Premio Racconti nella Rete 2024 “Sàrvei (viaggio al termine della notte)” di Daniele Sesti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024Si approssima settembre e come ogni anno si sta avvicinando il momento della sàrvei aziendale.
“L’analisi del clima aziendale è un’indagine svolta attraverso survey, interviste o focus group per rivelare come il personale percepisce la realtà aziendale e offre indicazioni utili al management per azioni finalizzate all’aumento del benessere organizzativo, della motivazione e della performance lavorativa.”
Recita l’email che accompagna annualmente il link al quale dobbiamo collegarci per lo svolgimento del sondaggio, pardon, della sàrvei.
E’ il 12 ottobre, quando io e il mio amico collega mentore socio compagno pari sodale Culo di Gomma, ci accingiamo a compilare il questionario. Pardon: la sàrvei aziendale.
Perché proprio il 12 ottobre? Non perché Colombo avesse scoperto l’America cinquecentotrenta anni prima, ma solo perché è l’ultimo giorno utile.
“L’ultimo giorno utile”, suona come un precetto divino, dopo, il diluvio, l’inferno in terra, l’apocalisse. Sì, perché da quell’11 settembre con cadenza giornaliera, prima si sono limitati a cordogliarci solo il lunedì mattina, quando arrivava verso le 13.00 un’e-mail, come un memento mori, ricordati della sàrvei, ricordati della sàrvei, ricordati della sàrvei… Come un’invocazione che giunge dalla terra dei morti, degli spiriti, delle anime immateriali, quel promemoria si insinua nelle nostre menti, si incarna nelle fibre, scorre in arterie e vene. Una voce nella tempesta, un suono perpetuo, un acufene rimbombante nelle meningi…
Sono le 17.15. Abbiamo un’ora e quarantacinque minuti per procedere.
Premetto che io e il mio amico collega mentore socio compagno pari sodale Culo di Gomma non abbiamo una grande opinione delle sàrvei. Pensiamo che sia soltanto un grandioso monumento all’ipocrisia. Quasi come le promesse matrimoniali o le dichiarazioni dei redditi dei gioiellieri che ti chiedi: chi glielo fa fare a rischiare la vita per 25/30 mila euro l’anno? Più che un mestiere, una missione. Andrebbero santificati, questi eroi di tutti i giorni.
Insomma, ma ne vogliamo parlare seriamente? No, perché come dice, Culo di Gomma, “La vita è come un cazzo fritto”. Cioè. Non lo dice lui. Lo diceva uno scrittore, credo francese, e quella frase, credo, era il risultato della sua sàrvei sull’esistenza: un cazzo fritto.
Culo di Gomma argomentava: – Se, assumiamo che la vita sia un cazzo fritto”, andresti mai dalla signora vita a dirle: “Sei un cazzo fritto”? No, cazzo.
La logica di Culo di Gomma era per me gioia e dolore, piaga e lenimento, coca cola e the verde. (Notate la forma chiasmica di questo pensiero.)
Ma, soprattutto, mi faceva amare sempre di più il vecchio caro Culo di Gomma, una delle poche cose buone che mi sono capitate in trent’anni di carriera, dopo lo stipendio ogni mese, evidentemente, e la spremuta d’arancia a sole 50 lire, nel bar aziendale.
Gli rispondo io, a Culo di Gomma: – Ma la sàrvei è anonima. Nessuno conosce chi risponde cosa e come. E’ un’occasione per dire quello che pensi. Criticare, lamentarti, accusare, deplorare. Far sentire la tua voce, esprimere la tua opinione, senza paure, senza condizionamenti. La sàrvei è la completa e compiuta realizzazione storica e positiva dei diritti dell’uomo. Les droits de l’homme: Liberté, Égalité, Fraternité. – mi infervoro – E’ come bestemmiare quando Dio ha le cuffiette e ascolta i salmi in streaming – ora esagero.
Culo di Gomma, si attorciglia i ciuffi della barba che una volta era stata rossa, sembra un nano del Signore degli anelli, e controbatte: – La sàrvei è come una festa di paese. Baracconi, bancarelle, tendoni. La giostra corre in tondo con musica meccanica, i cavalli sono finti, le macchinine sono finte, la donna cannone è finta, la donna barbuta è finta, l’uomo scimmia è un falso, lo zucchero filato è di plastica, il castagnaccio è di cartone. Solo i palloncini che scoppiano, quando li colpisci con i pallini dei finti fucili, sono veri. Fanno puff e non ci sono più. E alla fine della festa, quando rimangono le pozzanghere e i cani hanno fatto l’ultima pisciata, i padroni delle carrozze contano i denari.
Non è farina del sacco di Culo di Gomma. Ne sono certo. Ma lui la fa sembrare roba sua, come un vecchio maglione comprato su una bancarella dell’usato. Culo di Gomma lo indossa e tu ti chiedi: come mai non gliel’ho mai visto addosso quel maglione di lana grossa?
