Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2024 “Rinuccia” di Stefania Pontieri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Fu un’estate felice, abitavamo a Campora San Giovanni in fondo al corso, in un appartamento spazioso dai mobili vecchi e i pavimenti consunti. Ricordo che mi vennero i pidocchi. Mia madre mi pettinava accuratamente con un pettinino a denti stretti, effettuando meticolosamente un’operazione dolorosissima. Diceva che li avevo presi nella piscina di Duna Verde, in Veneto, dove trascorrevamo sempre il mese di luglio: me li avevano passati i bambini del circo che venivano a fare il bagno di nascosto la sera. Ricordo che per vedere meglio le piccole uova ci mettevamo davanti alla finestra inondata di luce, ma io mi vergognavo tremendamente, temevo che mi scorgessero da fuori, soprattutto mi preoccupavo che mi vedesse Rinuccia, la figlia del proprietario. 

Era il 1982, quell’estate, a luglio, l’Italia aveva vinto i mondiali. Conoscevo la squadra della nazionale a memoria e il mio giocatore preferito era Cabrini, che, come un principe delle fiabe, popolava i miei sogni di bambina. Mai più nella vita ho conosciuto la formazione di una squadra, il calcio non mi ha mai entusiasmato, ma quell’estate papà, zio Fernando, mio fratello e i cugini parlavano del pallone con foga e passione ed io, che ne seguivo i ragionamenti sulle strategie e sulle tecniche di gioco, finii per restarne affascinata. Durante la partita Italia- Brasile mio padre, tifosissimo e appassionato di calcio, era talmente teso che non resse all’emozione e passeggiò nel giardino della villetta di Duna Verde per l’ultimo quarto d’ora. Capì che avevamo vinto solo dal clamore che si levò come un boato dalle case e dai bar in fondo al viale. Dopo quel luglio luminoso in Veneto, partimmo come ogni anno per la Calabria, una breve sosta alla casa di Napoli per spezzare il viaggio e poi a Campora. 

Nella primavera precedente eravamo andati a fare una veloce perlustrazione della zona per scegliere la casa da affittare. Ne avevamo trovata una che affacciava direttamente sulla strada, una catapecchia con fuori un piccolo recinto con una capra che io sognai di portare al pascolo. Quando il primo agosto arrivammo a Campora fui molto delusa, avevo sognato la mia capretta per più di tre mesi ed invece la casa che papà alla fine aveva deciso di affittare sembrava quasi una casa cittadina, con i divani marroni di pelle e i pensili della cucina lucidi color caffè.

La mattina mi svegliavo sempre presto, mia madre mi portava la tazza di caffellatte che io odiavo, mi costringeva a bere fino in fondo e talvolta mi domandava a bassa voce, con occhi luccicanti: ci vuoi inzuppare un po’ di pane? Io detestavo il caffellatte e il solo pensiero di inzupparci il pane mi faceva orrore. Rifiutavo decisamente e scappavo. Lei diceva che col latte sarei diventata alta, come mia cugina Sissi, che si chiamava come la principessa e beveva il latte anche a tavola, al posto dell’acqua. Qualsiasi cosa mangiasse, Sissi beveva latte bianco, anche con la bistecca, i ceci o la pizza e questo piaceva molto a mia madre. “Così è diventata alta Sissi!”, ripeteva mamma quando scappavo. 

Verso le undici andavamo al mare, sulla spiaggia del Maris o quella del Savuto.  A me e a papà piaceva quella del Savuto, così bianca e deserta, coi sassolini più piccoli e il fiume che sfociava lento e sonnacchioso nel mare. Sugli isolotti che si formavano alla foce c’erano le rane e il fondo era liscio e colloso. Risalivamo la corrente fino a un certo punto e poi ci lasciavamo scivolare sul materassino rosso e blu, remando con le braccia raggiungevamo gli isolotti e giocavamo ai naufraghi. Lungo le sponde, la superficie della sabbia era croccante e si frantumava in scaglie sottili, l’acqua era torbida, ma a me piaceva: mi sembrava di navigare sul Nilo, immaginavo coccodrilli affiorare, e ibis. Al Savuto portavamo l’ombrellone, i panini, la borsa termica con l’acqua e il succo di frutta alla pera. A volte eravamo solo noi, padroni della spiaggia, e, di fronte, il mare sconfinato e azzurro, subito profondo come un’immensa piscina. Il mare di Calabria dove ho imparato a nuotare. 

