Premio Racconti nella Rete 2024 “Prigioniero” di Alberto Fumagalli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Doveva essere stato il graffiante strillare di un qualche uccellaccio ad avermi fatto svegliare di soprassalto.
Mi ci vollero alcuni attimi prima di cominciare a definire con chiarezza le ombre e i contorni delle sagome sfocate che percepivo a fatica nell’alone di una fievole luce bluastra, quasi notturna; doveva essere giunto da poco il mattino, erano forse le 5.
Quella sveglia improvvisa mi gettò in quella tipica condizione di stato confusionale dove il panico causato dal disorientamento ti brucia il sangue e ti lascia per un secondo senza fiato.
Riprendere coscienza non servì però a tranquillizzarmi, anzi mi gettò decisamente nello sconforto.
Ero ancora bloccato a quel dannato paletto di legno, prigioniero di quelle stupide corde tozze che mi strozzavano i polsi in una fastidiosa morsa.
Ormai dunque mi fu chiaro che non poteva essere tutto orchestrato da un lungo delirante incubo.
Quello era il mio primo risveglio in quelle condizioni sebbene fosse già la mia terza mattina da prigioniero.
Le prime due notti le avevo passate sveglio, incapace di dormire poiché terrorizzato all’idea di abbassare le difese di fronte ai miei rapitori.
Quando poi mi resi conto che così legato le mie difese erano comunque nulle e che mi sarebbe stato in ogni caso impossibile combattere e tanto meno scappare allora mi arresi all’evidenza; avevo perso completamente la capacità di agire nella mia volontà, inerme stavo così come loro volevano vedermi: prigioniero.
La luce intanto iniziava a scaldare i colori del paesaggio a me circostante. Mi resi improvvisamente conto di essere spettatore di una scenografia meravigliosa, così carica di purezza che pian piano cominciò ad acquietarmi.
Ero all’interno di una profonda gola, c’erano immense pareti rocciose tutt’intorno che circondavano un paradiso di prati e boschi interrotti qua e la da chiazze di brillante terra ocra e tagliati in due da uno stretto rivolo di acqua corrente limpida e cristallina che attraversava tutta la conca fino al perdersi dell’orizzonte.
Io stavo proprio lì, non distante dalla riva di quel serpentello azzurro in una zona dove iniziavano a sorgere alcune piccole abitazioni appartenenti ai miei rapitori e alla loro gente.
Nemmeno loro ad essere sincero erano così tremendi, un po’ spaventosi forse, non nel comportamento quanto probabilmente lo erano nell’aspetto a causa dei segni che esibivano sul loro viso.
Era un aggressività passiva che veniva mostrata solo a livello estetico, quanto al loro agire non sembravano violenti guerrieri di una qualche cultura demoniaca; tutt’altro. Apparivano molto più composti e pudici della mia gente.
Stando immobile nella mia prigionia avevo infatti avuto la possibilità di notare come nessuno di loro guardava direttamente gli occhi dei loro compagni e delle loro compagne di sesso opposto. Mantenevano lo sguardo basso, come se ci tenessero a rispettare una non ben precisa legge sociale, morale o molto più probabilmente religiosa.
In effetti quest’ultimo motivo spiegherebbe alcuni dei loro spaventosi tatuaggi sul volto come i teschi scuri cicatrizzati ai lati esterni delle orbite degli occhi, oppure quelle linee rosso scuro che partivano dalle palpebre inferiori e puntavano tutte dritte verso il resto del corpo al di sotto del collo.
Potevano benissimo essere ammonimenti divini, magari cicatrici di qualche doloroso rituale tribale rimaste segnate nella loro carne.
Mentirei però dicendo di non aver visto alcuna dimostrazione di amore e affetto. Donne e uomini si stringevano, si abbracciavano e si accarezzavano dolcemente proprio come la mia gente fa quando si vuole bene.
Pure io tutto sommato ero stato trattato dignitosamente da quando ero stato fatto prigioniero. Non mi mancava mai acqua o cibo, venivano sempre rigorosamente uomini a curarmi e tenermi controllato. Una guardia una volta aveva addirittura provato a farmi sorridere (o almeno questo credo fosse l’intento). Ma io di voglia di ridere non ne avevo poi molta, ero pur sempre prigioniero, bloccato lì, lontano dalla mia gente, lontano dai miei familiari, lontano da Andrea…
Chissà dov’era, chissà a cosa starà pensando, chissà se mi starà cercando…
In verità speravo che non lo stesse facendo. L’amavo, perciò l’ultima cosa che avrei desiderato era che rischiasse di vivere la mia stessa situazione.
