Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2024 “A funghi” di Giovanni Benedetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Il campanile aveva da poco suonato le cinque ed eccola qua, mia mamma che mi chiama già vestita di tutto punto per andare a funghi. Come ogni volta le chiedo che bisogno c’è di alzarsi così presto e come ogni volta mi risponde che chi dorme non piglia pesci. E che se torniamo troppo tardi non troviamo più Ombretta, la commerciante che viene da Lucca per acquistare i funghi dai cercatori del posto. Sì, perché per noi questo era una specie di lavoro: lei era una casalinga che dipingeva, come tante altre donne in paese, i personaggi del presepio (“i mammalucchi”) che le fabbriche locali le portavano a casa con i loro furgoni, a cassettate, una volta al mese. Ore ed ore a perdere gli occhi su madonne, sangiuseppi, pastori, asini, buoi e pecorelle di plastica per una remunerazione ridicola. Ed io ero uno studente ovviamente squattrinato che viveva i tre mesi estivi come una lunga e rilassante vacanza. Per entrambi quindi questi caldi giorni di fine estate erano un’occasione per metterci due lire in tasca. “Muoviti, ieri Anna e Zaira sono tornate con nove chili”.

Ora, che succedesse anche a noi la stessa cosa era altamente improbabile. Anna e Zaira erano delle fuoriclasse, una specie di Borg e Connors del fungo, potevi stare tranquillo che se ce n’era uno nei boschi lo avrebbero trovato loro. Ma nel nostro piccolo, anche noi non eravamo tanto scarsi. Mamma, pur non essendo nata nel nostro paese, sapeva benissimo dove andare perché aveva da sempre una grande passione per le camminate nella natura e la raccolta di tutto ciò che offre la terra da queste parti: cavoletti selvatici ed altre erbe di campo, more e mirtilli per fare marmellate, e naturalmente, quando veniva la stagione, i funghi. Io ero molto meno dinamico di lei – il mio amore per il trekking sarebbe nato solo parecchi anni più tardi – ma l’incentivo economico era sufficiente per farmi alzare prima dell’alba e seguirla nei colli intorno al paese: a Sorcina, a Castelluccio, a Lomeracchie o in Piana, a seconda dell’ispirazione. Scendemmo in garage, indossammo i nostri stivali di gomma neri, prendemmo due bastoni di castagno e un canestro di vimini, pronti, partenza, via.

Aspettavamo che facesse giorno camminando sul sentiero in salita, in modo da essere già sul posto quando la luce sarebbe filtrata dai castagni. Ottimizzazione dei tempi. All’epoca i sentieri nelle selve erano tutti puliti, sempre liberi da alberi caduti o altri ostacoli, e andavamo su a passo abbastanza svelto. Io avevo circa sedici anni e mia mamma poco più di quaranta, entrambi piuttosto magri e in forma. La fatica fisica non era un problema, potevamo camminare una giornata intera senza preoccuparci di quei vocaboli di cui sarei poi diventato un esperto: tachicardie, menischi, distorsioni, contratture, e altre simili diavolerie. Intanto mamma mi raccontava storie delle sue amiche, o della sua gioventù, o novità di paese. Io la ascoltavo e intervenivo di rado, di solito per chiedere spiegazioni: lei era decisamente più loquace di me.

Io ero un adolescente tranquillo e non esattamente precoce: con le ragazze ero timido e piuttosto imbranato, leggevo libri e divoravo fumetti, collezionavo francobolli, e le altre mie passioni erano una fiammante Vespa 125 blu col sellino bianco che mio padre mi aveva comprato da poco, e la musica, soprattutto italiana, soprattutto cantautori. Bennato, Branduardi, De André, Cocciante, e naturalmente Lucio Battisti, il mio preferito. Qualche settimana prima era uscito il suo nuovo disco, e contavo sul guadagno di quella giornata per potermelo comprare. Cinquemila lire, mica noccioline. Sarà meglio cominciare a cercare.

