Premio Racconti nella Rete 2024 “Impronte” di Virginia Martini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024La prima e ultima volta in cui sono stata sposata avevo ventisette anni. Vivevo insieme a Lorenzo in una casa circondata su tre lati da un giardino. Aveva i soffitti bassi, le pareti colorate e le stanze si sviluppavano più in lunghezza che in larghezza. Oltre allo spazio dedicato alla cucina – dove avevamo ricavato un angolo per il divano e la tv – la casa contava due camere comunicanti tra loro da una porta in legno a due ante e un bagno. Ricordo che la doccia aveva una di quelle tende in PVC che si attaccano addosso come una pellicola e che mi faceva alzare i peli delle braccia al solo sguardo. Pur avendola sostituita più volte negli anni in cui ho abitato lì, quando la sfioravo mi lasciava addosso la sensazione di sporcizia.
Fin da subito fu chiaro che non era la casa a cui avevamo pensato inizialmente né io, né il mio giovane ex marito. Quello che però ci convinse a firmare il contratto di affitto – oltre al prezzo abbordabile per due apprendisti – fu il giardino. Lo spazio esterno era grande quanto tutte le stanze ed era circondato dalla siepe d’alloro che si alzava da terra di almeno un metro e mezzo. Oltre al vialetto in porfido che portava all’ingresso, c’era una rimessa in legno per gli attrezzi e la struttura in ferro di un gazebo già pronta ad ospitare cene e pranzi tra amici.
Chiavi in mano decidemmo, ancor prima di riverniciare gli interni, di piantare un albero come simbolo per il nuovo inizio.
«Per il tipo di zona in cui siamo, la scelta migliore è una betulla» ci consigliò il titolare del vivaio al quale ci eravamo rivolti.
Ci tenevo che fosse un albero da frutto ma, non avendo alcun tipo di conoscenza in materia, mi affidai ai suoi consigli e una settimana prima di sposarci la betulla aveva trovato posto nell’angolo alla destra del cancello. Era alta già un paio di metri e i suoi rami leggeri vibravano ad ogni soffio di vento.
Mi piaceva osservarla dalla finestra la mattina appena sveglia e ogni tanto aprivo la porta d’ingresso per guardarle le foglie leggere incorniciate dal cielo.
Il primo anno di matrimonio fu divertente. Nonostante le pareti della casa mi sembrassero ancora troppo colorate – tornare al bianco avrebbe richiesto un lavoro e una spesa che, dopo la caparra iniziale, non potevamo permetterci – iniziavo a sentire mio quello spazio. La quotidianità era una continua scoperta. Le nostre vite stavano trovando nuovi incastri e prendendo una nuova forma, ogni oggetto si modellava all’interno di quello spazio. Anche noi avevamo forme diverse rispetto al passato, sembravamo somigliarci. A quel tempo passavo molte ore nello studio dell’architetto per il quale lavoravo e finalmente iniziavano ad affidarmi alcuni dei lavori più interessanti. Era Lorenzo, quindi, che pensava alla cena e, in generale, alla cucina, mentre io mi occupavo della casa. Ogni tanto la sera, soprattutto quando ancora non faceva freddo, ci piaceva aprire le finestre e sdraiarci nudi sul divano a fumare uno spinello e fare l’amore.
Non ricordo cosa accadde prima, se il momento in cui mi accorsi che la betulla stava seccando o il giorno in cui Lorenzo mi chiese di avere un figlio. Nel primo caso sono certa che fosse un sabato mattina e che io fossi da poco tornata da una trasferta di lavoro a Barcellona. A differenza degli alberi che avevo incontrato sulla strada per tornare a casa, il nostro aveva un colore spento e i rami non sfoggiavano il loro solito fogliame anzi, lo stavano perdendo. Chiamai subito il vivaista – con il quale nel frattempo eravamo entrati in confidenza – e dopo varie cure contro i parassiti, le mosche, la Agrilus anxius fu per lui chiaro quale fosse il problema.