Però ora la sua assenza e il desiderio della sua presenza erano sentimenti potenti che mi turbavano terribilmente.
Cercai di distrarmi.
Rivolsi nuovamente lo sguardo verso il mio schermo sul paradiso, il sole aveva ormai abbracciato le abitazioni alitando di vita il villaggio.
Il primo ad abbandonare il sonno oltre a me e ovviamente al mio guardiano fu un anziano. Egli stava già da qualche minuto seduto su di un sasso a guardare ed ascoltare l’anima del ruscello, poco dopo fu raggiunto da un giovane uomo.
Abbandonata la sua abitazione si mise seduto vicino al vecchio, quasi certamente intento a catturare quanti più insegnamenti sulla vita potesse dargli. A quell’età si ha nell’animo una belva infuocata e affamata sempre pronta a nutrirsi di consigli e a digerir determinazione e affermazione di sé.
Intanto il sole saliva lemme.
Uscì quindi una ragazza che, fiancheggiando con passo deciso ma leggero il rivolo giunse in un punto tranquillo, appena fuori dal villaggio. Estrasse uno strumento simile a un flauto intagliato nel legno e iniziò a soffiarci dentro facendone uscire una soffice melodia che lontana mi raggiungeva debole in un eco di suoni.
Probabilmente quell’eco raggiunse pure una coppia di amanti che svegliatisi fecero capolino uno dopo l’altro fuori dal loro rifugio mettendosi ad assaporare mano nella mano quel momento magico nel loro paradiso.
Quella soffice atmosfera però dovette dopo non molto lasciare il posto al vivace vociare di gioiosi bambini che si erano precipitati fuori casa per trovarsi e giocare.
Perfino i bambini seguivano quella loro legge morale, le bambine non guardavano negli occhi i bambini e viceversa, pure nel gioco.
Mi sembrava così alieno da me quell’atteggiarsi alla vita, quel vivere l’amore.
Perché c’era amore tra loro, lo ripeto, era palpabile. Però nella mia sfera personale era così insopportabile l’immagine di dover vivere in quella ristrettezza un sentimento tanto forte. La mia gente non lo avrebbe concepito.
Ma lì non ero con la mia gente e quel loro modo di vivere si riconduceva lo stesso al volersi bene, inoltre ero in una situazione di sfavore perciò sentivo di poter accettare tutto ciò all’interno della mia sfera globale della concezione di amarsi.
Eravamo un poco diversi ma a me questo stava comunque bene.
Quello che non mi stava bene era che non mi venisse data la possibilità di muovermi a mio piacere, ero ancora un prigioniero legato al palo.
Stetti li mansueto ancora per un po’ a guardare il paesaggio. Poi a un tratto da dietro di me incominciai a percepire l’eco lontano di un violento pulsare di tamburi seguito e accompagnato da un canto ritmato di voci, doveva essere una specie di canto tribale che tra l’altro non mi suonava neanche troppo sconosciuto. Era molto simile al rombo di uomini e percussioni che mi aveva scortato in quella mia prigione.
Mi accorsi che tutti gli uomini ora avevano lo sguardo basso dritto verso i loro piedi.
Il suono si faceva sempre più vicino e più forte.
Erano voci femminili.
Cominciai a sentire pure il ritmo dei passi decisi che scuotevano il terreno.
Tump! Tump! Tump!
Ed eccole li, a due a due, marcianti fiere, un piccolo esercito di sole donne.
Due, quattro, sei, otto, dieci.. Queste ultime tenevano ciascuna una corda tozza a trainare qualcosa o qualcuno. Mi passarono vicino dei passi più leggeri, vidi i piedi, poi le gambe, quindi l’intero corpo trascinante del prigioniero.
Un brivido mi elettrizzò completamente la schiena… non poteva essere!
Fui travolto da un’onda di emozioni differenti.
D’impatto mi esplose il cuore di gioia, era Andrea!
Mi mancava, mi mancava terribilmente, temevo che non avrei rivisto più quella sagoma tanto amata a causa della mia prigionia…
A quel punto elaborai la realtà, l’onda di gioia si incanalò in una corrente di risacca che mischiò in un vortice l’agitazione con la mia felicità trascinando a fondo una grossa parte di quest’ultima, non ero più il loro unico prigioniero.
