Premio Racconti nella Rete 2025 “Una donna sola” di Lucio Gatto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Le gocce cadevano sospinte dal vento.
I ciottoli battuti e slavati uscivano dal terriccio con vari colori come un rozzo mosaico, mentre i lastricati dei marciapiedi riflettevano la doppia fila delle luci del corso, fino a porta Venezia.
Anche da questa parte di città non s’incontrava anima viva.
Buie le finestre.
Dominava quel silenzio gravido di sonno che è proprio delle ultime ore della notte in cui perfino i malati riposano e si assopiscono i moribondi.
Lei e l’acqua erano una cosa sola.
Al rumore della pioggia si mescolava il frignio dell’acqua che scendendo dal cielo, traboccava dalle grondaie e si riversava sulla strada.
Si era rivelata un’idea di merda accettare l’invito di trascorrere il fine settimana a Milano da Francesca, perché appena aveva incrociato il suo sguardo aveva visto una persona completamente diversa da quella che aveva conosciuta qualche anno prima e con la quale aveva condiviso gli ultimi due anni di accademia. Francesca si prodigò in ogni modo per metterla a proprio agio evitando di parlare della professione, e dei problemi che aveva dovuto affrontare dopo l’incidente; ma questo voler far finta che non fosse accaduto nulla di rilevante finirono per renderla inquieta e ancora più convinta di farla finita una volta per tutte.
Si accostò al parapetto, fissò nuovamente lo sguardo nel biancheggiamento turbolento dell’acqua che rimbalzando tra le arcate che sostengono il ponte emetteva l’ululato di una bestia feroce.
Discese di corsa la stradina che rasenta il fiume e quando fu sotto, scorse un qualcosa che poteva fare al caso suo. Si tolse la borsa che teneva a tracolla, e dopo alcuni tentativi andati a vuoto riuscì finalmente ad agganciare il manico ad un pezzo di metallo che fuoriusciva dal parapetto del ponte.
Poi guardò giù. Il Naviglio stava per accoglierla quando un miagolio appena appena percepibile la distrasse dal suo proponimento; tornò sui suoi passi, e si mise a individuare da dove provenisse, poi si chinò.
Raccolse un batuffolo di pelo tremante, lo accarezzò poi disse:
“Hai mandato a puttane il mio piano, cazzo.
Sei proprio messo male …, tutto pelo e ossa.
Va bene, ti rimetterò i sesto e poi la farò finita una volta per tutte. ”
1)
Un bel po’ di tempo dopo, mentre il riso era sul fuoco, Marta prese a riordinare senza troppa voglia l’appartamento.
Mangiò in fretta sfogliando il quotidiano del mattino, c’era un articolo sull’ennesimo sbarco di clandestini a Lampedusa; solo una rapida occhiata, e passò alla pagina successiva.
Andò a sedersi sul divano del soggiorno con un bicchiere di Coca in mano.
Leo comparve, arrotò le unghie sulla sponda e andò ad acciambellarsi sulle sue gambe.
Mentre affondava le dita nel pelo di Leo, ripensò a tutte le persone che aveva incontrato negli ultimi giorni; non voleva pensare al nuovo lavoro, ma come capitava spesso le immagini si sovrapponevano l’una all’altra, insieme a frasi e volti. Cercò di distrarsi facendo zapping tra i canali televisivi ma non trovò nulla che la interessasse.
“Sono sposata con il mio nuovo lavoro, mi porto a casa le indagini, tutto il resto sembra non avere importanza.” Esclamò tra sé.
Anche se amava ciò che faceva, sarebbe arrivato un giorno in cui tutto le sarebbe sembrato se non senza senso, sicuramente meno importante. Il lavoro: quei fascicoli, quella tensione, non avrebbe avuto alcun peso di fronte al bisogno di amore e contatto che aveva represso.
Temeva quel giorno. Quando il cielo si sarebbe capovolto e la motivazione avrebbe raggiunto lo zero.