Mio padre aveva i capelli biondi e gli occhi grandi e celesti, che a tratti rivolgeva lontano, sorridendo, forse pensava all’infanzia, a quando andava a cogliere i fichi tra le colline di Nocera e passavano gli aerei degli americani e lo zio Veronico gli gridava di nascondersi, che con quei capelli l’avrebbero preso per un tedesco e gli avrebbero sparato.  Un ragazzo sereno, con il volto buono e le spalle larghe. Oggi ho più anni di quelli che lui aveva quando giocavamo alle zattere sul Savuto, ed è un pensiero tenero e struggente quello di papà così giovane e di me adesso, più vecchia di lui.

Mio fratello e mia sorella preferivano la spiaggia del Maris, dove c’erano Rita e Franca, le cugine dei miei cugini grandi, nostre coetanee. Rita e Franca portavano sempre le trecce, che la madre arrotolava come due girelle sulle tempie, e il pomeriggio dovevano per forza tornare a casa a dormire, al buio, col pigiama. Al Maris c’era il bar e qualche ombrellone in più, ma quasi tutti tornavano a casa a pranzo, tranne noi.  

La sera andavamo al Pergolato a mangiare la pizza. Era una pizza deliziosa e profumata che per me sapeva di Calabria, cotta nel forno a legna, sottile e croccante, molto diversa da quella napoletana. Prima di cena passavamo sempre al Pizzicarulo, dove c’era la villa dei Mancuso, i cugini di mio padre, con il giardino di ghiaia e di ulivi e il panorama del mare in lontananza. Si sentivano i grilli frinire al crepuscolo e l’abbaiare lontano di cani e mamma portava sempre lo scialle traforato di lana bianca che le aveva fatto la nonna Margherita, perché faceva freschetto.  

Quell’anno la casa paterna di Nocera l’aveva rilevata mio zio Mauro, il più ricco dei tre fratelli,   padre dei cugini grandi, ed era in ristrutturazione, ecco perché avevamo affittato la casa di Campora. A me sarebbe piaciuto di più stare a Nocera tutti insieme, con i cugini, a giocare come i pazzi nella calura del primo pomeriggio, ad acchiappar mosche nella grande cucina che odorava di gas e frutta cotta e a raccontarci le storie di fantasmi fino a tarda sera, morendo di paura quando andavamo nel bagno piccolo che era in fondo al corridoio, quello che toccando l’acqua del rubinetto sentivi la corrente. Peccato – mi dicevo- era bello travestirsi da principesse coi vestiti delle mamme, Sissi ed io, e ridere a crepapelle quando mio fratello Nicola e il fratello di Sissi, Emilio, si appendevano alle tende di zia Concetta per fare Tarzan. 

La casa di Campora mi sembrava così fredda, invece, e poi Sissi ed Emilio erano lontani. Anche loro avevano affittato una casa: era una vecchia casupola sulla strada del Pizzicarulo, coi pavimenti ondulati e sconnessi, ma al papà di Sissi, zio Fernando, piaceva tanto perché era antica, e fuori aveva un piccolo orto, poi la notte si sentivano i grilli e la mattina le cicale e tutt’intorno c’erano ulivi a perdita d’occhio e alberi di fichi. Mamma la chiamava la casa dell’Abate Faria, perché il proprietario era un signore anziano dalla lunga barba, con un cappello a falde larghe e gli abiti sgualciti, e le ricordava il personaggio del romanzo di Dumas.

Una notte zia Lidia, la mamma di Sissi, mettendo una mano sotto il cuscino, mentre si rigirava nel letto, sentì qualcosa di morbido e caldo sotto le dita: era un topolino di campagna. Da quel giorno lei e zio Fernando litigarono ogni giorno. Zia Lidia era di Treviso, era abituata ai negozi lussuosi del centro e ai palazzi eleganti che affacciavano sul Sile e non voleva saperne di casupole, topi e ruderi. Fu l’ultimo anno che trascorsero insieme in Calabria. 

