Premio Racconti nella Rete 2024 “I delfini di Dioniso” di Daniele Cerruti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Quando Masino murette, Enzo steva imbarcato. Lo avevano chiamato dalla compagnia, che doveva imbarcare subito subito, ampresso, ampresso, che era un’emergenza. Un cameriere (che Enzo conosceva bene, un furbone quello), aveva marcato visita, s’era fatto i fogli della cassa marittima ed era sbarcato ammalato. Così rischiavano, loro, di finire sotto tabella; non è che Enzo glielo faceva il favore, quello di imbarcare con così poco preavviso? Così poi, visto la sua situazione, magari erano capaci, all’armamento, di sbarcarlo un poco prima.
Sua moglie aveva fatto la faccia brutta: Masino era da poco ricoverato in ospedale, che il ciclo di cure non faceva effetto. Ne avrebbe avuto per almeno un mese di ospedale, Masino, ed Enzo non sapeva che fare. Se non imbarcava adesso, e si faceva per intero il periodo di riposo, poi non si trovava con i tempi. Quando Masino usciva, capace che lui era già imbarcato, e Masino usciva e non lo vedeva. Che poi, ad Enzo, i calcoli non venivano mai bene e aveva imparato che era bene non farli perché bastava poco e tutto si aggrovigliava sempre; ma questa volta se l’era pensata bene, bene, e alla fine aveva detto che era meglio farglielo un favore alla compagnia, ora che le cose erano, per così dire, ferme. Che poi la vita a terra accellera di colpo, senza preavviso, e allora tocca di rincorrerla e un favore fatto a suo tempo, torna sempre utile.
La moglie aveva girato la faccia dall’altra parte e la figlia gli aveva messo addosso due occhi neri come una notte senza luna.
Il medico della cassa marittima, alla visita preventiva d’imbarco, gliel’ aveva detto, ad Enzo, che avrebbe dovuto smettere. Il cuore non era più quello di una volta, e dopo tant’anni di quella vita passata sulle navi da crociera e sui traghetti di linea, Enzo non ce la faceva più. Il medico gli aveva detto che per il momento chiudeva un occhio, ma per un imbarco o due, poi la visita di idoneità biennale, gliela avrebbe fatta ogni anno e, se peggiorava, ogni sei mesi. Enzo non poteva navigare più, ma c’era Masino che non stava bene e le cure costavano e pure assai.
Così, alla fine, era partito, con la valigia che sembrava di pietra e le orecchie piene di silenzio.
Quando era bordo, telefonava sempre, quando la linea prendeva ad orari strambi, e la moglie gli rispondeva, con una voce di coltello, che i medici non si pronunciavano. Non gli chiedeva niente di come andava l’imbarco, dov’ erano, come era con i colleghi. Parlavano solo di Masino, di medici e di ospedali.
La sera, in cabina, Enzo guardava il mare dall’oblò quadrato e sporco di salsedine, e se ne stava zitto. Guardava senza capire quella massa enorme e scura che si muoveva sotto di loro e sembrava non curarsi delle vite che gli scorrevano sopra. Enzo pensava a tutte le storie che passavano sopra il mare, le loro e quelle dei passeggeri che portavano; pensava a tutte le preoccupazioni, le angosce, i disinganni, i tormenti, le amarezze, sotto le quali il mare sgusciava con quella fredda noncuranza, con quella fluida apatia che ora ad Enzo metteva quasi rabbia. Avrebbe voluto prenderlo a pugni, il mare, capire perché se ne stava sempre per i fatti suoi e non si curava di loro, straniero a tutto ciò che aveva radici nella terra. Ma se vuoi capire come funzionano le cose le devi aprire e vedere dentro come sono fatte. Se rimani sopra le cose, sei solo uno che le cose le osserva: sopra, sei solo uno che il mare lo guarda, di sera, attraverso un oblò sporco e scrostato.