E il vuoto pronto ad accoglierla.
La cosa peggiore era che non aveva voglia di reagire.
Nessuna passione; non amava pattinare, né passeggiare, nessun particolare interesse per la lettura o il teatro, il bowling o la pittura, tutto quello che la gente faceva così facilmente e volentieri.
Avvertiva soltanto che avrebbe voluto fare qualcosa oltre a lavorare di giorno e bere Coca la sera.
Se non usciva mai, come avrebbe potuto incontrare persone di un certo tipo?
Nella sua vita al primo posto c’era sempre stato il lavoro.
A parte la lunga parentesi riabilitativa dall’alcool.
Fin dal primo giorno che aveva superato la soglia della Lucchese Investigazioni, ubicata in un elegante palazzo in stile Liberty sulla circonvallazione, le era sembrato di essere ritornata per certi versi a casa.
Non c’era il casino dei colleghi che entravano e uscivano dai vari uffici, il via vai continuo per i corridoi, l’odore di fumo e di caffè. Ma nonostante mancasse tutto questo, avvertì subito l’odore delle scartoffie, delle pratiche che stazionavano da tempo sulla scrivania del capo.
Il capo, il noto dottor Poletti, non era in sede, aveva un leggero ritardo; così le fu detto da una buffa segretaria dall’impressionante somiglianza con la Signora in Giallo, che la pregò di accomodarsi nel suo ufficio. Così dopo un po’ che si trovava lì, e aver posta l’attenzione sugli oggetti che arredavano la stanza del capo, giunse alla conclusione che il Poletti si era affidato totalmente alla grande distribuzione.
L’IKEA deteneva senza ombra di dubbio il primato.
Così mentre l’eccitazione iniziale stava lentamente scemando, lasciando distese desolate all’interno della sua mente, pian piano venne riempita soprattutto da immagini ed emozioni di un recentissimo passato.
Dell’uomo che aveva rimorchiato la sera precedente al pub, in verità, non ricordava niente.
Avevano fatto sesso, quello lo ricordava benissimo.
Ma altri aspetti di lui, com’era il suo volto, il timbro della sua voce o alcuni particolari, non li rammentava affatto. Ricordava solo il sesso di quell’uomo, che aveva definito, dopo le prime battute, niente male.
Se n’era andato prima che lei si svegliasse, verso le dieci.
Nel letto era rimasto l’odore di quel tipo e dell’amore.
E lei distesa, che pensava a Edoardo.
L’entrata in ufficio del Poletti, preceduta dalla voce della Signora in Giallo, scacciarono di colpo tutte le immagini dalla sua mente, salvandola dalla depressione nella quale stava precipitando.
“Sono felice di vederla, dottoressa Ciabattari, sapevo che non mi avrebbe deluso.
A me piace andare subito al sodo: quando intende iniziare?”
“Visto che non ho niente da fare e che mi sono alzata dal letto per venire qua, se a lei va bene …, subito?”
“Benissimo, non avrei sperato in niente di meglio.
Venga che le faccio vedere il suo ufficio.
Da questa parte.”
Di nuovo con quella vecchia pratica fra le mani.
Il Poletti si era affacciato un paio di volte per chiedere se aveva bisogno di qualcosa; l’ultima volta era entrato nell’ufficio e le aveva lasciato un mazzo di chiavi, dicendo:
“Devo vedere un mio collega … e non rientrerò.
Se ti servissero per chiudere; comunque sono le tue.”
Aveva sollevato impercettibilmente il capo, abbozzato un sorriso accompagnato da un lieve brontolio che avrebbe dovuto significare in qualche modo un saluto.
Quelle carte leggermente ingiallite, polverose in alcune parti, popolate da minuscoli insetti che correvano a rintanarsi tra le pieghe o nei bordi, zeppe di annotazioni da lei vergate a penna a piè di pagina, il suo commento critico nell’ultima …, le fecero perdere la cognizione del tempo, costringendola a rivivere situazioni e momenti che credeva perduti per sempre.
