Premio Racconti nella Rete 2024 “La Pianura” di Jacopo Ferri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Da una parte all’altra si estendeva la Pianura.
Netta e precisa, dritta, come una livella sul mondo. Le case, decise e fiere, se ne stavano allineate lungo l’infinito spazio rettilineo e immobile. Non ce n’era una che si elevasse più in alto delle altre. Né un punto del terreno che fosse anche solo di un metro più sollevato di un altro, o scosso da una profonda buca, o da un rigonfiamento collinare pure minimo. Neanche uno.
In tutta quella regolarità di spazio, la Pianura regnava sovrana.
E non solo per le strade. Viveva tra la gente, entrava nelle case. Con le sue fattezze equilibrate e immobili. Pacate e fiere. Si era insinuata, persino, nello spirito dei cittadini. Umili, docili, equilibrati, come la terra che li circondava: le case, le strade, il mondo che conoscevano. Il mondo tutto, rettilineo e fiero, esattamente come loro.
Di colline e montagne se n’era sentito parlare, in passato. Ma erano racconti vaghi di anziani e antenati, di folli e cantastorie fanatici o troppo fantasiosi. Di persone, insomma, che avevano un modo tutto loro di vedere le cose, e che in questa regolarità infinita, beh, ci mettevano un niente a farsi notare.
Era una cosa da non credere, dopotutto, quel mondo dei racconti. Fatto da un andirivieni di curve e moti circolari, ascese e discese, voli e cadute, insidiose irregolarità. A chiedersi come sarebbe stato abitarlo, la risposta poteva essere una soltanto: terribile. Di sicuro terribile. Ma per fortuna, per fortuna, erano solo storie e niente avevano a che fare con il mondo vero. Si frantumavano davanti al trionfo di questa regolarità: da casa a casa, da una parte all’altra, in un luogo che pareva infinito, equanime, al punto che potevi osservarlo, così, in qualsiasi dettaglio. Nei passanti, negli alberi alti uguali, cresciuti al millimetro, fioriti e poi appassiti insieme. Negli uccelli, volare alti, ma ad altezze uguali, tutte uguali, né più né meno uguali. Nelle strade eterne e piane, tessitrici di un mondo senza imprevisti né sorprese. E la vita proseguiva dritta, come una linea retta che legava il futuro al passato senza perturbamenti, indecisioni, bruschi cambi di direzione, movimenti repentini.
Ma c’era chi, fra tutte le genti che abitavano uniformi la Pianura, sporadicamente dava di matto. E saliva su un albero, un tetto, una ringhiera, una macchina, e si metteva a cercarlo. Con lo sguardo socchiuso e la mano tesa davanti alla fronte, si metteva a cercarlo. E tu lo vedevi là sopra, dritto, con il corpo proteso all’insù, ridicolo quasi, cercar qualcosa. In quello spazio immenso, infinito e distante, di giardini e case: cercar qualcosa.
Ma era una mania che durava poco.
Alcuni poi indietreggiavano, afflitti, chiedevano scusa ai passanti, si rintanavano nelle loro stanze e lì vi rimanevano per mesi. Altri tornavano alle loro abitudini, ai lavori scanditi e sicuri, fatti di orari definiti, e ferie, e: «cosa compriamo per Natale?», e: «dove andiamo in vacanza quest’anno, amore?», «Dove non so ma che sia lontano, tesoro, lontano. Che i bambini, li hai visti i bambini? Non ne possono più, davvero, non ne possono più di tutta questa regolarità! Perciò partiamo, amore, lontano! Dove desideri tu, ma che sia lontano. Laggiù! Distanti! Ma pur sempre in pianura…».
Finiva così, spesso. In questo modo.
Ma era una cosa che colpiva di rado, per fortuna, questa tentazione di salire in alto a cercare qualcosa. Era una malattia che colpiva pochi, e i più, di quei pochi, si salvavano. Sì, si salvavano. E tornavano a camminare fra la gente, in pace. Con la macchina pulita e gli abiti asciutti, stirati, lungo le vie infinite e lontane, in vacanza, ma pur sempre in pianura.
L’avevo visto, io, una volta, uno di quei matti. Aveva gettato la ventiquattrore sul ciglio della strada e aveva preso a salire la ringhiera di una casa, e da lì sul platano lungo la via. In alto, in verticale, come se fosse un insetto, un primate, un roditore in cerca di ghiande. Lo vidi puntare il piede in un buco e darsi la spinta lungo la parete laterale, conquistare un primo slargo di corteccia, affacciarsi, pensare che non bastava, e salire, ancora, perpendicolare, con la ventiquattrore a terra e i fogli rovinati al suolo, ormai sparsi.
