Premio Racconti nella Rete 2024 “La gabbia del pastore” di Roberto Di Salvo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Beniamino perdonami, scrivo non proprio della vita che hai vissuto, se non nel suo tratto fondamentale, ma ti do questa vita, che nasce più che altro dalla mia immaginazione, che è il solo modo in cui sono capace di condividere la tua sofferenza, in cui mi sento a te fratello. Dolorosamente fratello, e con te orfano sempre più d’una irriconoscibile giustizia.
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Vennero a prenderselo una mattina presto. Vennero a prenderselo tra le sue capre. Appoggiato a una grossa pietra, un filo d’erba tra i denti, che mordicchiava, il berretto a tre quarti e il viso cotto dal sole. Nel cuore i suoi ventisei anni e progetti semplici, ché il primo l’aveva già realizzato, con un piccolo aiuto della mamma. Per fare i soldi necessari all’acquisto di quei pochi capi di bestiame tutto s’erano venduto, anche e con gran dolore la fede d’oro del padre che l’anno precedente li aveva lasciati con il denaro appena sufficiente per la campata del mese corrente e nuove pesanti responsabilità. Se l’era portato via un colpo di kannetta, in pieno petto, che lui al fucile puntatogli contro non aveva certo mostrato la schiena.
E così Beniamino e sua mamma Bonaria (un nome che era pure un presagio) capirono che ormai dovevano fare tutto da soli. E l’uomo di casa s’avviò per l’unica strada che conosceva, quella che già da più di dieci anni percorreva con il suo papà e le pecore di compare Bastianu, perché il suo papà dinàri per comprare bestie mai ne aveva avuti.
Beniamino ne aveva battuta di strada dal giorno in cui Zusepe, suo papà, gli aveva detto “Sèndu cun custa iscola. Non ti sirvat pro magnare.” Basta con la scuola, che non ti darà mica da mangiare.
E ora aveva poche capre, ma gli davano latte, formaggio e lana. E qualcosa poteva anche scambiarla in paese. Al prezzo della sua ignoranza, lui che tra ritiro anticipato e bocciature non aveva raggiunto nemmeno la soglia della scuola dell’obbligo.
Zusepe aveva riso, a sentire questo termine.
“Obbligu? S’obligu de murirsi de fami!”
Davanti a lui si sono parati due carabinieri in uniforme, con tanto di sciabole. Ma le mani stanno sulle fondine delle pistole.
“Cosa volitis de mè?”
“Seguici Beniamino!”
“Ecco che pago la mia ignoranza”, pensa il pastore… “L’ignoranza non dà diritto a spiegazioni!”
E così, senza che nessuno gli facesse veramente comprendere, sentendosi risuonare nella testa soltanto “la strage di Sinnai”, quella strage in cui erano stati presi a fucilate ed erano morti tre pastori, i due proprietari di un ovile e il loro dipendente, con nomi che sembravano usciti da un romanzo di Grazia Deledda, così da una cella all’altra delle prigioni dove veniva trasferito, da un Tribunale a una Corte d’Assise (ma che significa? si chiedeva), Beniamino non capiva. Nulla di ciò che gli succedeva intorno e nulla di quello che accadeva nella sua vita.
Ma dal primo giorno della sua reclusione, di mattina al suonare della sirena, gli occhi fissi nella scodella del latte, diceva quotidianamente al suo carceriere la stessa cosa. “Sono innocente”. E beveva il latte, pensando alle sue capre. Tutti i giorni la stessa frase, finché un mattino Bonaria non venne a dirgli che Nerina era morta. La capra che teneva sempre con sé anche in casa, la sua capra nera verzasca, venuta, Dio sa come, dalle Alpi. Lui, credette fosse morta di dolore. E il latte non lo toccò più, che non poteva nemmeno più immaginarsi fosse della sua capra. Ma quella frase la ripeteva. L’ha ripetuta dodicimila volte, in ognuno dei giorni della sua prigione. “Sono innocente”.