Il telefono che prese a squillare prepotentemente.
Dopo aver riagganciato con un gesto di stizza, si guardò alcuni istanti intorno.
Prese dall’armadietto la pistola di ordinanza e si precipitò fuori dall’ufficio.
Alla Banca Commerciale, nel quartiere di Sant’Anna, c’era una rapina in corso.
L’inseguimento a forte velocità sui viali della circonvallazione del veicolo guidato dai rapinatori, la macchina dei malviventi che tampona un mezzo commerciale, alcuni attimi dopo il frastuono, il buio.
Chiuse gli occhi, inspirò e respirò profondamente un paio di volte.
Cercò in tutti i modi di cacciare via gli spettri dalla sua mente, ma l’immagine di quel vecchietto sulle strisce pedonali l’avrebbe tormentata per il resto dei suoi giorni.
L’inchiesta a suo carico, le analisi del sangue, il ritiro della patente, la sospensione dal servizio.
Si guardò attorno, non era nell’ufficio della questura.
Si trattava pur sempre di un nuovo lavoro e di una nuova avventura, quello era l’unico elemento certo sul quale concentrarsi e ripartire, il resto lo avrebbe fatto il tempo.
Si ricordò i consigli del terapeuta del centro, di non far passare molto tempo dal visitare criticamente i fatti più recenti accaduti del vivere quotidiano.
E così iniziò a fare … e finalmente le immagini apparvero e ci si aggrappò come un naufrago allo scoglio.
“Avresti potuto lasciare un biglietto , Luca.”
Riemerso il nome di colui che aveva rimorchiato la sera precedente, sistemò la gonna e la maglietta, si recò nel bagno, si chiuse dentro, e si guardò nello specchio.
“Mai più un Luca.” Esclamò ad alta voce.
Si sedette sulla tazza e chiuse gli occhi per non piangere.
Perché tanta malinconia, perché tanta tristezza, ora, proprio ora, che stava per incontrare Edoardo?
Era forse paura? Quella che aveva visto anche in lui e aveva cercato di cacciare inutilmente?
Lei aveva preso l’iniziativa, Edoardo l’aveva seguita.
Edoardo aveva apprezzato la sua intraprendenza e allo stesso tempo l’aveva osteggiata passivamente, diviso com’era fra la sua storia e il futuro.
La stessa fottuta paura che aveva provato in quarta elementare quando a uno spettacolo di fine anno le avevano fatto recitare la parte di una talpa.
Entrando sul palcoscenico era inciampata, si era ripresa, ma non aveva potuto evitare le risate del pubblico.
All’applauso finale, nel chinarsi troppo le era caduto il copricapo e mentre cercava di riprenderlo, aveva guardato il pubblico ridente e aveva visto suo padre che applaudiva entusiasta, con il viso rosso quanto il suo e lo sguardo fisso su di lei.
In quel momento tutti gli altri, insegnanti e genitori, erano diventati una massa sfuocata e ostile, lei distingueva solo suo padre.
Mise da parte quei pensieri decisa ad allontanare in tutti i modi la malinconia che stava inesorabilmente salendo. Si sciacquò il viso, sistemò alla bene meglio il trucco e si preparò mentalmente ad uscire dal bagno.
La Signora in Giallo, poteva aver sentito qualcosa, non voleva per nessuna ragione al mondo dare un’immagine così disperata di sé, almeno non il primo giorno.
Il pensiero del padre l’accompagnò durante il viaggio e quelle immagini tenere si sovrapposero a quelle strazianti, indicibili, del cancro che divorava le ultime parti rimaste sane del suo corpo.
Quando giunse a destinazione, rimase sola nel cortile a meditare sul da fare.
