Premio Racconti nella Rete 2024 “L’ombra” di Ottaviano Curzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024«C’è chi dice che il blu sia il colore dell’anima.
Il blu è pace, calma, profondità marina.
Ho sempre conosciuto anime scure.
L’amore l’ho vissuto una volta e non l’ho dimenticato, eravamo giovani, due ragazzi pronti ad affacciarsi sulla maturità, un garzone da bottega e la figlia di un funzionario, innamorati contro il volere di tutti, non si poteva fare, non era consono alla morale comune, una vergogna sociale.
L’amore purtroppo non accetta regole o convenzioni, arriva con il suo carico di tormento pronto a deflagrare nell’animo di chi lo impatta, lo porta in alto riempendolo di sorrisi, ti sembra di essere leggero, tutto assume colori vividi, ti crescono dentro germogli di eternità, non ti importa cosa provocheranno, stai bene ed è l’unica cosa che ritieni importante.
Era la sera della festa del patrono.
Tutto procedeva con stanchezza, le autorità vestite con abiti da cerimonia compivano ampi gesti per divenire più grandi agli occhi degli astanti, sul palco l’orchestra suonava con voglia incitando un pubblico di ballerini poco incline alla partecipazione, solo i bambini parevano godere realmente del momento gettandosi in giravolte degne dei migliori Dervisci.
Ci guardavamo da distante e quando l’atmosfera si fece calda scappammo approfittando della confusione generale per incontrarci in un parco ed appartarci sull’erba.
Certi di non essere visti cominciammo ad unirci al ritmo di valzer e mazurche, incuranti del mondo fremevamo nella passione di un amore adolescenziale, tanto forte quanto immaturo per queste mie mani poco inclini alla gentilezza, avide di carezze, capaci di lasciarle segni sui seni.
Durante il tempo dell’amplesso qualcuno gridò: “bastardo sei morto”.
Fece seguito un bagliore metallico.
L’istinto mi gettò di lato lasciando una pioggia di sangue schizzarmi il viso.
Quando il padre si rese conto di aver colpito a morte la figlia si accasciò al suolo, sentii il tonfo delle sue ginocchia sull’erba, lei con quel poco di voce che le rimase mi guardò “ti amo mon petit chou”, la riempii di baci in un misto di lacrime e saliva, ed intanto ascoltavo il battito diminuire, il fiato divenire un filo pendente.
Completamente avvolto nella bolla di dolore mi girai ed il padre giaceva riverso sull’erba con un buco nella tempia.
La rabbia si impossessò di me, massacrai il corpo inerte dell’uomo con quel fucile che in pochi minuti aveva portato due anime al creatore.
Ansimante e tremante mi accasciai al suolo, compresi che per chiunque il colpevole sarei stato io.
Scappai, cosa altro avrei potuto fare.
Un uomo in fuga è un uomo solo, spazzatura per la comunità che lo ha allevato, nessuna possibilità di redenzione, un mostro da dare in pasto alla stampa locale per far si che le coscienze altrui possano risvegliarsi immacolate di verginità intellettuale, il nostro amore era uno scandolo, lo scandalo era giunto a conclusione.
Attraversai le montagne per ritrovami lontano chilometri dal mio luogo di nascita.
Sconosciuto in una città straniera trovai lavoro come vestitore di morti.
Passavo le giornate in una stanza spoglia appena sotto il livello della strada, da una finestrella a vasistas intravedevo il camminare delle persone.
Il ciancicare dei passi era una buona compagnia.
Sapevo restare in silenzio ed aspettare i suoni provenienti dal marciapiede, mi sembrava di poter indossare i panni dei passanti, a volte mi parevano stretti così, un po’ in confusione, immaginavo i loro corpi caldi di sangue vivo, promettevo di proteggerli dal dolore se si fossero fermati, ma nessuno restava, nessuno sapeva che ero li, passavano via.
Non mi sono mai sentito tanto solo come in quel periodo, assorbivo il gelo da cui ero contornato.
