Premio Racconti nella Rete 2024 “Per la gente io sarei il male” di Mario Olivo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Per la gente io sarei il male. Solo perché ho ucciso e non sono pentito. Se lo meritava, punto. E nessuno lo scoprirà mai, non sarà la prigione o la mortificazione della gogna a spingermi a pentirmi. Se mai mi beccassero mi spiacerebbe solo che la gente equivocasse le ragioni, lo scambiasse per un puro delitto passionale, comune e banalotto, io penso che la terra sia più lieve senza di lui e trovo giusto che abbia sofferto almeno un poco: se il mondo non si è reso conto di quanto fosse viscido, allora lui era un ottimo simbolo dell’ingiustizia intrinseca dei rapporti umani, basati sulla nullità dell’irrazionale, sul vuoto di uno sguardo, sulla casualità della chimica. Ho fatto bene a intervenire io per schiacciare la testa del serpente e non mi turba che ora sia rimpianto, presto sarà dimenticato diverrà per tutti il niente che era in vita, ora che ho posto fine alla sua impostura.
In un certo qual modo potremmo dire che il mio crimine è stato pure premeditato. Non che avessi organizzato quell’incontro, è chiaro, però lo avevo sognato ad occhi aperti non so quante volte, così, innescata l’azione, la fantasia ha guidato i miei gesti, e l’ha fatto per bene: mi ero allenato a lungo per ucciderlo e per questo l’ho fatto nel migliore dei modi.
Camminavo per una strada che ho solcato mille volte, la via che si inerpica sopra la collina di B., primo rifugio di natura fuori dalla nostra cittadina, mai deserto, ma mai troppo trafficato, neppure d’estate.
Era uno dei primi giorni di vero sole dopo gli ultimi giorni di vero inverno e la linea dell’orizzonte era morbida, quasi indeterminata nel riverbero tra il cielo e il mare.
Conosco ogni angolo di quel lungo sentiero, non ha l’imprevedibilità del bosco, ma ha una sua limpida calma nelle sue curve e ondulazioni, ai suoi fianchi regala sprazzi coltivati, visioni di mare, boschetti di carrube con il loro strambo odore di vecchio.
Ero in un momento di pausa dal rimestio rabbioso che mi ha accompagnato per quasi due anni, un fiume di pietre taglienti che mi ha assalito ogni giorno, ferendomi sempre con gli stessi ricordi.
Avevo la musica nelle orecchie, non ricordo nemmeno che cosa stessi ascoltando, ma non l’ho sentito arrivare, spiavo una farfalla posata sui petali in carta crespa di un cisto appena schiuso. Muoveva placida le ali, lente come le palpebre di chi si addormenta sereno,quando lui ha fatto irruzione con la stessa volgarità con cui era entrato nella mia vita, nella mia cerchia di amici, nel regno dei miei antichi e nuovi amori.
Era in mountain bike e in quel punto il sentiero era stretto, un misto di terra e ciottoli simile alla schiena di un coccodrillo, avevo iniziato a scansarmi, ma appena ho visto chi era me ne sono vergognato, perché lasciare altra strada alla meschinità? Sono stati momenti convulsi, come un’azione di gioco, eppure credo proprio di essere stato decisivo nell’indirizzare fuori strada la sua frenata ondivaga sullo sterrato, questa volta sono andato contro chi mi voleva investire. È finito poco sotto la strada, nello spiazzo di una fascia abbandonata ma scarna di rovi. Sdraiato a cavalcioni della bici, aveva abbandonato quel suo sguardo animato dal disperato bisogno di piacere che teleguidava ogni sua vacua mossa, per la prima volta dacché io ricordi. L’ultima volta. Il terrore ha svuotato il suo occhio di ogni piacioneria, quando sono piombato con un balzo su di lui non ha avuto il tempo di equivocare. Sarebbe bastato un colpo secco; è stata questione di un attimo, e me lo sono goduto. Ricordo peròche la secrezione appiccicosa che gli colava dal naso mi disturbava più del sangue. L’ho messa a tacere con una pietra larga e affilata come un’amigdala, impugnata a due mani. Dal cranio aperto gli era spuntata una madrepora di quel brutto colore bianchiccio che si può trovare solo dentro il corpo, dove non arriva la luce e non servono i colori; infatti essa subito coprì pudicamente il suo biancore, irrorandosi di rosso vivo.