Se non l’avesse conosciuta, avrebbe potuto pensare di non essere gradita, ma ora sapeva che Viola era quella di sempre, che in quei due anni passati non era cambiato niente.
Era tornata come tornano i vecchi amici.
Edoardo non si era ancora fatto vivo e Viola non aveva speso una parola su di lui.
Intuì che doveva essere in mare; andò sul retro della casa per poterlo vedere o sentire.
Non si vedevano da tre settimane.
Come l’avrebbe accolta?
Si tolse la leggera giacca estiva e lasciò che il vento le portasse il mare.
Il verso degli uccelli.
I ricordi lievi.
Leggeri, legati all’estate passata a quando lo aveva visto per la prima volta.
Chiuse gli occhi.
Forse Edoardo stava pulendo i pesci.
Quel suono stridulo dei gabbiani lo certificava.
Si voltò ad osservare la casa di Viola e ne rimase attratta, come se la stesse vedendo per la prima volta.
Un palazzo di legno per principi e principesse incappati nelle reti della vita, salvati e sanati, forse, dal male del vivere.
Le mani di Edoardo sui remi che fendevano la superficie dell’acqua, il gioco dei muscoli delle spalle sotto la maglietta slavata. Quando erano sulla barca, lei poteva finalmente osservarlo senza che lui provasse imbarazzo o distogliesse lo sguardo. Irradiava energia e al tempo stesso felicità.
Il suo ventre era diventato piatto e muscoloso, le mani forti di un contadino, di un rematore.
Sulla barca parlava più del solito, chiacchierava con disinvoltura, come avrebbe voluto facesse anche a terra.
Quando la vide seduta sulla panca in una posa languida, Viola non seppe cosa pensare.
Anche lei rimaneva lì molte volte.
Era un buon posto per pensare.
Sapeva solo una cosa: Edoardo abitava con lei da più di due anni, stavano bene insieme.
Lui le semplificava la vita, andava a fare la spesa, si occupava dei problemi pratici, dava un significato agli anni che le rimanevano.
Amava sentirlo muoversi al mattino, i suoi passi sulla scala quando tornava con la legna da ardere o caricava l’orologio a pendolo. Un giorno avrebbe ereditato tutti i suoi beni, tranne l’orologio, che voleva lasciare al figlio di un suo cugino dell’isola del Giglio.
Edoardo era diventato il figlio che non aveva mai avuto e lei minacciava tutto questo, sin dalla prima volta che aveva varcato la soglia di quella casa.
Eppure, ce n’erano state di donne ricoverate in quella struttura, obbligate a risiederci per diverso tempo, e mai Edoardo aveva guardato una donna come aveva guardato lei.
Lei aveva fatto pressione su di lui, affinché si trasferisse più vicino a Lucca.
Marta aveva lasciato la casa da tre settimane e Viola aveva finalmente trovato la tranquillità.
Adesso era tornata, stava appoggiata al muro della parete della casa, con il suo corpo giovane e attraente, come avrebbe potuto resistere Edoardo questa volta?
Non riusciva a detestarla, anche perché si era dimostrata corretta nei suoi confronti e aveva notato l’influenza positiva che aveva su Edoardo, come appariva più felice ora e più aperto.
Apparve all’improvviso da dietro l’angolo della casa.
Non l’aveva vista ma aveva notato la macchina e guardato verso la finestra della cucina.
Si passò una mano sui capelli, si aggiustò la camicia in vita.
In una mano portava un secchio.
Marta lo chiamò, lui la vide, ma non fece alcun movimento per avvicinarsi.
“Ciao”, disse soltanto e posò il secchio.
Lei si alzò.
Si guadarono.
Lui si avvicinò.
“Benvenuta.”
“Grazie.”
Non era cambiato.
“È bello che tu sia qui.”
Marta annuì.
Era abbronzato, i capelli erano più lunghi del solito e il suo sorriso timido come sempre.
