Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “Zeno” di Paola Mereu

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Lasciare il proprio paese sembra ancora adesso ai miei genitori, anche adesso che io me ne sono andato, un sacrificio tanto grande da sfiorare la pazzia. Mio cugino Zeno era per mia madre una vittima di sua sorella, andata a lavorare a Pavia («di tutti i posti che c’erano al mondo»). Così, appena compì quattordici anni, Zeno fu invitato a passare il mese di agosto da noi. «Poverino, almeno questo» ripeteva mia madre.

Io non avevo niente in contrario a questa visita. Uccidere Zeno non era mia intenzione. L’idea nacque dopo e non era un’idea così terribile. Intendo dire che non la concepì nella sua terribile interezza e rimase un’idea piuttosto confusa e incerta, direi quasi goffa. D’altronde, è ancora vivo e vegeto.

Il due agosto Zeno scese dall’autobus. Camminava con il busto e la testa verso destra per bilanciare il peso del borsone nero che portava, ma pareva che il borsone fosse lì non per contenere le sue cose. Il borsone era lì per ottenere esattamente l’effetto che era allora sotto ai nostri occhi: un corpo leggerissimo e perfetto, anche se piegato dallo sforzo. Adesso potevo immaginare che aspetto potesse avere Narciso, – se mai Narciso avesse deciso di portare un borsone nero; o Apollo, se avesse lasciato crescere i capelli fin sotto le orecchie. Mia madre guardava Zeno come divertita e ogni tanto puntava il dito su di lui e dava una gomitata a mio padre come a dire “ma lo vedi? Quello è mio nipote”. Divenne persino divertente. «Mi presteresti questa maglietta? Così la metto quando vado a ballare» disse a un certo punto, e prese Zeno per il braccio e lo portò con sé nel cucinino con la scusa di farsi aiutare a fare il caffè. Li osservai dalla mia sedia. Parlavano fitto fitto. Zeno scherzava e mamma rideva. Se non avessi conosciuto mamma, avrei detto che faceva la civetta. Ma no, non faceva la civetta. O sì?

Dopo cena mio padre mi prese da parte. «Figlio mio, domattina portalo in giro. Uscite, non può stare solo con i grandi. Chiama i tuoi cugini.» Pensava che fossimo amici. I ragazzi di quattordici anni erano per mio padre come colombi oppure muli, indistinguibili. I ragazzi di quattordici anni che conoscevo io erano invece ben distinti in un sistema di caste. In queste caste io non stavo né troppo in alto né troppo in basso, ma nella parte bassa del mezzo, insieme ai cugini Malune. Il problema è che io non sopportavo i cugini Malune. Non sopportavo nessuno che fosse mio pari, anche se nessuno al di sopra mi avrebbe mai rivolto la parola. E così non avevo un amico. Neanche uno.

I Malune stavano sempre alla fontana.

«Ciao» disse Zeno a Luigi Malune.

«Ciao» risposero Donato e Luigi Malune. Io li guardai e abbassai la testa per salutarli. Pareva che non mi avessero riconosciuto. Guardavano solo Zeno.

«Avete una sigaretta?» chiese Zeno.

Scossero la testa, scusandosi.

«Ci andresti a prenderle, Fra’? Ci andrei io ma non so dove è il tabaccaio. Ti do io i soldi.» Zeno parlava con me. I Malune mi incoraggiavano con gli occhi. Mi stavano scaricando. Riuscii solo a fare sì con la testa, senza aprire bocca, e diventai rosso per la vergogna.

