Premio Racconti nella Rete 2024 “Il ramarro” di Simone Colombo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Il tepore del calore risaliva lungo l’erba secca, forse l’aria ondeggiava nel tentativo di rinfrescarsi, forse lo faceva perché felice di quel Sole così cocente. All’aria è sempre piaciuta l’estate ed anche a Gilberto. Il giardino tendeva ad imbrunirsi, l’erba a impigrirsi e l’acqua ad alleggerirsi. Quel giallo-bruno si traduceva nella fatica degli alberi, dei fiori, dei piccoli animali che correvano tra le siepi chiare, tra i ciottoli bollenti e le lastre di pietre impilate, in attesa di sistemazione.
Gilberto nella casa in campagna si sveglia presto, quando la natura sembra ancora poter respirare, ed osserva il cambiamento di quel giardino che percepisce, in ogni istante, come il proprio piccolo mondo. Quando il ramarro con gli occhi spalancati riposa sul morbidissimo letto di aghi di pino marroni, Gilberto era già lì, sveglio ad osservarlo. Pensare che un tempo ne aveva paura, ricordava spesso la prima volta in cui lo vide, era certo che quello che ancora oggi guardava, fosse lo stesso di quando aveva otto anni.
Il padre di Gilberto parlava sovente di questo essere verdastro a Franca, sua moglie, perché ne era intimorito. Delio, grande studioso e avvocato, non era avvezzo a quella vita di campagna ma amava troppo Franca per non accettare di andare a vivere da lei quando si sposarono. Franca non aveva una grande tenuta, non era ricca, non aveva animali, non amava il lusso, non aveva grandi campi: gli piaceva l’intimità della campagna, quei suoi colori così variabili di stagione in stagione; amava il fatto che potesse riconoscerci il rigido passare del tempo. Delio amava il lusso, anche se nato povero divenne ricco grazie alle proprie grandi amicizie. Erano diversi e lo erano molto. Franca doveva salvarlo dai ramarri, doveva rincuorarlo, dargli buone ragioni affinché non volesse alcun animale morto; Franca amava gli animali a tal punto da non averne mai voluti possedere.
Gilberto era, dunque, figlio della campagna, eppure, figlio della città. Viveva in lui l’ambiguità del ramarro al di sotto del pino: posto in bella vista come se quell’albero fosse la propria tana, ma sempre veglio ad osservarsi attorno, come impaurito. Gilberto aveva smesso di aver paura dei ramarri immediatamente la prima volta che lo vide.
Prima di allora Delio provava a descriverglieli tendando di spaventarlo: «sono lunghi, verdi brillanti e viscidi! Eccome se sono viscidi! Hanno delle unghie pazzesche, guarda… per quanto mi riguarda dovrebbero morire tutti. Sono sempre lì a guardarsi intorno, fermi, ma in realtà stanno solo pensando a cosa farti. Nemmeno loro sanno cosa farti, ed è questo che li rende ancora peggiori» e la madre prontamente rispondeva, avviando quelle discussioni complicate che portano a tutt’altro, senza un fine: «Delio!» iniziava Franca, «Perché devi far così paura a Gilberto?». Lo diceva con un tono pieno di sottintesi, sapiente della doppia vitalità di Gilberto, sperando che non avesse davvero paura, che fosse un campagnolo come lei.
«Se ha paura, fa bene! Così starà lontano da tutte quelle bestiacce che saltano in giardino» e proseguiva poi guardando Gilberto: «Hai già finito i compiti?».
Gilberto non rispondeva mai, faceva un cenno con la testa e poi guardava sua madre, sapeva che da lì a poco avrebbe detto qualcosa. Franca era in piedi, ai fornelli, con un turbante di asciugamani sulla testa per far sì che l’umidità facesse attecchire l’hennè mentre preparava il pranzo: pasta al pomodoro, zucchine saltate con l’aglio e pollo con le mandorle; l’odore delle spezie giunte direttamente dall’orto e da lei raccolte era fortissimo, troppo forte perché non dicesse niente a Delio.
«Dai Delio, lascia stare! Li farà i compiti, lascia che vada in giardino, magari vede anche quel bel ramar…». La interruppe: «Non scherzare Franca! Gilberto non giocherà con i ramarri, figurati! Avrà pure otto anni ma è un piccolo avvocato».
Gilberto sentiva queste leggere discussioni continuamente, senza metter bocca, solamente osservando e cercando di imparare da uno e dall’altro, eppure, nonostante la cura della madre, Gilberto non riusciva a non percepire paura e ribrezzo per quel viscido ramarro verde brillante descrittogli dal padre, ancora mai visto.
Forse non aveva paura del ramarro, forse aveva paura che quella famiglia così strana, così diversa, così opposta nascondesse delle fragilità più profonde rispetto all’amore o al disprezzo per gli animali del giardino. Forse pensava che lui stesso non sarebbe mai stato amato a fondo da entrambi, avrebbe dovuto scegliere tra l’orto e una cattedra, tra lo sterrato e l’asfalto, tra il verde e il grigio.
Quello che avvenne, però, fu l’incontro tra Gilberto ed il ramarro. Era pomeriggio, il Sole estivo non era più in forze, le nuvole sembravano volersi divertire quando Gilberto scelse di scendere in giardino a giocare a pallone. Solitamente prendeva la palla umidiccia tra le mani, guardava il melo ed il ciliegio per organizzare sia il proprio campo da calcio, sia gli avversari; costruiva attorno a sé un intero stadio vuoto di persone, pieno di rosmarino e di mucche del vicino. Anche quel giorno Gilberto poggiò la palla nel solito punto, dove ormai un solco di terra bruciata non lasciava più crescere l’erba, proseguì indietreggiando, prestando attenzione al formicaio da poco formatosi e, presa la rincorsa, calciò tra i due alberi da frutto. La palla volò lontana, vicino al pino, al limite del giardino. Era goal.
Gilberto corse a riprendere la palla fendendo l’aria calda, giunse al pino e lo vide. Vide l’essere che avrebbe salutato da quel giorno in avanti, quell’essere di cui avrebbe scritto nei suoi studi, quell’essere a cui sembrava così simile. Gilberto guardava il ramarro ed il ramarro, immobile, guardava Gilberto; i due si stavano parlando, stavano conoscendo l’infinito, stavano salvando il mondo. Con lo sguardo immobile sugli occhi del ramarro, Gilberto analizzò il corpo dell’animale con la coda dell’occhio: non era verde brillante, ma era verde, blu, arancione, era ciò che voleva; non stava cercando di colpirlo, aveva paura esattamente come lui. D’un tratto il ramarro fece un piccolo movimento, sembrava volesse ritrarsi o, forse, voleva solo guardare meglio quell’umano così immobile e silenzioso, cercava di guadagnare una posizione migliore. Gilberto, al movimento del suo amico, rimase immobile: vedeva perfettamente.
I due si conobbero, si riconobbero, ed ogni mattina Gilberto, nei momenti dell’anno in cui si trova nella sua vecchia casa in campagna, si sveglia presto, quando ancora il ramarro con gli occhi spalancati riposa sul morbidissimo letto di aghi di pino marroni.
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