Enzo a bordo lavorava come un matto, che il bar almeno gli levava Masino dalla testa. Lo avevano messo insieme a Rosario, che lui conosceva da una vita, ed ad una ragazza del Salvador che si chiamava Katherine ma che loro chiamavano Caterina, perché le volevano bene. Caterina aveva pelle olivastra, gambe corte e tozze, un viso scabro dove si allargava un sorriso fresco ed innocente. Non fosse stato per i fili aggrovigliati che teneva in capo, sarebbe stato bene con loro, avrebbero riso e scherzato e passato un bell’imbarco. Ma Enzo non aveva voglia di niente e Rosario capiva e stava zitto e la ragazza provava, ogni tanto, a tirarlo su di morale.
Un giorno che non si riusciva a prendere la linea e a telefonare ed Enzo era più scuro del solito, la ragazza gli aveva detto di venire fuori sul ponte esterno a guardare i delfini. Rosario gli aveva detto di andare che se la vedeva lui ed Enzo era uscito un poco, all’aria aperta e fredda che tagliava la faccia e Catherine che sorrideva e gli diceva guarda là. Lui si affacciava e vedeva quei pesci grandi grandi che uscivano dall’acqua come per vedere a loro, e scendevano veloci sotto il pelo dell’acqua. Enzo si chiedeva cosa vedessero da laggiù da sotto il mare, si chiedeva cosa erano loro per i delfini, che il mare lo abitano dall’altra parte e del mare sanno tutto e il mare sa tutto di loro.
Un giorno, un ragazzo, uno di quelli che andavano all’università e d’estate si facevano la stagione per pagarsi gli studi, gli aveva raccontato che i delfini, un tempo, erano stati marinai. C’era stato un dio greco, che si chiamava Dionisio che se n’era andato in giro per il mondo, in oriente, poi era tornato a casa sua, in Grecia, e s’era imbarcato. Ma i marinai non lo avevano riconosciuto come un dio, tranne il nocchiero, che invece subito lo aveva adocchiato per il verso giusto. Ma lui, Dionisio, lo stesso s’era pigliato collera e aveva trasformato tutti i marinai in delfini, tranne quello che, invece, lo aveva riconosciuto. Ad Enzo ‘sta storia non è che era sembrata poi tanto dritta. Che colpa potevano avere i marinai se dopo tant’anni non lo avevano riconosciuto? E poi perché invece di castigarli li aveva premiati, che ora se andavano felici e contenti dietro le navi e ridevano di loro che, al contrario, sulle navi ci stavano sopra? Enzo poi aveva concluso che gli dei in fondo, sono dei di terra e credono che navigare sia avvincente e spassoso, perché si vede che anche gli dei, la sera, se ne tornano a casa loro e si siedono sui divani, con i figli che giocano sul tappeto, e loro si mettono lì e sognano di andar per mare.
Quando Enzo aveva già un mese di imbarco, un pomeriggio che di gente ce n’era poca ed Enzo steva fuori con Caterina a pulire i tavoli, era squillato il telefono. Aveva risposto Rosario, che aveva parlato un poco. Poi aveva posato il telefono, e l’aveva chiamato. Gli aveva detto che il comandante lo vedeva vedere. Di andare nella cabina sua, che gli doveva parlare.
Glielo aveva detto senza guardarlo in faccia, con un tono sottile e fiacco che sembrava stesse per piangere. Di andare nella cabina sua. Che gli doveva parlare.
Enzo aveva posato lo straccio colorato sul bancone. Si era passato le mani sul mantesino amaranto.
Rosario aveva messo su una faccia bianca bianca e Caterina aveva smesso di pulire e fissava Rosario, immobile.
Di andare nella cabina sua. Gli doveva parlare.
Enzo aveva fatto le scale con il cuore che sembrava volesse saltar fuori dal petto e la testa sgombra, pulita che pareva lavata a fondo con il cloro, tanto che non c’era dentro nemmeno un pensiero.
Camminava nel carruggetto equipaggio come se stesse dentro un sogno, con le partie che gli urlavano contro e le luci che lo prendevano a schiaffi. Poi era arrivato alla cabina del comandante, e quello aveva alzato gli occhi dalla scrivania e quando gli aveva detto di entrare, ad Enzo sembrava di essere all’improviso nudo ed inerme, un corpo liscio e indifeso che cade nel mare, a peso morto. Come un delfino.