Era così che lui sapeva parlare con lo Stato che lo aveva condannato. Era in questo modo che combatteva la sua resistenza. Non piegando la dignità, che lo Stato non s’era potuto prendere.
Trent’anni dopo vennero in parlatorio – il ragazzo di ventisei anni era intanto un uomo di quasi sessant’anni, con le sembianze di vecchio – un avvocato accompagnato da un magistrato. Avevano gli occhi onesti, che si trascinavano il carico pesante d’un’ingiustizia insopportabile anche per loro. E cominciarono a fare domande. Nessuno gliele aveva fatte prima, veramente. Non quelle, quelle giuste, sul buio che c’era nella grotta dove era avvenuto l’omicidio plurimo, sui motivi d’inimicizia verso di lui da parte del teste che l’aveva inchiodato e altre, altre ancora, a srotolare una matassa aggrovigliata solo dall’incuria e dalla sciatteria. E, pensava Beniamino, soprattutto dal fatto che lui era semplicemente un pastore, un pastore sardo, per di più. A cui non si fa credito. Che deve stare sempre a dimostrare, a scusarsi di qualcosa, forse di non essere, soltanto, come gli altri, non abbastanza.
L’ho incontrato l’altro giorno fuori ai cancelli del carcere. Ci siamo abbracciati. Abbiamo pianto. No, Beniamino no, lui non c’è riuscito. “La libertà di oggi non è felicità. È un’ampolla de bida. Capisci? – mi ha detto – Uno scampolo. Solo uno scampolo della vita che mi resta”.
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Complimenti, ho trovato il tuo elaborato (perdonami se mi permetto di darti del tu) molto garbato e pregno di contenuti nascosti per quella che è una vicenda tra le più tristi della storia italica.
In ciò che scrivi si ritrova tutta la dignità di un uomo vittima dell’ignoranza e della superficialità.
Complimenti ancora.
Bel racconto, intenso, gli aspetti umani qui posti in evidenza sono notevoli, sarebbe bello se l’Autore di questo racconto ne facesse una versione più ampia, considerata anche la sua perizia nel dare risalto a momenti di drammatico spessore.
Complimenti. Un racconto bellissimo in cui si evidenzia, in maniera chiara e semplice, che il protagonista è stato “in primis” una vittima innocente della sua famiglia e poi della società. L’ignoranza e l’ingiustizia hanno dominato e segnato i binari della vita di questo povero pastore e sono descritte in questo racconto, con un ritmo del testo tale da farti immaginare le scene, i luoghi e gli stati d’animo.
Uno “scampolo “ intriso di dolente realismo. Bello. Molto.
È un viaggio, questo splendido racconto di Roberto Di Salvo, che porta il lettore a riflettere su una vicenda umana molto dura, su come un errore giudiziario possa distruggere la vita di un uomo, calpestarne la dignità e sottoporlo ad una sofferenza lacerante lungo il corso dei suoi anni vissuti nella “gabbia” di un carcere.
È una narrazione che fa vibrare le corde dei sentimenti umani, attraverso il potere della parola narrante che lo scrittore orchestra magistralmente armonizzandone suoni, colori, immagini ed esaltandola nel messaggio finale:
“La libertà (quando raggiunta), non sarà felicità ma solo uno scampolo della vita che gli resta.
È un viaggio, questo splendido racconto di Roberto Di Salvo, che porta il lettore a riflettere su una vicenda umana molto dura, su come un errore giudiziario possa distruggere la vita di un uomo, calpestarne la dignità e sottoporlo ad una sofferenza lacerante lungo il corso dei suoi anni vissuti nella “gabbia” di un carcere.
È una narrazione che fa vibrare le corde dei sentimenti umani, attraverso il potere della parola narrante che lo scrittore orchestra magistralmente armonizzandone suoni, colori, immagini ed esaltandola nel messaggio finale:
“La libertà (quando raggiunta), non sarà felicità ma solo uno scampolo della vita che gli resta”.
Racconto veramente emozionante! Complimenti!!!!