Ma quell’estate io non lo sapevo, ignoravo che la vita un giorno ci avrebbe divisi tutti, persino i miei fratelli e me e quei miei amati cugini e la sabbia del Savuto e papà, che se ne sarebbe andato via per primo, da solo, chiudendo le palpebre sui suoi ricordi di ragazzino che resteranno per me sempre un mistero e un sogno. 

Continuarono i giochi, le giornate uguali, il mare. Una mattina a Campora suonarono alla porta.  Mamma mi mandò ad aprire, era Rinuccia. 

Rinuccia era una bambina dai capelli castani ricci e corti e gli occhi neri e vispi, la pelle chiarissima e delicata e la corporatura morbida. Aveva con sé un piccolo pacchetto fatto di fogli di giornale:

– Queste ve le manda mamma.

– Grazie- risposi.

– Ciao- mi salutò lei, lasciandomi tra le mani l’involto.

– Ciao!-  risposi io. Sparì veloce per le scale ed io rientrai in casa.

-Chi era?- chiese mamma. 

– La figlia della proprietaria, quella bambina. Ha portato un pacchetto.

Mamma mi disse di aprirlo. Erano sei uova. Le toccai, erano tiepide! Quella sera mangiammo le ovette fresche di Rinuccia, ancora tiepide di gallina, e da quel giorno Rinuccia ed io diventammo inseparabili. 

Rinuccia aveva undici anni e io dieci. Lei sapeva fare cose che a me, bambina di città, erano sconosciute, come spazzare nell’aia con disinvoltura, sollevare le galline per prendere le uova, cogliere i pomodori e i peperoni rossi nell’orto, accarezzare i conigli, e poi era più grande di me di un anno, e questo mi piaceva. Mi piaceva andare giù da Rinuccia perché le cose che per lei erano normali per me erano avventure sempre nuove.  La mattina, prima di andare al mare, scendevo al piano di sotto e davamo da mangiare ai maiali, alle galline e ai conigli, lei doveva sempre svolgere qualche lavoro domestico, finire di rassettare la cucina, andare a cogliere qualche ortaggio per la mamma e ogni tanto mi porgeva una prugna o una pesca, dicendo: “mangia, è buona!”. Io la seguivo masticando e la guardavo muoversi con sicurezza in quel suo piccolo mondo di cui mi pareva la regina. A volte le chiedevo di venire con noi al mare, ma rispondeva sempre che aveva da fare, ci sarebbe andata più tardi, lì vicino. Io le credevo, perché la spiaggia era vicinissima alla casa, al di là della campagna, oltre l’orto e le gabbie dei conigli, dove la vegetazione si faceva sempre più rada e lasciava il posto ai cardi e alle erbe secche, ma non capivo perché Rinuccia, al contrario di me che ero abbronzata, avesse la pelle sempre di un candore latteo; soprattutto il collo, era bianchissimo. Zio Fernando diceva: “Questa è gente che nemmeno lo sa che cos’è il mare”. E infatti un giorno sentii le nostre mamme che chiacchieravano e mamma invitò Rinuccia al mare con noi.  La mamma di Rinuccia rise e rispose:

– Per carità signò, quella affoga. 

Scoprii così che Rinuccia, pur abitando a pochi metri dal mare, non sapeva nuotare.

 La mia vita a Campora era divisa in due, la mattina con Rinuccia e il pomeriggio e la sera con Sissi. Sissi sfogliava continuamente riviste di moda, parlava di vestiti e di rossetti, sognava di diventare una stilista. Anche Sissi aveva un anno più di me ed era molto alta, forse perché beveva tanto latte, non ricordo di averla vista mai con un bicchiere d’acqua in mano, neanche nelle giornate più calde, per dissetarsi. A volte anch’io la imitavo e bevevo latte bianco e parlavo di moda e di modelle, di attrici e attori, dimenticavo le mattinate con Rinuccia e mi immergevo nelle riviste di Sissi e nei miei libri e, ahimè, nei compiti per le vacanze, che ricordo copiosi e insensati e che svolgevo svogliatamente e nel peggior modo possibile. Rinuccia invece non doveva fare compiti e non le piaceva leggere, quando si parlava della scuola cambiava sempre argomento e mi portava nell’orto o alla gabbia dei conigli, e li nominava uno per uno.  Poi quando entravo in macchina per andare al mare o a cena fuori, la salutavo in fretta e la guardavo rimpicciolirsi nel lunotto. Lei mi salutava e restava lì ferma, o sedeva su un piccolo sgabello fuori casa, dondolando le gambe e dando calci alle pietruzze dello sterrato.