Si sarebbe innamorata di quel mezzo contadino sciupato, avanti con gli anni, se lo avesse incontrato per la prima volta?
Lui abbozzò un sorriso, consapevole del suo sguardo, e fece un gesto che sembrava dire: è tutto qua.
Lei doveva lasciar defluire le emozioni, soppesare bene le parole, nelle tre settimane appena trascorse c’era soprattutto quella notte che aveva rimorchiato quel tizio e che ora stava complicando il quadro.
Si avviarono fianco a fianco, in silenzio, in direzione del mare.
Si fermarono.
Avrebbe voluto toccarlo, ma esitava.
Edoardo riprese a camminare.
Non scelse il solito sentiero, ma quello che conduceva alla vecchia rimessa per le barche.
“Come va?”
“Bene.”
Abbracciami, pensò lei.
Continuarono a camminare sulla spiaggia fino al nuovo pontile.
“Ti ricordi quante risate?”
“È stato uno dei periodi più belli della mia vita.”
“Sei contenta del nuovo lavoro?”
“Sì, anche se mi ha portato lontana da qui e da te; devo ammettere che mi sta dando molta soddisfazione.”
Lui annuì.
Marta andò a sedersi sull’estremità del pontile, lasciando penzolare le gambe.
“Ti amavo, potevo restare qui con te.” disse improvvisamente.
“Ma sono fuggita, mi sono lasciata sedurre dalla prospettiva di svolgere la mia vecchia professione.”
Captò l’inquietudine di Edoardo ma continuò senza timore.
Adesso doveva tirar fuori tutti i pensieri che aveva represso
“Mi sembrava tutto deprimente, negli ultimi tempi ridevamo poco.
Capisci cosa voglio dire?”
Non voleva ferirlo o bloccarlo, voleva che lui parlasse, di lei, così come aveva fatto riferimento alla costruzione del pontile.
“Tu mi hai dato molto, con te sono diventata più ricca, ho imparato a vedere le cose in maniera diversa.
Capisco che tu non voglia lasciare Pescia Romana. Avrei voluto che tu scegliessi me e che ti trasferissi vicino alla mia città, volevo incontrare i tuoi figli e che tu ricominciassi a vivere.”
“Ti amo” la interruppe lui.
Fu come se il pontile si fosse messo a dondolare spinto da un vento che nella realtà non c’era.
Edoardo si sedette al suo fianco, le mise un braccio intorno alle spalle.
Ripeté quelle parole diverse volte
Rimasero seduti a guardare le onde del mare.
“Ho pensato di andarmene da qui” disse Edoardo.
“Ma sarebbe un brutto colpo per Viola”.
“Lo so, se devo mettere un po’ d’ordine nella mia vita, devo riavvicinarmi di più ai miei figli e a te.”
Appoggiò la testa sulla sua spalla.
“Voglio riprovarci con te” disse Edoardo sottovoce.
“Forse possiamo farcela.
Due ex alcolisti che gettano lo sguardo sul futuro, non male vero?”
“Possiamo farcela.”
2)
Il giorno successivo,la domenica, iniziò con un senso di nausea.
Marta si svegliò.
Edoardo dormiva ancora, quando lei si alzò e si vestì per uscire.
Era una mattina bellissima.
I gabbiani la salutarono con un gracchiare così forte che non udiva da tempo.
Non aveva fatto che pochi passi quando arrivò il primo conato di vomito.
Improvvisamente sentì che nel suo stomaco era in atto una rivoluzione e corse sul retro della casa.
Quando fu dietro l’angolo, all’altezza della fontana, arrivò il secondo attacco di vomito.
Gocce di sudore freddo comparvero sulla fronte e non ebbe neppure il tempo di pensare che arrivò il terzo.
Si chinò in avanti e fissò il terreno disgustata.
Immerse la mano nell’acqua della fonte e se la passò sulla fronte.
La nausea andava e veniva.