Erano le dodici e trenta. Non andai dal tabaccaio. Mi sedetti all’ombra del mandarino ad aspettare che arrivasse l’una. Il venticello del primo pomeriggio non bastava a mitigare i trentasei gradi segnati dal termometro della farmacia. Salivo e scendevo dal muretto cambiando idea sul da farsi. Zeno offuscava tutti. Certamente offuscava me. Per tornare a splendere avrei dovuto essere morto. Non c’era modo migliore per splendere. Per quanto farabutto e mascalzone fosse un figlio, per quanto brutto fosse, da morto diventava una visione e un santo sceso in terra. Un figlio morto era sempre il miglior figlio possibile.  Non era necessario che io morissi per sempre, s’intende. Bastava sparire giusto per qualche ora, il tempo di far sentire la mia mancanza e poi farli gioire della mia improvvisa e inaspettata apparizione. Decisi di non tornare in piazza e non tornare a casa per pranzo. Mi avrebbero cercato, mi avrebbero fatto cercare. Li immaginavo andare di casa in casa e con la faccia gialla a chiedere se mi avessero visto («per carità, per carità lo avete visto?»). La dolcezza di questa ricerca mi commosse e rese piacevole quell’ora e mezza. Il problema è che faceva caldo, non avevo mai sentito così caldo. Si fecero le due e mezza e decisi che potevo tornare a casa e mettere fine alla agonia di tutta la mia famiglia.

Aprii la porta di casa per trovare Zeno, mia madre e mio padre erano seduti a tavola. I piatti erano ormai ammassati sul lavandino; prendevano il caffè al tavolo. Mio padre rideva di gusto mentre mia madre preparava una seconda caffettiera, ridendo anche lei. Prima di potermi chiedere che cosa mai stesse raccontando Zeno ai miei genitori per farli ridere così, sentii il sangue salire alle tempie e avvamparmi gli occhi.

«Finalmente il signorino si è degnato» mi gelò mio padre.

«Ho lasciato una fettina e l’insalata dentro la credenza, i piatti li laverai tu poi» disse mia madre.

Fu tutto. Non si preoccuparono di sgridarmi o consolarmi, non mi fecero domande. Io ubbidii e andai in camera. Piansi tutto il pomeriggio e poi fino a sera, torturandomi con le lacrime e le fantasticherie: una volta avevo l’aspetto di Zeno e tutti si giravano a guardarmi e ridevano con me anche se non parlavo mai. Una volta avevo il mio aspetto ma qualche sortilegio mi rendeva irresistibile ed ero fonte di tutti i sospiri e tutte le gioie del paese e del mondo intero. Zeno entrò in stanza e non disse niente. Smisi di fantasticare. Tanto grandi mi sembravano i suoi poteri che avevo paura che avesse potuto indovinare cosa stessi immaginando.

Passai una settimana a casa. Zeno usciva tutti i giorni. Usciva con i Malune e usciva anche con Andrea Loddo. Uscivano tutti insieme, andavano in piazza e al tabacchino. Certo, a me i Malune non piacevano. Ma che proprio fossi io invece a non piacere a loro mi faceva torcere lo stomaco. Immaginavo a volte che parlassero di me per tutto il tempo, a volte che non facessero mai il mio nome. Non sapevo cosa mi avrebbe fatto soffrire di più. Non potevo ingannare neanche i miei genitori: tutti sapevano che ero solo. Forse lo avevano sempre saputo. Mi venne anche il dubbio che Zeno fosse stato invitato per me, per farmi compagnia. Ero io da compatire, non lui. Mi si rivoltò lo stomaco dall’umiliazione.

