Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2024 “L’avocado e il male” di Elisabetta Mancini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Dall’enciclopedia Treccani:

Nel suo significato più ampio, il MALE è tutto ciò che crea un danno, turbando il benessere morale o fisico, ed è perciò evitato e oggetto di condanna (i mali che affliggono l’umanità…

 […]

Proverbi

a mali estremi estremi rimedi

non tutti i mali vengono per nuocere

Vedi anche Bene, Colpa, Disgrazia, Distruggere, Malattia, Peccato, Rovinare

È andata male e la Treccani che come prima voce del “vedi anche” recita: “Bene” non mi consola.

Entro dal fruttivendolo della piccola piazza vicina a casa mia con lo spirito del kamikaze. Il mondo crolla? Io compro cocomeri pesantissimi e li porto a casa mia da sola, incollandomeli per protesta contro l’intero universo.

Volete schiacciarmi? Ebbene non ve lo permetto. Lo faccio da sola.

Dopo quattro cocomeri opto per i più pratici avocado.

Li ho scoperti dopo un iniziale periodo di diffidenza. Dal primo assaggio condito, come consiglia una blogger, con olio, limone e pochissimo sale, ne sono seguiti moltissimi altri. Ora lo compro ovunque, dopo una selezione accurata, lo sbuccio e lo mangio anche camminando.

Ne consegue che il numero di noccioli è aumentato in modo esponenziale.  Ne ho cinque nel porta oggetti in macchina e ci ho riempito un paio di vasi, sul balcone di casa.

Intendiamoci: non sono una sprovveduta. L’ho capito che quei noccioli trafitti da stecchini sospesi nei bicchieri d’acqua non germineranno facilmente.

Sospeso nell’acqua, quando gli va bene, perché il liquido a volte evapora e lo lascia a secco, e l’immagine ispira davvero poca simpatia anzi pare proprio bruttarella.

Un anno fa l’ultima di una lunga serie di mie grandissime storie d’amore è svaporata. È durata tutto il tempo che sono riuscita a stare sospesa infilzata sui confini di Viterbo. Poi mi sono arresa: le radici non sarebbero mai spuntate e così mi sono tolta gli stuzzicadenti e sono rotolata nel grande vaso pieno di altri semi residuati dalle scorpacciate di frutta comprata dal fruttivendolo di cui sopra.

Ho provato allora la stessa sensazione di quando la mia amica Sara, una tappetta con il culone particolarmente saggia mi sgridò: “gli avocado sono grassi. Non ci devi mettere l’olio, ma che blogger segui?”.

L’avevo intuito, non lo nego.

Si, avevo capito che il peso dei cocomeri, il grasso degli avocado e le strane pose di P.L. non mi avrebbero fatto bene.

Ma ho creduto di essere una ciclista talmente brava da riuscire a sterzare all’ultimo senza danni. Non avevo pensato che sarei rotolata a bordo strada, le ruote che girano inutilmente verso il cielo, il manubrio divelto, la catena scatenata. E intorno noccioli di avocado.

Il mio terapista mi apre la porta con padronanza e mi precede verso lo studio con passetto svelto. È invecchiato anche lui, in tutto quest’anno

Ha le spalle leggermente incurvate e ne studio le palpebre abbastanza gonfie.

Ha ascoltato i piccoli tentativi di lezioni che l’universo ha provato a impartirmi in questi mesi dilutto, durante i quali per la prima volta nei miei 57 anni mi sono mossa completamente da sola.

Ho provato a festeggiare il  capodanno in un rifugio in Abruzzo, che per arrivarci ho desiderato la morte dato il rapporto pendenza\velocità dettato dalla maggioranza del gruppo non ancora trentenne,  che ha vissuto la cosa come un compito da sbrigare rapidamente  per passare ad altro. Ho empatizzato con tutti quelli che scappano dalle bombe. La compagnia aveva l’allegria dei profughi e il ritorno il sapore di una fuga precipitosa su quella che si era trasformata in una discesa ripida.

A febbraio ho iniziato a suonare in un gruppo di samba in un centro sociale.

Hanno avuto pazienza, nel senso che siccome pure su Facebook avevano scritto “laboratorio gratuito e  aperto a tutti” hanno soprasseduto tre o quattro lunedì. Poi mi hanno tolto lo chocalho di mano dato che mi divertivo moltissimo ma non al loro ritmo.

Mi trovate nelle foto del festival della zuppa e della sfilata a via del Corso per il Disability Pride.

Ho resistito stoica fino a settembre anche se non capivo come suonare gli strumenti – me li hanno fatti provare tutti: repinique, chocalho, surdo, tamborim, caixa –. I musicisti hanno resistito meno, loro lo sapevano come farli suonare. Li vedevo, stremati custodi  di questo segreto scambiarsi sguardi disperati.