Si sciacquò, nella mente c’era tanta confusione.
Naturalmente avevano bevuto la sera precedente, cosa che si erano ripromessi di non fare mai più.
Per degli ex alcolisti riprendere a bere, anche per una volta sola, può essere l’inizio di un nuovo calvario, sprofondare nella parte più remota dell’inferno.
Edoardo si era alzato di scatto, svuotata la bottiglia di grappa nel lavandino, tornato a letto senza dire una parola, senza commentare l’accaduto.
Al pensiero dell’acquavite ingurgitata s’impaurì.
Aveva sentito parlare degli effetti negativi che poteva l’alcol impuro distillato in casa sul fegato.
Lei rimase ferma per qualche minuto, poi si inumidì nuovamente il viso e si sciacquò la bocca con l’acqua.
“Speriamo che non mi abbia visto Viola” pensò.
Aveva freddo e inveì contro se stessa per la leggerezza commessa, poi contro il suo corpo, che gli aveva rovinato la magnifica mattinata.
Gli uccelli non si curavano della sua sofferenza, il vento continuava a sibilare, insinuandosi fra i cespugli fino a raggiungere il mare e il sole era caldo a dispetto dell’ora mattutina.
Marta continuava a rabbrividire.
Per un attimo pensò di andare in riva al mare, ma poi esitò.
Se fosse tornata in camera a prendere una maglia c’era il rischio che Edoardo si svegliasse.
Rammentò che Viola teneva diverse giacche e scialli attaccati all’ingresso.
Camminò cautamente nella ghiaia del cortile,aprì la porta, scelse uno scialle rosso e lo mise sulle spalle.
Il mare era quasi piatto.
Solo una sottile striscia di nebbia rimaneva sospesa nell’aria.
Cominciava a sentirsi meglio.
La vista dell’acqua, la calma del mattino, le fecero venire le lacrime agli occhi dalla commozione.
I brividi lasciarono il posto a un calore che saliva in tutto il corpo.
Percepì un debole profumo di timo, in lontananza udiva il verso dei gabbiani.
Marta sapeva che presto sarebbero arrivati, forse attirati dalla sua figura.
Rimase completamente immobile con gli occhi chiusi, con la mano che accarezzava la sabbia.
Tornò col pensiero alla notte passata con Edoardo.
Era stato timido, taciturno come al solito.
Marta aveva immaginato che sarebbe stato più loquace, che avrebbero parlato dei rispettivi pensieri, progetti per il futuro, ma lui l’aveva solo guardata con uno sguardo pieno d’amore.
Poi avevano fatto sesso come prima, intensamente.
Lei amava il suo torace, il suo sguardo e le parole tenere che bisbigliava.
La notte appena trascorsa non era stata un illusione, era Edoardo che voleva e nessun’altro.
Cercò d’immaginare di lavorare in quel tratto di Maremma e come sarebbe stata la convivenza con Edoardo, avrebbe avuto quell’incantevole tratto di mare, i pascoli e il pollaio, ma sarebbe riuscita a sopportare quella quiete e quella vita a lungo?
Per Edoardo non era un problema, era cresciuto a Orbetello, mentre lei invece era fuggita da Castrovillari per andare a studiare in una grande città, Roma.
Lucca all’inizio le era stata stretta, ma successivamente aveva imparato ad apprezzare le sue caratteristiche singolari: la qualità della vita, la bellezza, la sua felice posizione geografica.
Rimase sulla spiaggia per più di un’ora.
Nessun attacco di nausea, al contrario una fame crescente che la fece alzare.
Come aveva previsto erano arrivati i gabbiani e rimanevano appollaiati sugli scogli, starnazzando come sempre.
Rimase a Pescia Romana fino alla domenica sera, facendo con Edoardo lunghe passeggiate.
