Premio Racconti nella Rete 2024 “Il cavaliere e il demone” di Mario Olivo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Ero arrivato in quella lugubre valle con le migliori intenzioni. Ciondolavo fiero sul mio cavallo da guerra dal manto lucido come il velluto e il mio morale scintillava sotto la corazza nera, anche se, visto quel che andavo a fare, il mio buon umore non era così giustificato. Non sarebbe durato a lungo, difatti.
La contea di L. M. era angustiata da uno demone di quarta classe e il mio compito era di eliminarlo. Il capitano A. mi aveva fornito un resoconto confuso ma appassionato sull’impresa di quell’essere gigantesco, che aveva massacrato un’intera compagnia risparmiando per miracolo lui solo, appiattitosi sul terreno giusto in tempo per sfuggire alle lunghe braccia del mostro, che scompariva e riappariva procedendo lento, mentre rastrellava da terra fanti e cavalieri in fuga. Quelli che rancava, li strizzava come minuscoli pulcini, spezzandoli in due e leccandosi ogni volta la mano, prima di ricominciare.
Alimento fondamentale del mio umore gaio era il fatto che i demoni della sua schiatta, per quanto dissimilissimi l’uno dall’altro, sono tutti, per così dire, allergici al sole. Incapaci di segnare con costanza l’orizzonte, appaiono e rifuggono con intermittenza da questa dimensione a cui non appartengono. Poiché non sono in grado di saltare a piacimento tra il loro mondo e il nostro, non riescono a scegliere di stare da noi solo di notte, quando sono i più temibili dei nemici, e rimangono talvolta intrappolati qui, dove di giorno sono al più del tutto innocui, spiaggiati tra due dimensioni come orche sulla riva. Non è dunque un caso che il demone avesse scelto di rifugiarsi in quella valle rabbuiata dalle rughe del massiccio della S., che si erge all’improvviso nella Grande pianura simile a un bue ossuto e grigio, seduto sull’erba corta del suo pascolo.
Le indicazioni erano precise: l’essere aveva cercato riparo nella gola che crea la S. laddove declina verso ovest, immergendosi nella pianura dopo che si è divisa in due vene nodose, a me toccava solo di riuscire a stanarlo con il sole alto in cielo per coprirmi di gloria e tornare indietro a incassare una buona ricompensa.
Avevo passato l’ultima settimana a cavalcare tra distese a perdita d’occhio di grano celeste, appena agitato in onde calme dal vento della pianura, capirete dunque lo spaesamento provocato dal repentino cambiamento di paesaggio, appena infilatomi in quella valle buia e pietrosa. Faceva specie soprattutto che i campi di spiga blu non fossero sostituiti da null’altro, anzi, a darmi per così dire il benvenuto nella valle di L. M., era stato l’impressionante scheletro di un grosso albero morto. Difficile dire senza foglie di cosa si trattasse, ma mi riempì di una curiosità abbastanza affilata da iniziare a intaccare la mia disposizione d’animo, poiché la serenità si nutre spesso di incoscienza. I due rami grandi rimasti intatti, un terzo sbeccato a metà e pressoché l’intero tronco erano ricoperti di uno spesso strato di resina rossa che pareva sangue ghiacciato. Tante piante hanno reagito in modo simile al passaggio dei demoni, lo sappiamo, ma questa pareva vetrificata, esplosa e rivoltata da chissà quale incantesimo. Se è vero che la zona doveva ben essere frequentata da uomini, tutti avevano resistito alla tentazione di incidere o staccare un pezzetto di quella macabra meraviglia, e così feci anch’io. L’unico segno di un contatto umano con quell’albero precedeva il passaggio della mia preda: sul ramo più alto la resina arabescava, giocava e si interrompeva laddove il legno fu solcato da una corda, chissà se d’altalena o d’impiccato.