Chiariamo subito che, a differenza di molti nostri compaesani, noi ci limitavamo a raccogliere i porcini, o al massimo gli ovoli (che per noi erano le còccole) e i galletti – chiamati finferli dai trentini, come ho scoperto molte decadi più tardi. A differenza di mio zio, che invece era un esperto fungaro e fin da piccolo aveva la passione micologica, e mi sorprendeva sempre con specie misteriose e (secondo lui) buonissime: le colviòldore, le àngiole, le pràsime, la détola. Le frulle no, quelle noi paesani le ignoravamo allegramente e le lasciavamo ai lucchesi, che le chiamavano mazze di tamburo e dicevano che erano buonissime. Contenti loro…

Dopo un’oretta, la raccolta procedeva senza infamia e senza lode. Qualcosa avevamo trovato, ma ancora non ci eravamo imbattuti in nessun “covo” notevole. Il canestro lo portava lei, perché altrimenti sarebbe stato un guaio per i poveri funghi. Le poche volte che avevo provato a tenerlo io erano finiti sempre per terra, a seguito di un salto o di una scivolata maldestra. Quando ne trovavo uno, lo raccoglievo, guardavo attentamente attorno come eravamo abituati a fare, e poi mi avvicinavo a lei per depositarlo insieme agli altri. Vidi che si era chinata e le chiesi se aveva trovato qualcosa. “Qualche galletto. Prova a guardare lì sopra dove c’è quella carbonaia, che ce li abbiamo trovati spesso!” Mi avvicinai al punto indicato e trovai uno di quei piccoli funghetti bianchi che si accompagnavano spesso ai porcini. Mi risuonò automatica nella mente la filastrocca: “Pastaiola fungo cova, o lo cova o l’ha covato, o qualcuno l’ha già mangiato”. E infatti, guardando bene, in quella pianella ci trovai un paio di “bianchi”, non enormi ma dal gambo panciuto. Provai mentalmente a pesarli e poi a moltiplicare per il prezzo al chilo: era un giochino che facevo spesso. Arrivò mia mamma e glieli porsi. “Belli! Guardiamoci bene e poi proviamo a scollettare di là, verso il metato di Armandone”. Scollettammo, salimmo ancora, incrociammo un paio di compaesani e qualche sconosciuto forestiero, poi iniziammo la discesa mentre il canestro piano piano si riempiva. A un certo punto proprio nel mezzo del sentiero vidi un fungo spettacolare, un cappellone scuro e saldo che spiccava orgoglioso, quasi tronfio. Tra me e me mi chiesi come fosse possibile che non l’avesse visto ancora nessuno, dato che dalla mattina almeno una decina di persone era sicuramente transitata da lì, ma lo raccolsi in fretta e lo aggiunsi al bottino mentre mentalmente calcolavo il suo valore. Continuammo a cercare ancora un po’ nei dintorni, mentre l’ora del rientro si avvicinava e la fame cominciava a farsi sentire. “Oggi me le fai le penne con panna e prosciutto cotto?” “Va bene”. Che poi era la risposta standard. Difficile che qualche mia richiesta non le andasse bene.

Poco prima che finisse il bosco mia mamma coprì il canestro dei funghi con qualche foglia di felce per tenerli più fermi ed evitare fuoriuscite. “Quanti saranno? Quattro chili?” Lei sorrise divertita. “Al massimo tre. Ma forse meno, perché sono asciutti, leggerissimi”. Mentre dentro di me ridimensionavo il guadagno della giornata ma mi consolavo col piatto di pastasciutta abbondante (con sicuro bis) che mi attendeva di lì a poco, mamma mi raccontava aneddoti dell’ultimo viaggio a Lucca in pullman. Ancora una volta riflettei sul fatto che durante l’anno scolastico io facevo tutti i giorni lo stesso tragitto, ma non trovavo mai nulla di rimarchevole da raccontare. Lei invece ci andava forse una volta ogni due mesi e accadeva sempre qualcosa di interessante. Aveva indubbiamente un maggiore spirito di osservazione, ma io invece la prendevo un po’ in giro, scambiandolo per tendenza al pettegolezzo.

Più avanti incontrammo Margherita, che tornava da funghi come noi. Si lamentava che il terreno era troppo asciutto, e che c’erano troppi forestieri che rovinavano la nascita, raspando pesantemente il sottobosco o come diceva lei “zappando” il terreno. Facemmo un pezzo di strada insieme, e mentre loro chiacchieravano del più e del meno io mi divertivo a far partire il cronometro dell’orologio, contare mentalmente fino a un minuto, e poi premere stop per vedere quanto c’ero andato vicino. In un certo senso era la mia versione primordiale di un videogame.

Sapevo benissimo perché ero venuto a funghi con mamma: per comprarmi l’ultimo disco di Lucio Battisti. Quello che invece ancora non sapevo è che cinquant’anni più tardi avrei scambiato senza pensarci un attimo quel disco lì, insieme a tutti i miei vinili, il giradischi, tutto l’impianto stereo, la Vespa, una BMW quasi nuova e la mia casa al mare per poter rivivere, anche solo per un’ora, la magia della normalità di quel giorno a funghi.

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.