Immaginate tutta una banda vestita di verde e giallo suonare all’unisono tranne me, appunto, l’unica mariachi a cui proprio non riusciva. Al mio terapista non è sembrato terribile. Ci ha suonato anche lui in un gruppo simile. Il mio terapista è anche un musicista. Ho proprio tutte le fortune.

Per quel che riguarda il workshop sullo stand up vicino Torino, da un giovedì a una domenica di luglio, avrei dovuto capire non facesse per me dato che non distinguevo nessun nome tra i docenti tranne quello dell’attrice che aveva presentato il suo libro durante il “festival della vagina felice” presso un centro sociale nel quale io ero volontaria.

Mi era piaciuta. Una che per fermarla je devi sparà parecchie volte e non è detto che la prendi.

Io che mi fermo benissimo da sola e senza sforzo, anziché cercare di fare stand up mi sono vista i due spettacoli inclusi nel prezzo ed ho letto un mio raccontino ottenendo in cambio ribrezzo. Mi sono rifiutata di fare stand up dato che gli altri partecipanti mi mettevano tanta paura.  La domenica mattina non sono andata in scena, giravo felice per Torino.

Il mio terapista non capisce perché non ci abbia provato, eppure sono spiritosa, intrattengo le persone, sono un animale da palco.

 “Intrattengo perché faccio una grande fatica a stare ferma” gli dico. “Fosse per me salterei ovunque toccando tutto mentre urlo. Dentro di me ho una banda di suonatori messicani con il cappellone”.

“Si chiamano Mariachi” interloquisce, attento.

“Le mariache… appunto”.

Scuote la testa mentre continuo: “Ognuna ha un’idea propria del da farsi. Dicono cose diverse, nessuna tollera i tempi vuoti e prova a riempirli”.

“Allora non sono mariachi” segue una pausa a effetto e da dietro i suoi occhiali e attraverso i miei arriva una frase esaustiva :“i mariachi suonano all’unisono in pieno accordo”.  Ecco, appunto.

Proseguendo, il raccontino “Mollette” che nel workshop di stand up aveva disorientato gli astanti mi ha condotto  ad agosto a Cattolica. Ho vinto 80 euro di libri, un attestato e l’abbonamento alla rivista. Inoltre una signora eccezionale lo ha letto a voce alta a tutto il pubblico del concorso che lo ha pure applaudito.

“Quindi” ha commentato il mio terapista inalberando uno striscione largo settordici metri quadrati con su scritto: -Visto? Te lo avevo detto io!!!- “Pare che non tutti siano d’accordo con quelli della  stand up”.

Quando arriva a casa la rivista con su stampato il  mio “Mollette” scoppio in un sorriso felice. Decido di studiare e mi iscrivo a un corso a soli 78 minuti da casa mia dal titolo: “Inserire un titolo divertente”. Ci arrivo la prima volta in treno. Mi sembra lontano e scopro che il quartiere ha perso l’uso dei marciapiedi, usucapiti dalle macchine. Purtroppo la volta successiva mi metto a fare a gara con Google Maps, impiego un’ora in più a tornare ma ho cambiato sei autobus e preso la pioggia. Opto quindi per la mia Agyla bianca targata Cartagine: mi si scassa il cellulare e  arrivo circumnavigando Roma e  insultando due giovini ricercatori del Gemelli durante una tappa. Dico loro quello che penso del Policlinico ma ciò nonostante, questi ultimi mi indicano la strada giusta. Seduta su uno sgabello intorno a un tavolo basso con altre pochissime persone e nessun maschio, ho capito che ascoltare le storie dei libri è la mia vita. Dei titoli divertenti nessun cenno.

Scopro che “corso monografico” significa stare a sentire due ore una persona che parla dei libri che ha letto lei.

Mi piace tantissimo.

L’ora della terapia è finita.

Quando torno a casa, è passato un anno molto intenso.

Getto la borsa e metto il portatile in carica.

Osservo la tazzina dove avevo sospeso l’ennesimo nocciolo di avocado.

Guardo su internet alla ricerca di istruzioni migliori su come farlo nascere e scopro che il termine avocado deriva dallo spagnolo “aguacate” e ancor prima dal sostantivo originale ahuacat – che significa testicolo, poiché, oltre ad assomigliargli nelle fattezze, nasce e cresce in coppia.

Ah ecco.

Averlo saputo prima.

Quanta fatica mi sarei risparmiata.

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2 commenti »

  1. Stupendo!!!

  2. Originale, divertente, autoironico, ben scritto (rarità!)
    Brava, in bocca al lupo

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