Durò dieci minuti, forse anche meno.
Poi, raggiunta la punta, vi restò pochi secondi prima di tornare giù: lento, rassegnato, con i pantaloni strappati e la giacca lacera; raccogliere la valigetta e proseguire, come se niente fosse, sulla via ordinata. Fu appena due isolati dopo che, raggiunto da alcuni agenti, venne arrestato dalla polizia. Cercò di spiegare, di chiedere scusa, in ginocchio, perdono, ma questa volta rifiutò ogni ragione, l’ispettore capo. Rifiutò ogni ragione. Bisognava dare un taglio a certe cose, altrimenti sarebbe stata la fine. Di cosa, di preciso, credo non lo sapesse neppure l’ispettore capo, ma sarebbe stata la fine. Questo è certo.
A quell’uomo andò peggio che ad altri, è vero.
Ma era una cosa che non potevano ignorare, le autorità, questa mania di arrampicarsi. Di dare di matto. Non potevano lasciare andare le cose in questo modo. E se c’era da usare la violenza l’avrebbero usata.
L’ispettore capo l’avrebbe fatto, era stato chiaro.
Tempo dopo avvenne un fatto strano, in parte simile a queste stramberie, ma opposto. O più precisamente, sbilanciato dall’altro lato.
Lo appresi una sera, mentre me ne stavo attento a curare le piante sul balcone, affinché crescessero in ugual misura, tutte, allo stesso modo. Era avvenuto vicino casa mia, appena due vie più in là. Non sopra, non sotto, semplicemente: “più in là”. Dal momento che la Pianura si estendeva identica da una parte all’altra e non c’era nord, o sud, o est, o ovest, se non un “là”, rarefatto e vago, di un punto indefinito più o meno vicino a quell’unico centro fermamente immobile e sicuro: sé stessi. Ed è proprio lì, oltre me stesso che questo fatto era avvenuto, ed era avvenuto al mattino. Ma io non ne avevo saputo niente. Sì, niente, proprio così. Almeno fino al telegiornale della sera: era stato un signore, stavolta, a far accorrere la polizia. L’aveva chiamata affacciato alla finestra, quella mattina, dopo aver notato un fatto insolito nel giardino a fianco.
«Agente, agente, mi ascolti…», aveva detto al telefono, tutto agitato.
«Il solito arrampicatore mattutino?», lo aveva anticipato subito il pubblico ufficiale, ormai abituato a simili segnalazioni: «Mando subito qualcuno per farlo scendere». «Macché arrampicatore…», aveva protestato l’uomo, «Mi ascolti, piuttosto, mi ascolti! La signora è tutta matta! Le vedo a malapena la testa, qua fuori! Sta scomparendo in terra, agente, in terra!».
E subito accorse una volante, e poi un’altra, e un’altra ancora, e la gente s’affacciò, e scese in strada, e tutti parlavano sconvolti ma pacati, e sempre uguali, e: «Via di qui, adesso ci pensiamo noi!», e: «Le vedo a malapena la testa, signore!», disse un agente, «La testa? E il corpo è sotto?», chiese l’ispettore capo al telefono: «Esatto, il corpo è sotto, ispettore! Il corpo è sotto!».
Tutto in regola, stavolta, su balconi e ringhiere. Perfino il tiglio si ergeva libero sulla via, e disabitato, se non da un nido di rondini alle quali era permesso, tuttavia, di volare libere e spensierate, seppur ad altezze uguali.
Così arrivò l’ispettore capo, o perlomeno, così disse la televisione. Che quella donna, non si sa perché, di punto in bianco aveva preso a scavare. Teneva in mano una pala, e aveva preso a scavare. Una buca stretta, circolare, in cui c’entrava lei, a malapena, ma che andava giù, perpendicolare alla terra, come una torre al rovescio. Della donna si vedeva solo la fronte, che sporgeva appena appena, ma sarebbe sparita fin giù, in profondità, se qualcuno non l’avesse fermata. Se qualcuno, santa Pianura, non l’avesse fermata.
Ma a quel punto, chissà com’è, venni preso da un’emozione ancestrale, a me sconosciuta. E come spinto da una forza indipendente venni attratto fuori dall’abitazione. Andai svelto giù per la via, appena due vie più in là, e raggiunsi quella casa circondata da nastro giallo, ormai buia, senza più nessuno intorno. Se non due agenti messi lì all’ingresso a controllare la situazione.
Entrai di lato, superandoli dal retro, facendomi stretto tra la ringhiera e il tiglio, dove passava il mio corpo appena. E mi avvicinai a quella voragine misteriosa, abbandonata, al centro di un giardino comune, come gli altri, eppure con un buco al centro. E il resto uguale.