L’aria usciva incandescente dai polmoni mentre pulivo le mani ferite e insanguinate nell’interno della mia felpa nera, la tensione e la furia avevano accelerato il mio respiro molto più dello sforzo.
Ci ho messo poco a recuperare il fiato, ma mi è parso comunque troppo. Non so perché avevo stabilito che non sarei potuto tornare sulla strada senza un respiro regolare.
I miei pensieri fluivano veloci veloci, soppesavo le opzioni: tornare sui miei passi o proseguire? Intanto camminavo rapido, con chissà quale espressione saturnina; scelsi senza scegliere, come tante volte si fa, e come tante volte scelsi bene solo perché in ogni modo non sarebbe cambiato nulla. Pensavo di tornare indietro, pensavo che avrei dovuto farlo a pezzi e buttare le sue parti in mare. Avrei dovuto fare lo stesso con i miei vestiti. Bene a largo; il porticciolo lo si può raggiungere proprio da questo sentiero, imboccandone un altro più isolato di questo, avrei ripetuto la strada più volte, ogni volta con un pezzo di lui nello zaino che avrei comprato all’ipermercato di C., insieme alla sega e ai sacchi di plastica.
Quante sciocchezze. Il suo corpo lo hanno trovato presto. Una vecchia ha seguito come un indiano le tracce della bici sulla strada polverosa e l’erba piegata a bordo via. Si è accasciata su di lui, ha sverginato la scena del crimine con le sue urla, il suo odore di cellule stanche ma non ancora morte, il contrario di quella carne defunta ma vivida che ha scosso disperata. Ha fatto tutto quello che non bisogna fare. Ha deposto le impronte delle sue mani e marcato i segni delle sue ginocchia fragili sull’erba, ha rimosso la pietra appoggiata al volto sfigurato scagliandola via con ammirabile goffaggine.
È stato un incidente, certo lui non indossava il casco, che impudenza, poverino.
In una cosa ho rispettato il mio farneticante piano, una settimana dopo sono tornato dove tutto era successo e ho raccolto la mia amigdala.
Era ancora lì, ancora segnata del suo sangue e anche del mio; non c’erano altri ricordi della tragedia sul posto, nemmeno un mazzo di fiori sul ciglio della strada, come tante volte si usa.
Ho infilato la pietra nello zaino che ho comprato all’ipermercato di C. e sono andato a prendere la barca. Ho voluto portarmi dietro fino al porto una paura variegata di soddisfazione per la missione in via di compimento, un’ansia quasi piacevole, vista l’improbabilità ad ogni passo ancor più remota di essere sorpreso con quella pietra nello zaino. Che mi sarei inventato allora?
Ho avuto tempo per pensarci, lungo la via non ho incontrato anima viva. Eppure era una bella giornata, la primavera stentava ancora a schiudersi, due sere prima aveva anche piovuto e io nel letto avevo pensato alla pietra umida sotto le frasche, piccola grande firma di ciò che ho fatto.
È scesa a fondo tagliando dolcemente il mare morbido sino a raggiungere il fondale. Ha rotto il pelo dell’acqua che ha risposto sbuffando e si è separata dal mondo avvolgendosi nel silenzio.
Non sono sicuro del perché lo abbia fatto, ma lo ho voluto fare. Certo ho rimosso l’ultima prova, ma chi l’avrebbe analizzata mai? Volevo forse essere scoperto? In effetti ho indugiato un poco nella fascia, qualcuno avrebbe potuto vedermi. Lì sì che avrei potuto compromettermi. Si torna sempre sul luogo del delitto, non è vero? E si va sempre al funerale della vittima. Ma a quello io non ci sono andato. Qualche amico perbene ha storto il naso, ma i più hanno apprezzato la mia coerenza nel non andare a riverire chi non sopportavo. No, quello della pietra è stato più che altro un rito: il mio segreto riposa nel fondo del mare, e chi aveva svilito la mia vita non attraversa più le mie strade.
Forse un giorno qualche rete a strascico dragherà quell’amigdala e la riporterà a lambire l’aria, ma io devo confessare a me stesso che sono sereno. Ero marcio di rabbia, ora sono più buono. Del mio cuore non restavano che brandelli secchi, appesi nel torace come le bucce di frutti spolpati dai topi ancora sui rami, ora la voglia di amare torna a gonfiarmi il petto. È questa l’anticamera del pentimento, oppure è il premio per aver fatto quel che dovevo, riprendendo il mio posto nel mondo da cui ero stato spinto via?
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Complimenti Mario, racconto disturbante e delirante. Bravo !