«È il terreno» mi disse mentre strusciava sui pantaloni il dorso e il palmo delle mani, lasciando aloni e briciole marroni. «Avete cambiato qualcosa nell’irrigazione?»
«No, niente.» Arrossii per il senso di colpa. Non sapevo cos’era accaduto durante la mia lunga assenza.
«A dire la verità» riprese il vivaista «sembra che le radici non abbiano attecchito in profondità. È strano ma spiegherebbe perché la betulla non riesca a nutrirsi. Comunque possiamo ancora fare qualcosa.»
In pochi giorni installammo un nuovo sistema di irrigazione e tagliammo i rami ormai secchi. In attesa di vedere dei risultati osservavo la betulla ancora più di prima e spesso uscivo da casa per accarezzare il suo tronco o sedermi sotto la sua chioma rada, in silenzio.
Lorenzo, invece, espresse i suoi piani per il nostro futuro durante una cena tra amici. Era il periodo dell’anno in cui si parla di vacanze estive e il nostro progetto erano tre settimane con lo zaino in spalla in giro per il Vietnam e il Laos.
«Per adesso abbiamo prenotato soltanto i voli e qualche notte qua e là ma ci piacerebbe improvvisare il più possibile» stavo raccontando soddisfatta.
«Non lo abbiamo mai fatto e ci vogliamo mettere alla prova» proseguì Lorenzo. «Anche perché non potremo farlo per sempre, con un bambino le vacanze cambieranno».
Sentii la mandibola irrigidirsi alle sue parole e i rumori nel locale mi sembrarono subito troppo forti. I nostri amici ci lanciavano sguardi ammiccanti e sorrisi che non vedevo. Forse riuscii a imitarli o forse trattenni solo il respiro. Non avevamo mai parlato di avere figli o almeno, non nell’immediato e il pensiero mi faceva girare la testa. Il mio smarrimento fu evidente a tutti. Forse non volevo avere figli o forse non volevo averli con lui. Mi resi conto di non averci pensato neanche una volta prima di quel momento.
Durante il viaggio di ritorno in macchina restammo in silenzio, senza dire una parola, né sull’argomento, né su altro. I rumori della pioggia sui vetri dell’auto aiutavano a coprire la sua delusione e i miei sensi di colpa. Aprii il cancello mentre Lorenzo parcheggiava e attraversai il giardino guardando l’ombra del mio corpo che si univa a quella della betulla. I miei passi non lasciavano alcuna impronta.
I mesi successivi furono difficili. Non avevamo più toccato l’argomento a parole ma i nostri corpi e la stessa casa ci parlavano. Di giorno passavo sempre più tempo a lavoro, accettavo ogni tipo di trasferta e il poco tempo che passavo a casa lo impiegavo a fare pulizie, a riempire la seconda camera di libri e oggetti che non avrei mai usato, a guardare la betulla che si ingrigiva e le sue foglie che si incastravano nelle crepe del terreno. Se prima speravo in una sua ripresa, adesso sentivo che non ci sarebbe stata. Lorenzo, di contro, si era iscritto in palestra e anche lui aveva iniziato a passare molte ore fuori casa. Non entrava mai nella seconda camera.
Di notte però, eravamo di nuovo insieme. Ci stendevamo sullo stesso letto, ognuno ripiegato verso il proprio lato. Sembravamo due gatti che, pur riposando, tengono le orecchie tese in attesa di un segnale o di una parola che non ci sarebbe stata. Ogni tanto aprivo gli occhi nel mezzo della notte e fissavo le luci del lampione che filtravano tra le fessure delle persiane. Seguivo sul muro le ombre dei rami secchi della betulla mentre ascoltavo il respiro di Lorenzo. Prima che gli occhi si riempissero di lacrime li richiudevo.
Alla fine fui io a prendere la decisione, a dire quello che ormai era evidente a entrambi: non saremmo andati in Vietnam. Per noi, come per la betulla, non c’erano più possibilità.
«Avresti almeno potuto provarci» mi rinfacciò Lorenzo, pur ammettendo che era troppo tardi.