Alla fine di agosto ci promettemmo che ci saremmo scambiate lettere e che l’anno dopo ci saremmo riviste, che lei durante l’anno sarebbe venuta a Napoli a trovarmi ed io a Campora a Pasqua, e poi sarebbe tornata di nuovo l’estate e saremmo state ancora sempre insieme. A fine settembre le scrissi una lettera e lei mi rispose, io le risposi ancora, poi più nulla.

 Quando un’estate, dopo più di trent’anni, tornai a Campora con mio marito e le mie figlie, di ritorno da un viaggio in Sicilia, lessi sul cartello “Campora San Giovanni”, ma nulla assomigliava più al paese di quell’estate di bambina: case su case, insegne al neon, negozi e supermercati. Non riconobbi niente, né il bivio, né il corso, né quella casa, forse inghiottita da altro. Il Maris era sempre lì, ma ci avevano costruito la piscina e il lido aveva tante file di ombrelloni.  La spiaggia del Savuto, erosa dal mare, non era più quell’immensa distesa deserta su cui lungamente camminavamo prima di raggiungere l’azzurro dell’acqua, ma una striscia di sabbia abbandonata e sporca, popolata da esseri grotteschi. Il fiume un sottile scuro rigagnolo, una fogna a cielo aperto.  Niente era simile ai miei ricordi, come se nulla fosse mai stato vero: il tempo aveva spento le cose e una patina di grigiore e di bruttezza si era adagiata sul mondo.

Accaldati e stanchi, dopo il lungo viaggio da Reggio Calabria, ci fermammo poco dopo l’entrata del paese, ad un bar poco distante dalla spiaggia, per comprare dell’acqua. Dietro il banco c’era un omone sulla cinquantina con un vassoio tra le mani e, seduta, una ragazzina pallida e tonda, dai capelli castani e ricci, con una penna in mano e un libro aperto sotto lo sguardo vuoto, perso nel cellulare. L’omone stava portando delle bibite a un tavolino. Gli chiesi due bottiglie d’acqua, mi rispose: 

– Subito signò, un attimo che chiamo mia moglie. 

E gridò: 

– Rinù, Rinù! Vieni, che c’è una signora che vuole due bottiglie d’acqua!. 

Così la vidi, Rinuccia, la mia amica. Arrivò tutta sudata, con due bottiglie di plastica da un litro e mezzo. Era lei.

– Sono quattro euro. 

Il viso appesantito dall’età, gli occhi neri, ancora vispi ma più stanchi, il sorriso aperto: era proprio lei. Le porsi le monete: 

– Grazie – dissi. 

– Grazie a lei, arrivederci – rispose distrattamente 

Il cuore nel petto ebbe un sussulto. Per un istante pensai di chiamarla per nome, di chiederle se ricordasse, se abitasse ancora in quella casa, come fosse stata la sua vita, ma la voce si bloccò in gola e non dissi nulla. Che senso avrebbe avuto? 

Arrivederci- dissi. 

Stavo per voltarmi, quando il mio sguardo si posò sul suo collo: era candido, come quando aveva undici anni. 

Fu allora che seppi. Seppi che mentre la vita passava su di noi, su Campora e Nocera, sul Pizzicarulo e sul Maris e sulla spiaggia del Savuto, su papà e mamma, i fratelli e i cugini, in tutto quel tempo in cui le nostre vite si erano perse ed erano state travolte dagli eventi e noi eravamo diventati sfocato ricordo, chi nella morte chi nella vita, la bianca Rinuccia era stata sempre lì, a pochi metri da quella casa, su quella spiaggia ormai inghiottita dal cemento, a testimoniare con la sua sola esistenza che anche noi eravamo esistiti. 

Rinuccia dai capelli ricci e la pelle di latte. Rinuccia che non conosceva il mare.

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