Concordarono di telefonarsi durante la settimana, forse avrebbe potuto raggiungerlo per il prossimo weekend. Finirono per non decidere niente, entrambi sapevano che finita l’estate sarebbero arrivate le difficoltà.
3)
“Devo evitare nella maniera più assoluta la noia, facile a dirsi” esclamò tra sé mentre usciva dallo studio del dottor Zanda.
Gli strizzacervelli amavano liquidare con queste parole il colloquio e il barbuto dottore non faceva eccezione.
Facile per loro, che dio li fulmini.
Ma nonostante si sforzasse di ricordare andando a ritroso nel tempo, agli anni della sua giovinezza, ebbene, aveva sempre trovato difficoltà a rapportarsi con gli altri e in un certo senso a trovare un preciso posto nel mondo.
La giornata era iniziata bene, aveva lavorato con una certa soddisfazione e in alcuni momenti aveva addirittura sfiorato l’euforia. Poi c’era stata quella telefonata con Edoardo e quel poco di buon umore che fino a quel momento l’aveva accompagnata si era disciolto come neve al sole.
La conversazione si era conclusa in una manciata di minuti, più che sufficienti per capire, soprattutto dal tono della sua voce, dalla pochezza delle parole pronunciate, dall’assenza totale della passione, che non era in cima alla lista dei suoi pensieri
Uscì dall’ufficio.
Il sole stava per tramontare.
Ancora l’incombere dello spettro della notte sudi lei.
L’angoscia che cresce a dismisura.
Ancora una volta sola.
A fare i conti con se stessa.
Senza nessuna possibilità d’aiuto.
Far finta di nulla, non era certo il modo di risolvere i problemi, insistere nel cullare per l’ennesima volta il sogno d’amore.
Si trovò a percorrere la circonvallazione guidando a passo d’uomo.
L’aria era tiepida.
La gente era per strada.
Iniziò a provare invidia.
Marta si svegliò di soprassalto.
L’orologio segnava le 6:05.
Lasciò ricadere la testa sul cuscino.
Mancava ancora mezz’ora prima che la sveglia suonasse.
Il lenzuolo le si incollava alle gambe.
Gettò il piumone al lato, ma si pentì perché aveva iniziato subito a rabbrividire.
Sentì il vento che scuoteva le persiane e si disse che sarebbe stato un altro giorno orribile.
Si coprì nuovamente mettendosi in posizione fetale.
Il sogno che l’aveva svegliata così bruscamente non era molto di più di una tenue foschia nella sua mente.
Cercò di riagguantare le immagini ma non ci fu nulla da fare.
Rimase distesa nel letto e mise inconsciamente una mano sul ventre.
Lo accarezzò lentamente, come per calmarsi, o forse per calmare l’essere che stava crescendo dentro di lei.
La sveglia suonò.
La spense con un movimento brusco.
Si alzò dal letto e andò a farsi una doccia.
Mentre si insaponava si chiese se la gravidanza avesse influito sulla consapevolezza che aveva del proprio corpo. Non se n’era mai curata troppo.
Lo aveva studiato allo specchio, controllato i segni dell’età, ma sapeva d’avere un corpo ben proporzionato. Un bel seno, gambe e sedere non esagerati, ma neppure troppo magri.
Sapeva che gli uomini che la guardavano la apprezzavano.
Nella maniera un po’ goffa Edoardo le aveva detto che era molto bella.
Ma lei non avrebbe cresciuto la vita che teneva in grembo con lui, che ne era il padre.
Non gli avrebbe detto nulla e avrebbe continuato a vivere la sua vita a Lucca.
Sapeva di fare la cosa giusta.
Edoardo era troppo diverso da lei e dal mondo nel quale lei desiderava vivere.
Edoardo amava vivere là dove esistono ampi orizzonti, ma nonostante ci risiedesse da sempre, era riuscito a farli diventare limitati e stretti.
Il mare un limite insuperabile che mai avrebbe attraversato per scoprire veramente lei.