Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2025 “Il primo giorno” di Ugo Mauthe

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Quando riaprii gli occhi non avevo la sensazione di aver dormito molto, però mi sentivo  riposato come non mi capitava da parecchio tempo. La sera prima, invece, ero a dir poco sfinito.  È vero, questo incipit ha un sapore vagamente, molto vagamente, kafkiano, ma non ci sono metamorfosi in vista. O forse sì? Dipende dai punti di vista. Ero in un ambiente accogliente e familiare anche se, in realtà, non riuscivo a riconoscerlo. O meglio: mi sembrava di riconoscerlo, ma le mie sensazioni si fermavano lì.

Non era grande: una stanza come se ne abitano tante, con quelle misure che rendono un luogo più ospitale di altri, il rapporto fra altezza, lunghezza e larghezza era pura armonia e appagava il più esigente senso delle proporzioni. La finestra si apriva nella parete con una grazia senza parole. Io ero sdraiato sul letto, in una di quelle posizioni che il corpo scopre da solo e in cui ti ritrovi, di solito, soltanto al mattino, una di quelle posizioni che quando vuoi addormentarti non sei mai capace di ripetere. Ero molto comodo, perciò non ancora interessato a scoprire la vista dalla finestra: mi godevo il momento, la posizione, che poi era solo un abbracciare il cuscino ma un abbracciare diverso dal normale abbracciare: doveva essere per via della forma presa dal cuscino durante la notte, oppure a causa della confortevole cedevolezza del pigiama fra il gomito e le spalle, insomma non mi sarei mai mosso di lì, come se avessi un alveo a mia forma e somiglianza in uno spesso strato di gommapiuma. 

La sera prima mi ero addormentato di colpo. Non ricordavo d’aver letto le solite tre o quattro pagine. O forse sì? In effetti con la coda dell’occhio vedevo dei libri impilati accanto al letto, c’era scritto qualcosa sui dorsi ma sarà stato per l’angolazione o per la luce che li colpiva non riuscivo a leggere. Mi ripromisi di dargli un’occhiata quando mi fossi svegliato del tutto. 

Nel dormiveglia programmai la giornata come facevo da tutta una vita, la mia. Era un rito essenziale ed esistenziale ma, capiamoci, l’importante non era tanto rispettare il programma quanto farlo e sapere di averlo davanti dal primo istante del mattino fino all’ultimo del tramonto, come un gobbo. Il programma era un sentiero che metteva in fila le cose da fare come fossero i vagoni di un treno agganciati nella più efficiente delle sequenze. Poi saltavo giù dal treno, cioè dal letto, e quasi subito succedeva che il programma saltasse anche lui, ma dal lato opposto. Però era importante che dopo ogni risveglio il programma ci fosse comunque, perché solo questo dava ufficialmente il via alla giornata. Per cui, programmai. 

Mi piaceva disegnare mentalmente l’itinerario dei prossimi movimenti: mi figuravo in prospettiva i percorsi letto-cucina-pastiglie-colazione-ginnastica-bagno-armadio-abiti-rifacimentoletto-sceltaabiti-indossoabiti-tè-computer-posta-sequenzalavori… non che arrivassi fino all’ultimo minuto del tramonto però ci mancava poco. Paranoico? Ma no, semmai in  cerca di sicurezze, tipico delle moderne solitudini che non possono nemmeno nutrirsi di vita maledetta o poetico spleen ma solo di pasti precotti, serie tv on demand e imprevedibili orari di lavoro non proprio schiavizzanti ma quasi. Il percorso geodomestico, con la concretezza delle sue scadenze immediate e ravvicinate, era la parte del programma che rispettavo senza difficoltà, ma se qualcosa interveniva a interrompere la sequenza, anche un semplice pensiero, ecco che il magico flusso s’interrompeva: quella pausa era come il dove non si tocca per uno che non sa nuotare: annaspamento, panico istantaneo e schizzi. Dovevo muovermi dove si toccava. 

Capito no come vivo? Vivo così, dove si tocca. Sento che l’icasticità di questa espressione vi piace e in effetti devo ammettere che non è niente male. Niente male. Sì, niente male.