Quando gli riuscì di ritornare a casa, avevano già deciso tutto loro. Enzo ci aveva messo un paio di giorni per arrivare; il funzionario delle pompe funebri era riuscito a rinviare il funerale, perché lui, a Masino, almeno potesse vederlo. Ma il marmo e la foto, le avevano scelte la moglie e sua figlia, perché lui non c’era. Enzo avrebbe voluto mettere sulla tomba un trenino di legno che aveva comprato una volta a Valencia. Quella volta, per tutto l’imbarco, il trenino se l’era tenuto sul testaletto e la sera se lo teneva fra le mani e sognava di giocarci insieme a Masino. Ci saltavano sopra e andavano dove pareva a loro, ciuff ciuff, lontano da tutti, e Masino sceglieva lui dove andare ciuff, ciuff, ed Enzo, sempre appresso, che non lo avrebbe più lasciato, no, no, e Masino avrebbe riso si sarebbe voltato verso di lui e avrebbe gridato: “Siamo noi i più forti, papà! Siamo noi che abbiamo fottuto tutti quanti, pure al mare lo abbiamo fatto fesso”.
Ma ora Masino non c’era non più ed Enzo voleva che il trenino stesse con lui, voleva che Masino sapesse, ovunque fosse stato, che lui non si era dimenticato, che il suo papà sempre a lui volgeva la testa.
La moglie aveva ribattuto acida, che Masino con quel trenino non ci aveva mai giocato. Ci avevano messo sopra un giocattolo di plastica che il bambino amava tanto. E la figlia, ad Enzo, rivolgeva uno sguardo storto come a dire “nemmeno sapevi cosa gli piaceva a tuo figlio”. Enzo avrebbe voluto parlare e dire che mica era facile per lui, che una vita sul ferro mica sempre uno se la sceglie, ma spesso solo gli capita. Avrebbe avuto tante cose da dire, ne avrebbe avute tanto da dire a Masino, ma era troppo tardi e indietro non si torna, il mare si era mangiato tutto il tempo e tutte le parole. Aveva lasciato discorsi rotti sulla spiaggia, pezzi di parole incrostate e marce d’acqua salata e le conchiglie all’orecchio ti portavano la voce del mare che suonava sempre la stesa canzone. Così lui era rimasto a rigirarsi con il trenino tra le mani, come fanno quelli di macchina quando devono cambiare un pezzo di un congegno e se lo rivoltano fra le mani per capire come lo devono montare.
Quando tutto fu finito, tornò il silenzio. Lui e sua moglie nemmeno parlavano più e la figlia gli appariva sempre più distante e lontana. Enzo dava la colpa la mare che non si leva mai da torno, ma sta sempre lì, in mezzo alle persone e le unisce e le divide come piace a lui. Così Enzo mangiava da solo a casa, ed usciva, si vedeva con i colleghi che erano sbarcati e parlavano di navi, così per distrarlo un po’.
Il medico della casa marittima gli aveva prescritto un paio di pillole e gli aveva dato un mese. Gli aveva detto di stare attento, che nelle sue condizioni si doveva fermare, doveva cercare di riposare, non doveva forzare, perché il cuore ne avrebbe risentito. Ma Enzo, il cuore suo, nemmeno lo sentiva più, gli sembrava di averci un buco dentro che ci potevi vedere attraverso. Così le pillole le buttava nel lavabo e guardava l’acqua che girava e le trascinava giù, dentro al sifone.
Sua moglie non faceva che piangere e lui non gli riusciva di starle vicino. Si sentiva sempre fuori posto, si spostava da solo nelle stanze di casa sua, come un soprammobile che dà solo fastidio, e che alla fine cade in terra e si rompe perché non gli si è riuscito di trovare un posto.