Divenni abile nell’arte della tanatoestetica, dovevo ripulire le mani dai colpi sferrati verso un corpo morto giacente a terra, mi prodigavo in cure minuziose, non conoscevo nessuno di loro eppure erano i miei migliori amici, compagni silenziosi del mio vivere.
Raccontavo loro storie di vita inventata.
Narravo finte notti di passione con il mio amore, di come la bellezza aumentasse con il crescere delle rughe, con la comparsa della cellulite perché la meraviglia, quella vera, nasce dalle imperfezioni che sanno rendere unico il sentimento, unico ed irripetibile.
Non si può amare la perfezione standardizzata, è tempo perso.
Si amano gli odori, i gesti, i suoni.
Ma soprattutto si amano i ricordi dei momenti vissuti insieme.
Ad ascoltarmi ragazzo potresti pensarmi come una vittima di eventi avversi, invece devi sapere che sono un carnefice, uno dei peggiori, un uomo scuro privo di morale, ascoltami.
Correva una serata di pioggia battente, una di quelle serate in cui l’animo è basso, pesante, la luce andava e veniva.
Mi portarono un cadavere morto da poco, era stato ritrovato da una guardia di ronda notturna al margine di una strada.
Un corpo accasciato invisibile al mondo, fradicio, senza un nome, un documento, o qualcosa che potesse indicare chi ne fosse il proprietario.
Non so dirti di cosa morì, presumibilmente un malore improvviso, o forse di stenti, di freddo o di pioggia se di pioggia si può morire.
Nessuno lo aveva reclamato, che fine indecorosa.
Ma ciò che di lì a poco, a causa mia, accadde a quel corpo fu ancora peggio.
Venne riposto con poco garbo sul tavolaccio freddo sul quale ero solito preparare i morti, nemmeno un saluto e chi lo portò girò il culo per andarsene con una sigaretta tra le labbra, trattato alla strenua di un pacco, consegnato ed addio.
Rimanemmo soli.
Sollevai il lenzuolo pesante di acqua, lo riposi a terra e mi misi ad asciugare la pelle di quella che fu una bellissima donna, le pettinai i lunghi capelli, più la guardavo più ne percepivo lo splendore, mi ricordava il mio amore, mossi la bocca per crearle un sorriso, con delicatezza le passai un panno su gambe e seni rendendola pronta al trattamento.
In testa iniziò a suonarmi la Passacaglia di Handel, le mani cominciarono a muoversi fluide, facevo vibrare le dita come se stessero illuminando i tasti di un pianoforte, disegnavo armonie di colori con grazia leggera, le dipinsi una anima nuova rendendola nuovamente bellissima.
I gesti sembravano creare il movimento di una danza.
Quella era la mia notte.
Ero ebbro ed eccitato, percepivo il gonfiore tra le gambe crescere ad ogni tocco, così mi acquattai come un gatto fino a scivolarle leggero lungo le cosce, librai il mio bacino in alto ed in basso, ripetutamente, le labbra appoggiate sul collo e le mani ad afferrarle le natiche.
Fui pervaso da un istinto basso.
Il rumore della pioggia mi riportò alla realtà e la ragione mi costrinse a capire che avevo violato l’intimità di un cadavere lasciato tra le mie mani tornate luride, una donna alla cui bellezza avevo reso nuovamente giustizia, una donna sconosciuta al mondo, una donna senza identità, una donna da me stuprata.
Riesci ad immaginare qualcosa di più vile?
Io no, non ci riesco.
Restai lì ancora qualche giorno ma ciò che avevo fatto mi martellava in testa come un tumore, maligno assorbiva ogni energia, fuggii.
Girai mesi dormendo dove capitava, mangiando i rifiuti della gente elegante, alla fine svenni non mi ricordo nemmeno dove.
Mi risvegliai in questo posto, il proprietario del Luna Park mi aveva trovato e portato qui e qui sono rimasto senza che nessuno mi abbia mai chiesto come o perché.