Finito di programmare dovevo mettere in pratica, il meta programma di quasi tutti i miei giorni. Quindi misi i piedi fuori dal letto, come dicono gli anziani dove vivo io, e toccai il pavimento. Sorpresa!

Era tiepido e morbido. Una moquette. O un tappeto. Non ricordavo d’averlo in casa mia, né di averlo mai avuto in precedenza. La soffice consistenza del tutto inaspettata del pavimento ricordava l’erba e io, dopo averne scoperto l’esistenza, mi godevo quel pavimento che non era un tappeto d’erba, non era un nemmeno tappeto e non era neanche d’erba, era di pavimento, la materia prima di cui sono fatti tutti i pavimenti dell’universo: non so dirvi di quale materiale fosse fatto, potete provare a scoprirlo da voi e sono certo che prima o poi ci riuscirete. Io ci sto ancora provando ma senza quell’impegno che potrebbe garantire il successo dell’impresa.

Non ci mettevo impegno perché non me fregava niente del materiale, m’importava della sensazione che, vi assicuro, era stupenda.

Il passo dopo doveva essere per forza muovere i primi passi sul pavimento magico. Li mossi. Leggerezza incredibile, quasi lunare, non avevo mai percepito così tanto di avere le piante dei piedi, mi ero limitato ai piedi, anche perché la pianta non è un gran che – non che il resto sia chi sa cosa, però, a volte, un piedino curato, ben scartavetrato e ben smaltato, calzato nella scarpetta giusta, con sopra la snellezza di un’appropriata caviglia femminile, ha un suo perché, però è raro che sia così e il sotto del piede è una di quelle cose che uno si metterebbe sotto i piedi con piacere per levarsele dai piedi una volta per tutte. 

Ma quella volta era diverso. La pianta del piede era rigogliosa di sensazioni piacevoli che da lei s’irradiavano in linguiformi prolungamenti come sa fare solo una cioccolata calda in dicembre. Per questo ero tentato di rimettermi a letto e rifare tutto il percorso: sarebbe stata la prima deviazione dal programma della giornata, ma ne sarebbe valsa la pena per riavere quella speciale cioccolata calda che risaliva dalla pianta dei piedi fino alle sinapsi più periferiche e solitarie della mia testa, desolati capolinea del pensiero.  Anche la periferia conosce l’estasi, magari è solo una semplice festa di quartiere ma l’intento è lo stesso: il piacere.

Invece, stranamente, rispettai il programma e andai direttamente verso la cucina. Non ero mai stato in quella casa eppure sapevo dove fosse la cucina. Il pavimento mantenne la sua paradisiaca promessa per tutto il percorso ma a metà corridoio incontrai una finestra che illuminava tutta la casa, proprio tutta, anche se era larga come una normalissima finestra e si apriva nel muro di un corridoio. Anche quella luce era diversa dall’idea di luce che avevo sempre avuto dentro di me. Per esempio: il giorno prima era stato un bel giorno d’inizio estate, l’ora legale l’aveva allungato fino alle dieci di sera per cui la luce era restata sospesa a mezz’aria in un lunghissimo tramonto colorato. L’avevo guardato dal balcone quel tramonto, fino al suo ultimo istante, prima di addormentarmi.

Addormentarmi, perché, che c’è di strano? Non era il tramonto di metà pomeriggio di una giornata invernale ma quello tiratardi d’una sera d’estate, perfetto per appisolarsi su quella sedia sistemata sul balcone, sotto le stelle, a luci spente per non attirare le zanzare. E su quella sedia mi ero addormentato, mi sembrava che fosse andata proprio così, poi dovevo essermi svegliato chi sa a che ora della notte, disturbato da un’arietta fresca o da un volo di pipistrello e come un sonnambulo dovevo essermi trasferito nel letto. Sì, doveva essere andata così. Pensavo a queste cose fermo davanti alla finestra che si era aperta a metà della parete del corridoio ma che in verità, quando un istante prima avevo messo piede fuori della stanza iniziando a percorrerlo, non mi sembrava di aver visto.