Anche la prima accoglienza umana fu tetra quanto l’atmosfera della valle. L’Intendente mi era venuto incontro a cavallo, accompagnato da uno scarno seguito. Ci trovavamo nei pressi del solo campo coltivato che mi capitò di vedere in quel paese e, manco a dirlo, era desolatamente abbandonato; ci faceva da sfondo con i suoi grumi di piante rannicchiate su sé stesse senza che nessuno avesse colto il loro frutto. Quell’uomo allampanato fu tanto scortese da indirizzarmi subito verso il mio demone senza invitarmi prima a palazzo, benché sapesse che venivo da giorni di viaggio. Un poco piccato, gli promisi di andare a rendergli omaggio entro sera, una volta ucciso il mostro, convinto che là avrei trovato la giusta riconoscenza per le mie fatiche, assaporando tutti i buoni cibi della contea di L. M.. L’Intendente sorrise acido, mi fece consegnare un pane azzurro dal buon sapore, parte del rituale di benvenuto, e glissò sul resto, non nascondendo che aveva sperato in uno spiegamento di forze ben maggiore da parte dell’Impero. Si congedò dunque assegnandomi uno scudiero che mi avrebbe accompagnato presso la bestia che avevo spavaldamente promesso di eliminare. Non protestai nemmeno per la consegna di quell’unico eccentrico aiutante, anche se certo l’Intendente si accorse del mio trasecolare, che lo lasciò del tutto indifferente.
Il mio nuovo scudiero si presentò bofonchiando il suo nome, P., mentre muoveva la mano contro il petto; invero avevo esagerato nel malgiudicarlo, ma mi era parso di primo acchito un demente, poiché era deforme e parlava assai malvolentieri la lingua imperiale. Mi colpì subito la serpentina che compiva il suo setto nasale, mi rendeva difficile credere che potesse respirare e azzardai che ovviasse al problema solo grazie alle sue enormi narici. Benché fosse di poche parole, devo dire che non mi mancò in nulla, né io fui mai scortese con lui.
Controllata la posizione del sole, P. fece strada a dorso del suo mulo verso “il braccialunghe”, come chiamava il mio demone, che mi assicurò essere molto vicino.
Lunghe davvero quelle braccia, sottili, con muscoletti da rana, misuravano almeno venti passi l’una ed erano attaccate ad un corpo tozzo e malformato, che avrebbero potuto abbracciare più volte, se solo fossero state fatte a questa guisa. Che gli Dei mi proteggano, quel mostro era davvero apparso dinanzi ai miei occhi dal nulla, alto come una torre in mezzo a una spianata e pigramente rannicchiato sulle gambe esili. Se ne stava lontano dalle pareti scabre della S., che a quell’ora non avrebbero saputo offrire alcun riparo dalla luce.
P. non sembrava troppo teso, di giorno era venuto più volte a guardarlo soffrire al sole, bastava stare attenti a non farselo comparire davanti o peggio, mi spiegò con vivido ricorso ad ampi gesti ed a rozzi riferimenti scatologici; per il resto mi assicurò che, se non importunato, non si sarebbe mosso per ore da quella posizione.
La creatura era in effetti dominata dal malessere, al punto da non parere così pericolosa. I suoi occhi socchiusi si spalancavano tristi verso il cielo, mentre la bocca larga si contorceva sotto il naso oblungo e scaleno, mostrando un’interminabile fila di denti ricurvi. I movimenti lenti e gravi talvolta diventavano scattosi per brevi momenti che mettevano soggezione. Alla base del suo corpo biancastro si era formato un guazzetto di sudore umido d’angoscia tiepida e appiccicoso d’ansia, e vi si dibatteva con improvvisi schizzi gelidi di ira.
Ordinai a P. di scaricare dal mio arcione le assi della balista, cosa che fece prontamente mostrandomi la schiena ampia e ricurva, dopodiché se ne stette muto a guardarmi seduto su un sasso mentre la montavo sfruttando la logica non meno dell’esperienza. Sentivo i suoi occhi incuriositi su di me, si distrasse solo di tanto in tanto per rimirare i miei arpioni e saggiarne più volte col dito l’affilatezza della punta.