Così mi calai piano. Con la mente folle e soprattutto speranzosa, forse di trovare qualcosa, là sotto, qualcosa. Ma perché lo stavo facendo, perché? Potessi dirlo, io, potessi dirlo con certezza non l’avrei mai fatto. Eppure, c’era qualcosa che mi spingeva a entrare, là sotto. In profondità, sempre più in profondità.
Toccai terra che avevo ancora mezza spalla fuori, e la testa.
Il terriccio umido, ai miei piedi. I fili d’erba, a solleticarmi il viso. E avvenne come un incanto, a quel punto, un incanto. Come se la terra avesse cambiato forma e il mondo non fosse più lineare, o meglio, lineare sì, ma con un buco al centro in cui c’ero io. Un buco, al centro del mondo, in cui c’ero io.
Ma durò pochi secondi.
In fretta uscii, pulii le scarpe, i pantaloni, il maglione, dal terriccio umido e appiccicoso, e scappai. Scappai più che potevo, una, due vie più in là. Mi rintanai in casa, sul balcone, a tagliare piante tutte uguali. Precisamente: a tagliare piante, tutte uguali.
Così si fece mattina, e senza sonno andai al lavoro.
Presi la giacca, la sciarpa e la ventiquattrore e andai giù per la via, avanti, rettilineo, con lo sguardo dritto e le scarpe sporche di fili d’erba e terra umida. E superai un isolato, poi un altro, e un altro ancora, e resistetti, santa Pianura, davvero resistetti a lungo, più che potei. Per quattro, cinque, sei isolati. Tremante. Prima di gettare via la valigetta con un gesto netto, lontano da me, in mezzo alla strada. E puntare subito il platano più vicino, sotto gli occhi increduli di tutti. Sconvolti ma pacati. Diversi ma uguali. Sul platano più vicino. Su cui mettevo un piede dopo l’altro, e con il primo mi davo la spinta, e mi affacciavo, e non bastava mai, e allora via, più in alto, ancora, su quel platano, come un insetto, un primate, un roditore in cerca di ghiande, più su, fino in cima. E l’ispettore capo, sotto, sopraggiunto in volante, con altri, a intimarmi di scendere, di venire giù. E io lassù, invece, sempre di più, verso la cima, a due metri, eccola!, ormai vicina, e una volta raggiunta affacciarsi e cercare, con la mano tesa davanti alla fronte, qualcosa. Cercare, in quella vastità sconfinata, qualcosa!
Un limite. Un punto. Una meta.
Oltre le case, e le strade, e le macchine, e le genti per strada. Diverse ma uguali, passanti e sopraggiunti, in cerchio, tutt’intorno. Con me, nel mezzo.
Così subito, fuori, qualcosa accadde. O forse accadde dentro, quel qualcosa. Difficile a dirsi in una posizione come quella.
E le strade presero a salire e a scendere, così come le case. E vidi le genti tutte intorno cominciare ad andare in discesa e in salita, perpendicolari alla terra. Inabissarsi ed ergersi, in alto, fra nuvole e campane; e scendere, in basso, fra radici, e funghi, e petrolio, e rovine.
E vidi le colline nascere, all’orizzonte, seguite da montagne, e fiumi, e valli, e insenature profonde, e scogliere, e mare. E tutt’intorno la realtà contorcersi, con i platani che presero a salire liberi e gli uccelli a volare alti, ad altezze proprie, a ognuno le sue.
E vidi quella pianura, infinita e sconfinata, divenire all’improvviso mondo.
Da una parte all’altra. In alto e in basso. Semplicemente, mondo.
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Pianura: soffocante e inquietante. La necessità di cambiamento diventa un’urgenza, la capacità di cambiare prospettiva una salvezza.
Complimenti per l’originalità
Salve Teresa, grazie del tuo commento. Il racconto é costruito proprio nell’intento di raccontare la sacralità della ricerca personale, e di un punto di vista originale e unico, davanti a un sistema sociale alienante e omologato. Sono contento ti sia piaciuto, un saluto!
La pianura ti soffoca, ti costringe a mantenerti basso, non ti lascia emergere e nemmeno cambiare.
Cambiare è quasi sempre la salvezza.
La necessità di cambiamento é la spinta fondamentale della storia. Essa emerge, tuttavia, solo successivamente a una rivelazione. La sacralità del punto di vista che trasforma il mondo. Un principio inalienabile nella vita di ognuno. Fa venire da chiedersi: siamo realmente noi i padroni del nostro punto di vista?
Grazie del commento Paola!