Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “L’agenda” di Massimo Ceroni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Il signore seduto che leggeva il suo quotidiano buttò di scatto lo sguardo su quell’uomo assorto che lentamente camminava sul porfido del vialetto. Non vedendo tra le sue mani alcun cellulare e auricolari nelle orecchie, si decise.

<< Ehh? >>

Il passante si voltò controvoglia cercando di legittimare l’intromissione di quella voce nelle sue faccende.

<< Scusi? >>

<< Diceva a me prima? >>

Il passante solo allora considerò che le parole immaginate sarebbero potute tracimare rumorosamente all’esterno. Quello stupido! non era rimasto intrappolato nella rete dei suoi pensieri, ma era traboccato maldestramente all’esterno.

<< No, non dicevo a lei mi scusi, evidentemente pensavo ad alta voce senza rendermene conto, mi spiace. >>

<< Non importa, non si preoccupi, ormai dovrei saperlo. Non mi ci raccapezzo, tutta questa gente sempre connessa che sbraita al nulla. Non mi ci abituo; d’impulso a qualcuno che sembra mi parli rispondo, ricevendo quasi sempre occhiate di commiserazione, >> si irrigidì piegando il busto in avanti.

<< Non sarei così catastrofico. >>

<< Mi rallegro che sia ottimista, contrariamente a lei, penso che tutto quello sfoggio di sé, mostrato sui social e simili modernità virtuali, sia un pasto appetito, rendendoci tutti, nostro malgrado, cannibali di esistenze altrui, >> così dicendo, mosse il bacino adattandosi più morbidamente alle stecche della panchina.

Il passante pensò di alleggerire la piega presa dalla conversazione, – i cannibali li ho incontrati solo nei fumetti di Zagor e nelle spigolature della settimana enigmistica. In entrambi i casi mi son parsi innocui, solo nei film western mi hanno impressionato, quando ho visto i nativi americani azzannare il fegato del nemico ucciso per assorbirne i poteri, – a questo punto vide i canini addentare quella massa informe e viscida, sentì il molliccio e l’amaro in bocca, strinse gli occhi rabbrividendo un po’.

Meno male che prima non s’erano presi a morsi.

Si rese conto, che quelle parole, immaginate leggere e divertenti, ora raffreddavano inesorabilmente la conversazione facendola ripiombare nel tono convenzionale.

Come sempre aveva sbagliato registro.

Cercò di rimediare, strinse le labbra, – mi scusi ancora per prima, io sono Ruggero – e gli porse la mano.

<< E io sono Alceste. >>

Entrambi sentirono un “dlon dlon” uscire dalle tasche di Ruggero che tirò fuori il telefono e si affrettò a giustificarsi – mi scusi devo rispondere.

Cominciava a far freddo, Ruggero si abbottonò fino al collo. Infilò il telefono in tasca urtando la fredda ferraglia delle chiavi. Si accertò che gli occhiali fossero al sicuro nell’altra, insieme al portafogli. Eppure non tutto gli pareva al suo posto, perlustrò rapidamente la giacca.

Porca troia.

Prima o poi doveva succedere: l’agenda dov’era?

Dimenticata in metropolitana.

La immaginò in mezzo al giornale, sul seggiolino accanto, rimasto vuoto fino al capolinea di Montebello. Scontava il castigo della borsa mai decisa.

Quell’agenda afflitta da pinguedine, lisa agli angoli, l’accompagnava da tempo immemore. Era il regalo che si era fatto col primo stipendio, come testimoniava la busta ripiegata su se stessa. Faceva capolino dal soffietto interno della copertina di pelle, a malapena si poteva leggere in rosso nell’ultimo riquadro: Lire 323.850.

Ma quello a cui teneva di più era il contenuto.

I tratti secchi delle prime pagine avevano inciso i fogli, gli inchiostri scoloriti tingevano di tonalità di blu il giallo della carta, attraversata da sottili righe dorate. Subito dopo seguiva l’interruzione di pagine strappate che avevano lasciato di sé solo il margine sfrangiato sulla legatura. Segno tangibile di ferite sempre aperte.

Il corso dei segni riprendeva regolare fino al punto in cui si facevano panciuti, quasi ebbri e sfilacciati. Le pagine oltraggiate dall’acqua si erano ondulate asciugandosi, finendo per abbracciarsi tenacemente, a contenere segreti, che dicerto non ricordava.

Quasi ogni verso e recto di ogni pagina racchiudeva a conchiglia le tracce del pulviscolo di vita passata.