Una volta terminato il lavoro, mi rivolsi a lui per farmi aiutare ad orientare la balista e lui si rifiutò recisamente. Il mio stupore si stava già venando di indignazione, ma P. mi placò subito sorridendo e invitandomi a rimirare una scena che mai avrei creduto di vedere. Il mostro si era chinato in avanti poggiando il mento su tre rotoli di pappagorgia, distesecon fare regale il braccio che pareva ora lungo due leghe e lo piegò per andare a tormentare la pelle all’altezza di una delle ultime costole del suo lato sinistro, quello che meglio si offriva alla nostra vista, protetta da un debole cespuglio semisecco sormontante una pietraia. Pensavo si stesse semplicemente grattando, ma nel suo occhio il godimento si era frammischiato al dolore, spingendomi ad osservare con più cura la mossa di quell’essere grottesco. L’indice ossuto si era già infilato nella carne, dove ora si stava tuffando anche l’artiglio del pollice. Armeggiava con il gomito in aria e accompagnava il suo gesto dondolando tutt’uno corpo e testa, che prese poi a ondeggiare nell’aria. Interrotta l’oscillazione, studiò la ferita e con un colpo secco estrasse la costola dal corpo. L’osso si spezzò definitivamente con uno schiocco da ramo secco rotto contro l’anca, che riecheggiò nell’aria fermando ogni altro suono. Il mostro tese nuovamente il braccio, provocando a uno a uno lo strappo dei filamenti che non volevano abbandonare la costola al suo destino, sollevò sopra di sé il macabro trofeo polposo e lo avvicinò lentamente alla sua bocca per suggerlo in estasi come fosse un grappolo d’uva, mentre il suo ventre si imbrodava di fiotti di sangue nero.
Non aveva ancora finito il suo pasto immondo che la ferita si era già magicamente richiusa, la costola si era ricreata come una vescica vuota che si gonfia e il torso era stato lavato con secchi gesti della mano sinistra intrisa di sudore.
“Di notte è peggio, gli piace di più mangiare altri. Vuole usa balista tu?”
Mi allontanai a passo svelto, seguito da P., senza proferire parola e cercando invano di mascherare quanto fossi scosso.
“Balista, paladino Q.!” Mi richiamò P., quando divenne inequivocabile che stavo scioccamente abbandonando l’attrezzo da me montato con tanto orgoglio.
Mi misi a smontare la balista impacciato e nervoso, tanto che mi ferii lievemente a una mano. Imprecai oltremisura e mi soffermai quasi inebetito a rimirare per lunghi istanti il dito glassarsi di sangue, come un bimbo troppo stupito per piangere.
Ripresi freneticamente a lavorare e P. mi venne in aiuto, dimostrandosi tanto intelligente da ripetere con fluidità a ritroso tanti dei gesti che mi aveva veduto fare poco tempo innanzi. Il suo naturale silenzio per la prima volta mi imbarazzò, ma non seppi romperlo in alcun modo, anzi fu lui a parlarmi brevemente mentre ero intento a mostrarmi indaffarato.
“Meglio lascia lui così”, disse solo, agitandomi davanti al naso una puleggia fissata assai strettamente al suo listello, “Non è altro fare”. Non replicai. Gettò il pezzo nel sacco e proseguì a smontare.
“Io porto da Intendente?”. Mi chiese quando, una volta finito, ci fummo allontanati il giusto.
“No P., vai tu. Riferisci che tornerò, l’Impero non si dimenticherà di voi”. Così gli dissi, perché non sapevo proprio che altro dire.
Sono certo che il suo sguardo fosse ficcato nella mia schiena mentre mi allontanavo trattenendo il trotto del mio destriero nero.
“Addio”, mi urlò, e io non mi voltai.
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