Così, quando proprio non ce la faceva più, aveva fatto l’unica cosa che in vita sua era stato mai capace di fare. Aveva fatto una telefonata e preparato una vecchia valigia, pesante come un macigno. E alla fine, si era imbarcato.
Quando il cuore gli andò in pezzi per la seconda volta, Enzo steva u bar. Era di pomeriggio, un’ora dove non viene nessuno ed Enzo si era messo in capo di ripulire i frighi. Lo avevano rispedito di nuovo sulla stessa nave, e così stava di nuovo con Rosario e Caterina. Ma stavolta Enzo non aveva pensieri, non chiamava mai nessuno al telefono, e faticava solo. Una volta che Rosario era andato a risposare, s’era pigliato a Caterina e s’era messo a svuotare i frighi e a pulizzare. Ci si era messo di buona lena e Caterina sbuffava perché non ne aveva voglia, preferiva stare al banco. Ma Enzo s’era fissato, ormai, e non c’era niente da fare. Aveva svuotato il primo frigo, quello delle bibite, e per arrivare al ripiani più alto si era preso uno sgabello di metallo. Passava le casse a Caterina che le metteva sul bancone della riposteria. Poi, Enzo era sceso, ed aveva preparato i secchi con la saponina e con il cloro, come gli avevano insegnato sulle navi da crociera. Di colpo, all’improvviso, si era sentito ‘nu poco strano, come se gli girasse la testa. Aveva sentito un forte calore al petto, aveva detto che non si sentiva buono ed era andato a sedersi sullo sgabello, la schiena appoggiata alla porta del frigo che si era richiusa. Caterina era bianca bianca. Lui le aveva sorriso e le aveva detto che non era niente, ma il dolore non passava e dal petto gli era passato al braccio. Caterina era uscita a cercare qualcuno, si vede che aveva incontrato Rosario che rientrava in servizio, perché ora Enzo vedeva la faccia di Rosario su di lui, ma la vedeva strana, distorta. Vedeva le facce di altri che gli venivano appresso, ma lui vedeva tutto come attraverso strane filtrazioni, le orecchie avevano preso a fischiargli e lui non sentiva più bene i rumori. Vedeva come attraverso l’acqua e all’improvviso tutto gli fu chiaro, era come se stesse nuotando sotto il pelo dell’acqua e ora li vedeva tutti sopra di lui, quella gente strana, che si muoveva dall’altra parte, a scatti. Lui, ora, non sentiva più il dolore al petto, non sentiva niente, sembrava che il suo corpo si muovesse dentro all’acqua, leggero come quello di un delfino, che sfiora il pelo dell’acqua e ride di tutto quello che ci sta sopra. E all’improvviso, vicino a lui, c’era Masino: anche lui ora era un delfino e saltava fuori dall’acqua e rideva, e chiamava; “papà papà” e nuotavano insieme, adesso, e guardavano quelli di lassù che si affannavano torno torno e non capivano, prigionieri in gabbie di latta che il mare si divertiva a sballottare di qua e di là come fa il gatto con la pallina di stoffa. Ma loro, loro ora erano liberi erano insieme, e Masino rideva, rideva felice come Enzo non aveva mai visto fare e gli veniva voglia anche ad Enzo di saltare fuori dall’acqua, librarsi insieme a Masino, giusto un pelo sopra il mare e lasciarsi cadere giù, con l’acqua che ,finalmente li accoglieva entrambi, E loro ora , si facevano beffe di tutti, di quelli che andavano per mare convinti di vivere un sogno, del mare che si credeva così arrogante e altero, e perfino degli dei che li avevano trasformati in delfini, convinti che fosse una punizione, e invece non era vero perché la reale condanna era vivere come dei e stare distanti, lassù, in un cielo piccolo come una nave, lontano da chi ti vuol bene, e invece loro due , ora, nuotavano l’uno accanto all’altro.
“Li abbiamo fottutti, papà” gridava Masino “Anche il mare il mare abbiamo fatto fesso” gridava, felice.
“Li abbiamo fottuti Masì. Li abbiamo fottuti. A tutti quanti”.