Spartiva lo scritto dall’intonso, un segnalibro di raso giallo che dal capitello si lasciava cadere penzoloni fino al piede del dorso.

Infine, nella tasca della terza di copertina si erano ammucchiati due biglietti del cinema, un francobollo, un brandello grigio di seta, la piuma nera.

Pensò anche, che forse era arrivato il momento opportuno che tutti quei detriti finalmente franassero altrove.

Ruggero mosse intorno la testa per ritrovare tempo e luogo.

Appena fu dissolto lo spaesamento, pensò.

In culo alla commiserazione, doveva agire subito!

Linea 3, Vanzago – Montebello, ore 8,36, prime carrozze, posto in coda.

Solo questo, doveva dire all’impiegato della SMM.

Di là dal telefono una voce stentorea, dopo una breve pausa, individuò il treno TR8569 e aggiunse:

<< parte da Montebello alle ore 15,45, 17,02, 18,19 …, comunque la sua agenda può cercarla domani dalle 10 alle 19 al deposito per la manutenzione; chieda della signora Mara. >> Ruggero ringraziò quella voce.

Presagendo una giornata deprimente, si concesse in anticipo un lusso compensatorio. Allungando la strada passò per Via Tevere e infilò la porta a specchio del bar Moderno. Si sedette in disparte al tavolo d’angolo, quello innaffiato dal barbaglio di luce d’una applique déco. Nell’attesa pregustava il morbidume del panino integrale, l’acidulo della salsa bianca e lo scrocchio del radicchio. La lingua allappata dai tannini e la bocca invasa dal calore del rosso di cui non riusciva ancora a ricordare il nome: La tinaia, La bigoncia, La botte? Sperava che stavolta a servirlo non fosse la solita cameriera che pareva lo canzonasse rincattucciando le spallucce nelle bretelle d’un grembiule a righe.
Alle 15,24 si diresse alla stazione Montebello e dopo aver annusato la gomma nera delle scale mobili, e più sotto l’odore acre dei freni della galleria, perlustrò svogliatamente i passeggeri e le carrozze del TR8569.
Com’era prevedibile: niente.

Tutto era rimandato all’indomani come suggeritogli dalla voce del telefono.
Il deposito carrozze vestito delle sue lamiere riflettenti era avvolto in una foschia umidiccia e gocciolante.
Intuendo una qualche presenza la signora Mara si voltò. << Cosa vuole lei? Chi la manda? >>
Vestiva la divisa d’ordinanza, ma era apparecchiata come se stesse per accodarsi al trenino del veglione di capodanno. Il fondotinta troppo marcato, il celeste dell’ombretto e il rosa antico sulle labbra non riuscivano a scontare gli anni a quella figura appesantita e un po’ ingobbita. Si raddrizzò e allargò un po’ le gambe facendosi scudo del buio dietro di lei. Ruggero cercò di essere accomodante per quanto il suo carattere scontroso glielo permetteva e inaspettatamente ottenne una resa condizionata che gli aprì l’accesso all’ufficio oggetti smarriti. Doveva aspettare, lì buono buono, che lei tornasse fra qualche minuto.
Dall’oscurità impenetrabile di sinistra si levò una vocina d’infante che lo fece muovere per avvicinarsi a meglio intendere cosa poteva essere. Inciampò e si riprese d’istinto appoggiandosi al muro d’angolo. Un materasso?
Il tramestio aveva spinto di più nella tenebra, due sagome difformi. Appaiate e unite.
Dietro l’angolo si avvicinava lo scalpiccio dei tacchi sul gres del pavimento.

Si affrettò a riaccomodare la piega del materasso.

Con un capitombolo temporale la signora Mara, dal trenino di capodanno, era balzata d’un botto alla Befana. Sul piatto delle mani aveva una cartella portadisegni di notevole dimensione. Marmorizzata e infiocchettata da larghe fettucce nere.

<< L’ho trovata, non succede spesso, >> l’aria compiaciuta di chi ti fa un regalo inaspettato.

Ruggero forse per non deluderla, ma anche per non deludere il caso, distese tutte le sue rughe e si preparò al baratto. In un attimo si convinse a lasciare ad altri occhi la sua vecchia agenda, perché voleva infilare i suoi dentro la novità.