Spesso mi chiedo quanto male ho fatto e se nel giorno del giudizio la bilancia peserà dalla mia parte.
Se Dio o chi per lui avrà pietà per la mia consapevolezza, aspetto solo l’ora dell’addio.
La notte, nel silenzio di questa stanza, chiudo gli occhi per sentire una orchestra di lucciole, in lontananza percepisco gli echi della città che mi ha dato l’amore, le voci sovrapposte tra i calici dei bar, vedovo senza essere sposato e lei che torna a lenire la mia pena accompagnata dalle anime dei morti che ho vestito, ed allora apro gli occhi e piango, non per la tristezza ma per l’innocenza.
Le anime dei morti sono innocenti, come i neonati, per questo salgono in cielo, il corpo è pesante di peccato infatti marcisce mangiato dai vermi.
Ma ciò che penso non ha importanza, non interessa a nessuno, mi sento fratello della solitudine così mi accascio alla scrivania e scrivo lettere d’amore : “Come stai in mezzo a tutto questo silenzio, come va, come ti trovi, cosa fai.
Ti ricordi ancora di me, delle mie abitudini che per un po’ furono anche le tue, chi c’è nella tua testa, chi odora i tuoi capelli immergendoci ogni parte del viso.
Io non ho più i miei vent’anni li ho perduti con distrazione, ogni tanto mi giro a cercarli ma non li trovo, e tu? Li hai ancora? Si, i tuoi sono immortali.
Smettila di guardarmi con quella faccia stranita, non sono mica matto, ho solo voglia di regredire e di ritrovarti, anche se non ci sei ti ho portata con me, ed eri bella, e bella lo sei ancora.
Avrei tutta una esistenza da raccontarti ma sarebbe una conversazione noiosa, parlami di te di ciò che hai fatto di quanto sei cambiata, se l’amore che ci siamo scambiati è ancora lì o se definitivamente è scappato, credo che l’amore vissuto sia indelebile ed incancellabile, una macchia che torna sempre e tu? Cosa ne pensi.
Non sai che dire vero? Certo è tutto così assurdo, così privo di logica, lasciati andare e ti prego baciami con passione, hai le labbra fredde ma non mi importa sono sempre le tue labbra, le più belle che abbia mai avvicinato, sei silenziosa, non ridi più.
Poggia la tua mano sul mio capo e diverrò bambino, guidami verso la luce, non ho paura, sono pronto, ti aspetto, ti aspetto qui, vienimi a prendere, ti amo”.
Ne ho scritte a decine di lettere così, ogni notte attendo una musa pronta a coccolare la mia insonnia.
Tu cosa faresti al mio posto? Ho un ricordo, uno solo e mi ci aggrappo come un naufrago si stringe ad una zattera in mezzo al mare, la speranza non muore, la gente muore ma chi vive è condannato alla speranza, domani sarà un giorno migliore, tutto andrà bene, la retorica mi ha traviato, un tarlo che scava in profondità, ho speranza di vederla entrare da quella porta con il suo sorriso, mi guarderà e mi dirà “ti trovo invecchiato mon petit chou” e dopo mi abbraccerà e bacerà.
La vita insegna che i morti non resuscitano.
La speranza invece non vuole e morire e mi fa male, tanto, tanto male.
Di cosa mi pento?
Mi pento di essere nato, mi pento dell’amore, mi pento di avere inspirato senza essere mai stato in grado di espirare.
Tutto dentro custodito dalla cassa del corpo.
Mi pento di sentirmi risuonare di oscurità nascosto dall’ombra che sono diventato, nero più della pece, una anima nascosta alla luce.
Cosa posso lasciare di me a questa terra.
Ossa, ossa Santissime».
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Bello questo racconto noir senza speranza, che si apre e si chiude su una nota colorata e ha al suo interno una piccola gemma scura, un grumo di desiderio nero.
Bello il the end.
Complimenti veri per essere riuscito a scrivere una trama spessa da uno spunto banale come può esserlo qualsiasi giovane e contrastato amore.