Passai qualche mese sul divano a casa di un’amica in attesa di trovare una sistemazione. Quando non lavoravo, mi trascinavo da una parte all’altra della città senza avere realmente voglia di trovare un posto mio e, in quel torpore, passavo ore al parco a guardare gli alberi e le loro radici. Fu durante uno di quei pomeriggi che finii per accettare un lavoro in Portogallo. Inizialmente pensavo spesso a Lorenzo, alla casa dalle pareti colorate, alla betulla e ai giorni passati all’ombra dei suoi rami. Ci pensavo così tanto che durante un weekend in cui ero in visita dai miei genitori, presi l’auto e arrivai fin davanti al cancello del luogo in cui avevo vissuto. La betulla non c’era più e nemmeno Lorenzo. Il terreno arido era stato coperto da un nuovo tappeto erboso, dal quale spuntavano cespugli di rose. Poi ripartii per il Portogallo e, giorno dopo giorno, finii per mettere da parte quel periodo.
Sono passati quattro anni da quel giorno. Con Lorenzo abbiamo continuato a sentirci ogni tanto dopo il divorzio e, come accade in questi casi, ci mandiamo gli auguri per il compleanno e per Natale. Sono venuta a sapere che si è fidanzato con una ragazza molto giovane e che stanno aspettando una bambina.
Ci siamo parlati l’ultima volta la scorsa estate. Eravamo entrambi invitati al matrimonio di una vecchia coppia di amici, in una villa sulle colline toscane. Un lungo viale di cipressi collegava la strada principale fino al cancello d’ingresso, dove tutte le coppie si fermavano a farsi fotografare. Sono stata io a raggiungerlo mentre era seduto sulla fontana in granito al centro della corte con la giacca in una mano e la cravatta allentata. Era una di quelle fontane dove decine di pesci rossi girano intorno, in attesa che qualcuno gli butti qualche briciola. Mentre noi ci raccontavamo delle nostre vite, della sua casa, delle mie storie fugaci, loro si rincorrevano. Mi venne voglia di immergere una mano nell’acqua fresca e di scuoterla. Intorno al mio polso si crearono delle onde e i pesci iniziarono a nuotare compulsivi da una parte dell’altra della vasca. Alzai gli occhi e Lorenzo mi stava guardando. Anche lui, come me, stava piangendo. Continuammo così per qualche minuto, io rivolta verso il centro della fontana, lui verso il punto in cui si svolgeva la festa. Poi mi mise una mano sulla spalla e tornò a ballare insieme agli altri ospiti. Salutai gli sposi e decisi di incamminarmi verso la macchina. Sentivo i tacchi sprofondare nel terreno, segno che, nonostante il caldo, era ben idratato. Mi voltai alzando prima un piede e poi un altro, per accertarmi di non aver rovinato i sandali appena comprati. In terra, tra le radici e le foglie, c’erano le mie impronte.
Bel racconto, un climax discendente molto intenso.
A volte non si sa perchè finisce un amore, che se ne va senza lasciare impronte? No, le impronte, anche se invisibili restano, sempre.
Bello e ben scritto. Complimenti.
Bello, delicato e intenso. Brava
Radici non attecchite, decisioni importanti non condivise, inconsistenza dei propri passi: questi gli elementi di un abbandono che determinano la consapevolezza delle “impronte” del proprio destino. Scrittura efficace nel rendere il vissuto della protagonista.
Grazie mille Alfonso.
Bellissimo racconto, Virginia. Scritto molto bene, carico di simbolismi. Mi hai fatto sentire e vedere tutto, anche le impronte. Brava! In bocca al lupo.
Grazie davvero Cristina, Gianni, Salvatore, Caterina.
Bellissimo, davvero ben scritto e orchestrato, ricco di giochi simbolici. Molto ben delineate
le sensazioni e le sfumature dei sentimenti. Complimenti.
Grazie Marco.
Molto ben costruito! Simbolismi originali ! Brava !
Grazie mille!