La finestra si era disegnata nel muro come una trasparenza improvvisa, completa di tende leggere che si muovevano nell’aria che però a guardare bene, non era l’aria a muoverle ma la luce dorata che veniva da fuori, un fuori che quella luce brezzolina nascondeva come una cortina. C’era qualcosa che non mi quadrava, nemmeno la finestra che infatti era rettangolare, ma non era questa la ragione per cui non mi quadrava. Niente cucina, ora volevo uscire e vedere cosa c’era fuori. La finestra sembrava un’ottima scorciatoia per evitare di cercare la porta, le scale, i pianerottoli, gli ascensori e tutti quei sistemi che di solito si usano per passare da un dentro a un fuori. Mi sembrava un’ottima idea scavalcare il bordo, che era all’altezza giusta per farsi scavalcare da me, e uscire passando dalla finestra che mi si era spalancata davanti. Appena oltre il perimetro della finestra, la luce non permetteva di vedere cosa ci fosse fuori perché sembrava un controluce di se stessa e in controluce tutto è contro la visibilità, perfino la luce, per cui si vede poco o niente… ma non era una cosa di cui preoccuparsi, questo lo sapevo, anche se non sapevo come o perché.

Ero in piedi, in pigiama, impalato, indeciso insieme con altre parole con la i e altre anche senza i che avrebbero potuto aiutare a capire in quale incredibile (di nuovo la i) stato d’animo mi sentissi. Credetemi sulla fiducia, sicuramente un’esperienza simile capiterà anche a voi e allora ripenserete a me e allo scetticismo con cui avete letto queste pagine.

Sono certo che anche voi vedrete, per esempio, la finestra allargarsi sotto i vostri occhi come stava capitando sotto ai miei.  Se guardavo a destra si allargava da quel lato insieme con tutto il lato, se guardavo in alto si alzava verso il soffitto insieme con il soffitto. A sinistra succedeva la stessa cosa, in giù anche: la finestra si abbassava, si abbassava anche il morbido pavimento che però non era più morbido, perché non era più un pavimento ma un niente. Esatto, il pavimento mi stava piantando in asso abbassandosi e lasciandomi sospeso a mezz’aria, nel mio pigiama. L’aroma mi toccò su una spalla. Mentre mi voltavo scoprii di essere in piedi su un poggio di nuvole, a poca distanza da me qualcuno stava sorseggiando un profumato caffè Lavazza.

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10 commenti »

  1. “Le moderne solitudini non possono nutrirsi di poetico spleen ma solo di pasti precotti” bellissima analisi, la cui soluzione sarebbe “Il primo giorno”. Bellissimo e intenso lo slogan ” vivo dove si tocca”.
    C’è un libro di Kingsley che mi ricorda il tema. Ci sono inoltre un paio di racconti finalisti dell’edizione scorsa di questo premio che mi sembra trattino lo stesso argomento . Interessante combinazione. Qual è la genesi dell’idea?
    Altra curiosità più effimera: la paternità della pubblicità citata.
    Grazie.
    Cari saluti.

  2. Gentile Leonardo, grazie per il suo commento e per aver colto alcuni passaggi del racconto. Per rispondere alle sue domande: Il primo giorno è nato alcuni anni fa per partecipare a un concorso a tema caffè ed essendo io un ex pubblicitario mi è sembrato naturale avere nel finale la campagna “Paradiso” della Lavazza, creata dall’agenzia Testa nel 1995 e proseguita per oltre venti anni con molti nomi dello spettacolo italiano, da Riccardo Garrone, purtroppo scomparso, a Bonolis, da Solenghi a Brignano per citarne alcuni. Mi spiace ma non conosco il libro di Kingsley quindi non posso dire nulla al riguardo mentre è possibilissimo che altri racconti abbiano trattato lo stesso tema nella storia di RnR, che ha un percorso ormai più che ventennale: in fondo il rapporto con l’al di là, paradisiaco o no, è un tema da sempre ricorrente in ogni arte. Grazie ancora!