Per mettere fine al mio strazio – credetti – i miei decisero di portarci al mare quella domenica. Ci mettemmo in macchina con ombrello, asciugamano, insalata di riso e fettine impanate.
Mi vergognavo di tutto. Della mia solitudine durante la settimana, del costume da bagno che indossavo, del mio petto stretto stretto. Mi vergognavo dell’insalata di riso. Mi vergognavo perfino di Donela con il suo fondale scuro e l’acqua verde; mi pareva un mare di seconda categoria. La mia famiglia era di seconda categoria. E anche io ero di seconda categoria.
Stendemmo gli asciugamani vicino alle rocce a picco sulla spiaggia. Zeno si buttò subito in acqua, lasciandomi da solo con i miei in spiaggia. Fu allora che un’idea si abbozzò.
Chiesi a mio padre se potessimo affittare un pedalò. Mio padre fu ben contento di quella proposta, ma qualunque mia iniziativa, a questo punto, lo avrebbe reso felice. Dissi che avrei preso Zeno sul pedalò per andare a Cala Morena, la spiaggia accanto. Mio padre avrebbe voluto accompagnarmi ma non osò ostacolarmi per una volta che vedeva uno slancio vitale in me. Scorsi Zeno e pedalai verso di lui sorridendo.
«Vado all’altra spiaggia – dissi – vieni con me?»
Zeno fece spallucce e salì a bordo.
«Pedala» disse. E io pedalai. Al promontorio girai per Cala Morena. In quel punto l’acqua diventava gelida, l’acqua della corrente arrivava direttamente dalle montagne interne, dicevano.
«Andiamo più al largo, fino ai motoscafi» dissi a Zeno. Quando arrivai alla linea dei motoscafi continuai parallelo alla spiaggia.
«Torna indietro» disse Zeno.
«Torna tu, se nei hai voglia» risposi io.
«Torna indietro» disse ancora Zeno.
Stetti zitto. Per un istante Zeno non seppe che fare e si guardò alle spalle. Si alzò di scatto e mi si stava buttando addosso quando io lo spinsi giù dal pedalò. Cadde in acqua, di spalle. Il mare che rifletteva il sole facendo diventare i suoi occhi più brillanti. Si mise a nuotare per tornare al pedalò e io mi allontanai. Mi urlò qualcosa contro e continuò a nuotare nella mia direzione mentre io continuavo ad allontanarmi. Gridò ancora e stavolta feci fare al pedalò un giro quasi a centottanta gradi e puntai verso di lui. Lui nuotò per allontanarsi, urlando. Urlava contorcendo la bocca e allungando il collo, riempiendosi di macchie bianche e rosse sulle spalle. Mi diede l’idea di un maiale quando si rende conto che è arrivata la sua ora. Pedalai più veloce e Zeno non poté evitarmi. Passai con il pedalò sopra il suo corpo. Non proprio sopra, forse, non credo di averlo toccato. In ogni caso Zeno spuntò dietro il pedalò. Mi dispiacque che spuntasse a galla così velocemente.  Il punto era proprio che doveva sparire. Mi allontanai per un tratto poi girai di nuovo e ripuntai verso di lui. Di nuovo Zeno si mise a nuotare più veloce, cambiando direzione. Mentre pedalavo verso di lui si fermò alla mia destra e mi urlò ancora contro insulti di ogni tipo. Di nuovo lo misi sotto e di nuovo spuntò dal retro del pedalò. Questa sua ostinazione mi parve un altro dei suoi pregi, dei suoi insopportabili pregi. Si ostinava a tornare a galla. Gli andai ancora addosso, senza allontanarmi stavolta, solo girando il pedalò. Zeno non si mosse tanto e spuntò un po’ tardi dietro il pedalò. Urlò, urlò senza motivo.
Chi poteva sentirlo a quella distanza dalla spiaggia? Mi allontanai ancora pronto al quinto attacco quando vidi che Zeno tremava in acqua. Era nel punto dove l’acqua diventava più fredda. La faccia gli si era irrigidita e per un attimo mi parve di vederlo come sarebbe stato da morto. Come sarebbe stato da morto? Se lo avessi ucciso, lui sarebbe morto ma io sarei stato peggio che morto. Era quello che tutti dicevano quando un fratello uccideva un altro fratello. Ah, la mamma. Ha un figlio morto e un altro peggio che morto, avrebbero detto. Mi prese paura. Non volevo essere peggio che morto.
Mi avvicinai a Zeno, di nuovo. Era troppo stanco per allontanarsi. Gli tesi la mano e salì a bordo.

Non mi chiesi allora perché avesse accettato la mia mano, perché fosse salito a bordo. Gli dissi solo «Riposati Zeno». Non mi chiesi nemmeno se avrebbe fatto cenno di tutto quello che era successo negli ultimi venti minuti ai miei. Zeno a loro non avrebbe detto niente. E fu così. Fu così? In ogni caso, di tutta quella faccenda nessuno disse più niente.

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1 commento »

  1. Un bel racconto, che tocca un tema non molto scandagliato: quello del disagio e dell’invidia in età minorile che, come in questo caso, appaiono purtroppo invisibili ai genitori e rischiano di produrre effetti nefasti quando è troppo tardi per porvi rimedio. Valido anche lo stile narrativo, a mio modesto avviso.

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