose che in città ostacolano una visione nitida del cielo notturno.
Nel corso delle vacanze vide la prima stella cadente della sua vita, una scia luminosa che percorse, nitida e opalescente, la volta notturna per lunghi istanti di incontenibile felicità. Ne fu così turbata da esprimere con intensità inaudita il desiderio che l’aveva accompagnata per un’intera esistenza. “Gli umani sono cattivi ed egoisti. Vi aspetto da tanto. Venitemi a prendere!”
La forza del suo appello era tale da non passare inosservata alla genia di Oje, pianeta della costellazione di Andromeda. Era in corso una missione esplorativa nello spazio cosmico alla ricerca di ecosistemi da studiare in vista di un’eventuale colonizzazione.
Gli Ojeani comunicavano in forma telepatica e non avevano mai preso in seria considerazione la Terra: troppo rumorosi e cialtroni i suoi abitanti per essere giudicati degni di un’esplorazione approfondita.
L’intensità mentale con cui Ada aveva rivolto il suo appello al cosmo, tuttavia, era tale da indurre i membri della missione esplorativa a rivedere le precedenti considerazioni sui Terrestri. Se l’appello di un solo individuo era potuto giungere così nitidamente al loro sistema neurale, era probabile che avessero sottovalutato il potenziale degli esseri umani. In men che non si dica, la navetta esplorativa sbarcò sul pianeta per compiere analisi aggiuntive i cui esiti andassero a implementare i dati già in possesso
Con le dovute cautele, prelevarono alcuni esemplari da analizzare, dopo averli selezionati in habitat differenti, tuttavia le analisi confermarono i deludenti risultati già ottenuti nel primo campionamento.
La specie umana denotava un basso livello di attività mentale e un uso infimo delle risorse disponibili.
Si optò per un ultimo prelievo e il successivo abbandono del campo d’indagine. L’esemplare umano che aveva irradiato il segnale mentale era degno di un’osservazione scientifica approfondita, data la peculiarità che lo contraddistingueva rispetto agli altri esemplari della specie.
Ada fu prelevata dalla spiaggia ove era solita camminare nel corso delle sue passeggiate serali e divenne oggetto di un’attenzione speciale nei laboratori di analisi di Oje, dove fu trasferita a una velocità di gran lunga superiore a quella della luce.
Quando si ridestò dal sonno artificiale cui era stata indotta, si ritrovò a levitare in una sorta di bozzolo di luce accecante ove le era impossibile esperire altre sollecitazioni sensoriali che non quelle legate alla vista e alla percezione del proprio corpo fluttuante per l’assenza di gravità. Nuda, le erano stati asportati i capelli, le sopracciglia e le ciglia, nonché ogni altro elemento pilifero, galleggiava in una sorta di limbo luminoso vuoto di riferimenti spaziali, ove era impossibile calcolare lo scorrere del tempo. Dopo ripetuti e affannosi tentativi di trovare una via d’uscita da quello stato inerziale, si rassegnò.
Ogni tanto avvertiva un black out mentale e perdeva i sensi, per poi riacquistarli, dopo quello che le era parso un lungo sonno privo di sogni, e ritrovarsi a galleggiare nel medesimo bozzolo di luce in cui era immersa da un tempo indefinito.
“Prima o poi ne uscirò!” si disse, ma stava perdendo la speranza. Da troppo tempo si dimenava nel disperato tentativo di attrarre l’attenzione di qualcuno che la liberasse, finalmente, dal suo stato di prigionia, ma nessuno si fece vedere. Ogni tanto avvertiva nella propria testa come delle risonanze, debolissimi echi sonori che le sembrava fornissero istruzioni su quello che avrebbe dovuto fare, ma per lo più non riusciva a comprenderne il significato.
Si aggrappava ai ricordi della vita precedente come all’unica fonte di conforto in una condizione per altri versi insopportabile, ma quando essi cominciarono ad affievolirsi, a farsi sfocati e poi a svanire, fu colta da una cieca disperazione, così devastante che ebbe l’effetto di mettere fine alla sua sventurata esistenza.
Con la morte della cavia, la ricerca sulle ipotesi di evoluzione delle potenzialità mentali della specie umana s’interruppe con esiti contraddittori. Il campione aveva rivelato delle risorse allo stato larvale, destinate però a rimanere latenti in relazione alla forte carica emozionale che contraddistingueva i Terrestri e interferiva con lo sviluppo pieno del loro potenziale mentale.
Il corpo di Ada fu conservato nel museo scientifico dei reperti animali prelevati dai pianeti di numerose Galassie. L’espressione del volto congelata per sempre in una smorfia di tristezza.
Ecco un racconto che parte in un modo e finisce in un altro, nel centro un twist, un coup de theatre che sbilancia il lettore proiettandolo da una dimensione in un certo senso claustrofobica a una interstellare. Vertiginoso, vertiginoso e interessante, perché apre una prospettiva nuova: chi sa che un umano, almeno uno, non sia all’altezza delle aspettative. Gli alieni sono destinati a restare delusi e secondo me vince l’umanità perché Ada, questa donna ridotta dalla convivenza con la madre a un fantasma solitario, per sopravvivere fa qualcosa di molto umano: ricorda, finché ha ricordi da ricordare e quando questi svaniscono si lascia morire: i ricordi sono vita, testimoni del nostro passaggio, senza non siamo nulla, questo gli Ojeani non sembrano capirlo impegnati a cercare qualcosa che l’umanità, grazie alla sua carica emozionale, non sembra possedere. Forse per fortuna? Bel racconto, suggestivo.
Gentile Cinzia, ho letto il tuo racconto tutto d’un fiato con la speranza che Ada ritrovasse la felicità tra gli Ojeani! Un racconto coinvolgente, complimenti!
Ringrazio Ugo Mauthe per le apprezzabili note in margine alla lettura del racconto. Grazie.
Ringrazio Clelia Tonini per la sensibilità con cui si è lasciata catturare dalla storia. Grazie