<<Neanch’io ci speravo, è stata velocissima, la ringrazio. >> Una firma e via. Ma non aveva ancora finito, sfoggiò allora tutto il suo teatro, << mentre lei era nell’altra stanza, credo di aver sentito una voce di bambino che veniva da là dietro, … ma forse mi sbaglio? >>

La signora Mara, subito ricomposta, si buttò prontamente su quella via di fuga che Ruggero gli aveva benevolmente offerto, << sarà venuta da fuori, c’è uno strano rimbombo con la porta aperta. >>

I disegni tecnici con piante, prospetti e sezioni erano tutti distesi sul tavolo di salotto. Quattro cartoncini neri dipinti a matita colorata con accurate vedute prospettiche di un mulino ad acqua completavano il progetto. Quella mano non sazia, aveva seguitato a tracciare linee, stavolta non dritte. Sopra un ritaglio strappato c’era abbozzato un nudo di donna addormentata. La cortina dei lunghi capelli aderiva ad un corpo dalle curve secche piuttosto pronunciate.

Quella cartella l’avrebbe di sicuro restituita. Poteva riabbandonarla in metropolitana, magari nell’ultima corsa disponibile, per essere ritrovata dall’inserviente delle pulizie.

Per quel ritaglio era da vedere.

La sera stessa si ripresentò agli oggetti smarriti. Non vide la signora Mara, ma sentì dietro al collo la sua voce: << Ancora lei? >>

Ruggero offrì al suo sguardo una scatola, << ho portato qualche pasticcino per ringraziarla di ieri. >>

Attorno al bancone di fòrmica arancione, uno da una parte e uno dall’altra, si rimandavano le solite domande di convenienza, fino a che Ruggero disse, << adesso tolgo il disturbo… Ma mi dica del bambino? >>

<< Venga Ruggero, glielo presento. >>

Luol era piccolo, ossuto e colorito d’ebano. La testa pelata, fatta eccezione per una lanugine rada e castana; gli occhi mobili e pieni di cose impenetrabili. Era allacciato stretto dalle braccia incrociate della madre che sedeva impettita sul materasso.

Qualche passo ancora e la loro casa finiva.

Capodanno, poi la Befana e adesso il Natale. Per ora, poteva anche bastare.

Ruggero non fu sorpreso, era come se l’aspettava. Provò a dire la sua gratitudine con un’occhiata complice alla signora Mara. Tirò un lungo sospiro, sentì nelle narici tutta l’aria densa e acida della stanza.

Sapeva cosa fare, l’aveva già previsto.

Frugò nella tasca del mongomeri grigio, pescò la pallacucca che aveva inciso a bulino qualche giorno prima.

Un mappamondo tascabile dove le macchie più scure delineavano i cinque continenti fra cui c’era sicuramente anche quello di Loul.

Sperava che quel ditino, sopra bruno e bianco sotto, gli indicasse qual’era.

Allungò il mappamondo a mano aperta verso i due ospiti dello sgabuzzino degli oggetti smarriti, il piccino inclinò il busto all’insù cercando l’approvazione della madre che gliela concesse a malavoglia.

Era sospettosa e protettiva, come doveva.

A Ruggero pareva di vedere le terre rosse e sottili, i villaggi con capanne di fango e paglie sconosciute, i cieli tersi e infiniti presi in prestito dalle pagine lucide del nazional geografic.

Doveva fidarsi di quelle fotografie, perché in quei posti non c’era mai stato e forse non ci sarebbe mai andato.

Il mare limpido, le serate rinfrescate dal vento, i rumori inquietanti della notte, i manti degli animali selvatici li lasciava a chi aveva più intraprendenza e voglia di lui.

Kenia, Uganda, Zambia, Tanzania?

Da lì dovevano venire quei due.

Sospinti come pecore da uomini in mimetica verso i villagi di tende bianche dell’UNHCR.

O peggio.

Estirpati dalla loro terra coi crampi allo stomaco e l’acqua sudicia da bere.

Tanto altro, tante cose che Ruggero non poteva immaginare e non voleva nemmeno sapere.

Adesso però erano qui, agli oggetti smarriti della signora Mara.

Riprese il filo del suo pensiero dal groviglio degli altri e lasciò il tempo che gli altri riprendessero il proprio per avere la certezza di essere ascoltato.

<< Ora vi lascio in pace, ma mi piacerebbe ritornare a trovarvi. >>

La signora Mara lo prese per un braccio e lo portò di là, << glielo dico io se è il caso, in effetti hanno bisogno di qualcuno che si occupi almeno un po’ di loro, io fo quel poco che posso. >>

A Ruggero bastava che la sua pallacucca desse uno svago al piccino, non pretendeva avesse chissà quale potere sovrannaturale.

Aveva tante domande da fare che non fece. Chissà a quanti banditi o gendarmi avevano risposto di già e quante storie diverse avevano dovuto inventare.

Ruggero si teneva da parte le sue curiosità.

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