  3. Racconto ben congegnato, con un’anticipazione iniziale che tiene sospesi e porta amabilmente a dischiudere l’enigma verso il finale. Con una trovata pubblicitaria che spiega il primo giorno di una vita nuova, che ricompensa una moderna solitudine, nutrita di “pasti precotti, serie tv on demand” eccetera. Solitudine a cui il protagonista si oppone illudendosi di programmare la propria vita, l’unico modo che gli dà sicurezza, come pure l’icastico vivere “dove si tocca”. E quale soluzione alternativa a questa vita terra terra, se non un paradiso ravvivato dall’aroma di un buon caffè? Delizioso.

  4. Gentile Salvatore, grazie mille 🙂

  5. Salve Ugo, ho letto e riletto il tuo racconto, pronta a voler scoprire se ci fosse pronto un incantamento, una soluzione per uscire da quel circuito esistenziale già prestabilito. E sai perché? anch’io, come il tuo protagonista, ho la necessità di organizzarmi la giornata che verrà.
    Il tuo racconto sa molto di subconscio e la tematica della solitudine da rifuggire, esorcizzandola con una scrupolosa organizzazione del futuro prossimo, appartiene a tanta umanità.
    Si, definirei il tuo modo di scrivere psicanalitico e per questo mi piace molto: accompagna le sensazioni che produce nel lettore, non lasciandolo mai solo nella riflessione, ma rispettando le libere sensazioni che gli produce.
    “anche la periferia conosce l’estasi” : che maniera sintetica e meravigliosa di raccontare la società!
    Volevo concludere ringraziandoti delle belle sensazioni che mi hai regalato raccontando del percorso mattutino che fanno i piedi del tuo protagonista..

  6. Gentile Rita, grazie mille per la tua lettura, così attenta e partecipata. Purtroppo non so praticamente nulla di psicoanalisi, questo raccontino è nato da un brief: ci deve essere il caffè. Brief che ha generato un’idea e qualche giorno di lavoro, il tutto è accaduto alcuni anni fa. Ma la tendenza a organizzare il tempo che allora trasferii da me al protagonista c’è sempre, intatta e presente ogni giorno. Grazie ancora 🙂

  7. Lettura molto godibile, su cui vale sicuramente la pena di soffermarsi per rileggere più e più volte i passaggi meglio riusciti, le costruzioni sintattiche più complesse, le scelte lessicali e le iterazioni più efficaci e ricercate.
    Di questo racconto ho apprezzato soprattutto lo stile. Una scrittura di raffinata accuratezza che conduce il lettore da una scena alla successiva con tale incisività che è lo stesso lettore a farsi protagonista in quanto si riconosce in tutto o in parte nell’unico personaggio del racconto. Ed è secondo me questa scrittura così fine a permettere di delinearne con tanta nitidezza il profilo, approdando dall’ironia alla mestizia, dall’umorismo all’amarezza (“Paranoico? Ma no, semmai in cerca di sicurezze, tipico delle moderne solitudini che non possono nemmeno nutrirsi di vita maledetta o poetico spleen ma solo di pasti precotti, serie tv on demand e imprevedibili orari di lavoro”; “sinapsi più periferiche e solitarie della mia testa, desolati capolinea del pensiero. Anche la periferia conosce l’estasi”). Davvero un bel racconto!

  8. Gentile Loredana, grazie di cuore per questa approfondita lettura di Il primo giorno. Hai colto un punto che mi sta particolarmente a cuore, lo stile, cui dedico sempre molta attenzione, a volte con risultati, forse, dignitos, a volte no, ma questo è normale 🙂

  9. dei tre che ho letto è quello che mi piace di più, sono per letture un po’ “corpose” e trovo che sia accattivante e ben scritto. Mi ha fatto molto piacere leggerlo, grazie per averlo condiviso.

  10. Gentile Linda, grazie di cuore per esserti fermata a cercarli e averli letti tutti e tre, mi lusinga che si dedichi tutto questo tempo ai miei racconti, anche se uno è invero piccino piccino 🙂 Anch’io ho letto con grande piacere Il piccolo Kendoka che, sì, hai ragione, come racconto di formazione può certamente interessare un lettore più giovane. Grazie ancora e in bocca al lupo 🙂

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