Poi, Culo di Gomma ti tocca con la matita che si era messo nell’orecchio per pulirsi dal cerume. E ti dice: – Tu sei vero, però.
E io sono contento, anche se fa’ un po’ schifo, Culo di Gomma.
Dai, sono le 17.50. Iniziamo Cu’.
Commento nel mezzo: quasi quasi lo finirei qui.
L’ambiente di lavoro è illuminato, L’ambiente di lavoro è silenzioso, L’ambiente di lavoro è gradevole, L’ambiente di lavoro è pulito, Le condizioni dell’edificio sono idonee, I servizi igienici utilizzati sono decorosi.
La prima parte del questionario, quella sulle condizioni di lavoro, scivola via quasi senza intoppi. Anche se Culo di Gomma ha avuto qualcosa da ridire sul concetto di “gradevole”.
– Un’emorroide non è mai gradevole. Ecco, la domanda andava posta così: quanto è sgradevole l’ambiente di lavoro? – e poi non si è fermato – L’ambiente di lavoro è buio? L’ambiente di lavoro è rumoroso, L’ambiente di lavoro è sporco, Quanto è malandato l’edificio, I servizi igienici utilizzati sono decorosi, Quanto piscio si scorge attorno alla tazza del cesso verso le 6 del pomeriggio?
Insomma, aveva invertito l’ordine dei fattori.
Sorvolo, tiro fuori dal cassetto le liquirizie, quelle arrotolate, so’ che placano la vis polemica di Cu’. Ne srotola immediatamente un paio e inizia a ciucciarle come un pupetto.
(Leadership. Si concentra sulla comprensione di come si sentono i lavoratori in relazione ai team leader.)
E qui, sono cazzi, penso.
Ti senti motivato dai tuoi superiori a svolgere il tuo lavoro quotidiano?
Ti senti sufficientemente ricompensato per la tua dedizione e il tuo impegno nel lavoro?
Ritieni che la tua opinione sia ascoltata e apprezzata dal tuo manager?
Ritieni che l’azienda ti offra sufficienti spazi per la tua crescita personale e professionale?
Culo di Gomma inizia ad ululare, no, più che un ululo riconosco in quello stridio il verso della poiana comune, un misto di rabbia e costernazione che si concentra in quel vociare scomposto.
Scuote la capoccia. Le basette grigiorosse si agitano, sembrano i cernecchi (di un ebreo ortodosso e, il muovere ritmico della testa ricorda, in effetti, il dondolarsi degli ebrei quando pregano o studiano la Torah.
– Se non sei ricco, dovresti sembrare sempre utile.
Ecco, ancora lo spirito di qualcun altro si impossessa del mio amico. Non è lui che parla, lo so.
– Quale la motivazione ultima che ci muove tutte le mattine a venire in luoghi ostili, affrontando traversate bibliche, per fare quello che qualcuno ci dice di fare spesso senza condividerne, scopo, motivazione e modalità di esecuzione?
– I soldini? – rispondo, sapendo già che è quella la risposta.
– Ecco, tutti i santissimi giorni, mi rendo utile, cioè, mi sforzo di sembrare utile. Perché non sono ricco. Perché se lo fossi mi sforzerei di essere utile solo a me stesso. La domanda giusta è: ti senti sufficientemente ricompensato per i tuoi sforzi di sembrare utile? Perché è quello che facciamo. Apparire utili e funzionali, organici e adatti nello svolgimento delle nostre mansioni. Non importa il risultato, è solamente e puramente un fatto estetico. Come appare la mia figura nel grande affresco aziendale? Si nota? Stona? è troppo grande, troppo piccola, nascosta dietro altre figure più importanti, è frontale, di lato, guarda verso un punto fisso o ha uno sguardo aperto e mobile, come quei ritratti di visi i cui occhi sembrano osservarti da qualunque posizione tu l’osservi?
– Ora filosofeggi Cu’, anzi cavilli… – so che questa cosa lo fa incazzare. E così accade.
– Ritieni che la tua opinione sia ascoltata e apprezzata dal tuo manager? – mi fa, a mo’ di provocazione.
– Beh, il capo, ci ascolta, quando gli parliamo, poniamo problemi, cerchiamo soluzioni.
– Mmm…. Quando ero capo, cioè, manager, quando qualcuno veniva a parlarmi, non vedevo l’ora che finisse… avevo la mente occupata a pensare a tutto quello che dovevo fare e quanto quel colloquio mi stesse facendo perdere tempo… – srotola una liquirizia quasi fosse una stella filante – Quindi, la domanda giusta è: quanto pensi di rompere il cazzo al tuo manager quando gli vai a parlare? Cioè, che tradotto sarebbe: quanto il tuo capo è disposto a sopportare le tue lagnanze?
– Tu, Cu’, però, riduci tutto alla doglianza?
– Cioè?