Preso da uno slancio incontenibile di estasi urlai comunque il suo nome.
Si girò, mi vide e in un attimo il suo animo divampò in una fiamma incontenibile ed improvvisa di forza. Tentò di corrermi incontro dando uno strattone tanto violento da gettare a terra una delle due guerriere che teneva la corda. L’altra riuscì a tenere una presa salda ma da sola non era in grado di contenere l’impeto, non abbastanza da impedire ad Andrea di raggiungermi.
Riuscimmo in un attimo a guardarci negli occhi e a strofinarci guancia contro guancia in una specie di carezza che sostituì l’impossibilità di un abbraccio legati com’eravamo.
D’un tratto non mi importava più di esser prigioniero, non mi importava di nulla, vivevo solo quella mia emozione.
Purtroppo tutto durò pochissimi meravigliosi attimi, immediatamente le guerriere ripresero il controllo delle corde e ci separarono. Il trambusto aveva attirato l’attenzione degli abitanti del villaggio che accorsero per capire cosa stesse succedendo.
Si creò una crescente agitazione nel villaggio, la gente iniziava a discutere chi spaventato, chi pieno di rabbia.
Ci eravamo guardati negli occhi io e Andrea… Ci eravamo proprio amati con lo sguardo come la nostra gente è solita fare… Ma non i nostri rapitori.
Probabilmente era stato come una sorta di sacrilegio per loro.
Che stupidità.
Ma loro amano così.
Non sentivo di aver commesso alcun errore ma comprendevo il loro turbamento.
Intervenne una delle guerriere mettendo ordine tra le urla aggrovigliate che si andavano accavallando.
Disse qualcosa che non compresi ma fu ascoltata da tutti.
Smisero gli schiamazzi e tornarono tutti alle loro abitazioni, chi più convinto di altri.
Poi le guerriere portarono Andrea al lato opposto del villaggio ben lontano da me e rientrarono poco dopo pure loro nelle rispettive abitazioni.
Rimasi così nuovamente prigioniero, soltanto con il mio guardiano che ora però mi guardava con aria severa e giudicante.
Passarono diversi minuti ed ecco di nuovo un tamburo, stavolta proveniente dal centro del villaggio.
Il suono più lento e sommo.
Gli abitanti del villaggio uscirono dalle case e si diressero tutti in direzione di quel suono. Pensai a una riunione, sicuramente avrebbero parlato di noi prigionieri, probabilmente del nostro gesto d’amore istintivo che li aveva tanto scossi.
Anche il guardiano dopo aver stretto più forte la corda lasciandomi delle dolorosissime piaghe si diresse verso il cuore del villaggio.
Poi il tamburo si fermo.
Prima un brusio di voci lontane poi il silenzio. A questo punto a uno a uno iniziarono a discutere tra di loro chi urlando di rabbia, qualcun’altro invece più composto.
Riuscii a riconoscere la voce del vecchio: appuntita, incattivita, sputava giudizi giù dalla sua profonda conoscenza. Fu proprio in quel momento che vidi avvicinarsi da lontano un’ombra, minuta ma ben definita nei muscoli.
La luce che nel frattempo era di nuovo calante mi permise comunque di riconoscere il giovane che quella stessa mattina stava seduto lì accanto all’anziano ad ascoltarlo.
Camminava a passo svelto, sempre più svelto, quasi di corsa, gli occhi sbarrati puntati dritti verso di me. Non feci neanche in tempo a comprendere quello che sarebbe andato a succedere di li a poco.
Il giovane che ormai era a pochi passi da me ruggì qualcosa, tirò fuori una lama e me la conficcò dritta in un occhio, poi ne prese un’altra e mi trafisse il cuore. Tutto si oscurò.
Perché? Perché non mi comprendi uomo? Perché non riesci a vivere le nostre diversità? Perché ti spaventi? Tu mi tratti come un vorace invasore. Non legarti prigioniero alle leggi mistiche e all’etica sociale. È la volontà di mettersi in mostra? Di dimostrare al vecchio, al villaggio il tuo potere? O è forse la paura a muover la tua mano? È l’ordine delle cose a consigliarti? È la distruzione di tutto ciò che è caos a tenere in mano i fili di un burattino?
Eros e Thanatos, i tuoi veri Dei, i tuoi gelosi maestri, decidi bene a chi dare il permesso di animarti giovane.
Guardami morire, questi occhi sono gli occhi di Andrea.
Sei tu colpevole ora.
Sei tu prigioniero ora.