– Cioè, ti vedi solo portatore di lamentele, proteste, rimostranze, brontolii…
– Ci sono altri motivi per andare a parlare con il tuo superiore?
– Ma certo. Proporre nuove idee, esporre miglioramenti, suggerire efficientamenti! – ora mi sento quasi messianico, ma cerco di riportare Culo di gomma nell’alveo di un torrente placido e quieto. Anche perché si sono fatte le 18.15.
Lui mi guarda come si potrebbe guardare un cucciolo che ti ha appena pisciato sul tappeto persiano, quello che pensi di rivendere solo in caso di urgente necessità economica o per barattarlo per un rene sano.
Sa che io so che lui sa che sto mentendo spudoratamente.
Ritieni che l’azienda ti offra sufficienti spazi per la tua crescita personale e professionale?
La butto là, per superare l’imbarazzo e andare avanti.
Culo di Gomma gira pagina.
(Passione professionale e autovalutazione.)
Pensi che il tuo manager ti apprezzerà?
– E’ la speranza che nutriamo non appena emettiamo il primo vagito. Sono nato e sto pisciando in braccio all’ostetrica che mi ha appena estratto dall’alveo materno. L’ostetrica un donnone alto e con i baffi – me la ricordo dalle polaroid scattate da mio padre – apprezzerà quel liquido caldo giallino ed acido che le cola sul polso stretto dal braccialetto della prima comunione?
Pensi di superare i tuoi limiti quando si tratta di completare un compito difficile?
– Ogni santissima mattina, quando attraverso il tornello, supero i miei limiti.
Pensi che il tuo lavoro abbia un’influenza positiva sulla tua vita privata?
– C’era una volta un capo. Era bello, affascinante, abbronzato come un maestro di tennis, arguto, spassoso, conosceva la vita, era un uomo di classe che sapeva stare in società, avremmo detto. Spandeva sorrisi e pacche sulle spalle. D’inverno indossava un loden verde, una lunga sciarpa rossa, un elegante cappello in lana quadrettata stile Borsalino, grigio. Fumava il sigaro, come si conviene agli uomini di potere e nell’armadietto dietro alle stampe di carte geografiche antiche, serbava preziosi whisky, invecchiati e ambrati come la pelle del viso di certi pescatori che vedi seduti davanti alle porte delle basse case lungo i vicoli di paesi di mare a cucire reti della loro stessa età.
Mi diventa lirico, Culo, non oso interromperlo. Anche se il tempo scorre.
– Sulla sua scrivania in mogano brillavano due volumi: Il codice del fallimento e L’interpretazione dei sogni. E un libricino con i pensieri di Montesquieu. Non perché fosse un illuminista, no, tutt’altro. Ma perché all’interno c’era la dedica di un segretario di partito diventato primo ministro e poi esule ora quasi martire.
Ora mi diventa politico, Culo, non so come arginarlo.
– Un giorno, era un mite sabato mattina di inizio primavera, mentre giocava a tennis al circolo lungo il fiume, inciampò sulla riga del fondo campo, cadde, si fratturò una clavicola ed anche la sua bella racchetta in legno si ruppe. Era una Maxima De Luxe.
Si perde nei particolari, il mio amico Culo…
– Gita al pronto soccorso, trenta giorni di prognosi, una leggera fasciatura e ritorno a casa. Trenta giorni trascorsi lontano dall’ufficio a prendere il sole in terrazza, curare le piante, bere tè verde e leggere tutti quei romanzi che si erano accumulati sul comodino. Una purificazione del corpo e dell’anima.
Ora mi diventa detox, oh Culo…
– Il trentunesimo giorno, il trionfale rientro in ufficio. Accolto come un reduce di guerra, come il sacrificato rinato, come un crociato che fa ritorno alla sua nobile magione. Branca, Branca, Branca, Leon, Leon, Leon… fiuuu! Bum!
Mi fa pure il fischio, Culo…
– La stanza con le pareti in legno era la stessa, la scrivania in mogano era la stessa, ed anche i due volumi bellamente disposti in un angolo della stessa, come se qualche manina scrupolosa vi avesse amorevolmente provveduto. Solo il libricino con dedica non c’era più: il primo ministro non era più primo ministro. C’era la poltrona confortevole come una madre premurosa, la lampada in vetro antico emetteva la stessa luce rassicurante ed accogliente. Eppure, eppure… c’era qualcosa che stonava in quel rasserenante quadretto che la luce del nascente sole di maggio faceva brillare come un quadro di Norman Rockwell.
Oh, pure intenditore d’arte.
– C’era qualcosa, anzi, non c’era qualcosa… mancava qualcosa.
La scrivania era intonsa. Priva di carte, atti, fascicoli, libri firma, normative, tabulati, moduli, elenchi, registri. Ebbe un sussulto il capo. E la palpebra sinistra ebbe un fremito, minimo, appena percettibile, un lievissimo tremore imparagonabile anche con il battito di ali di una farfalla. Ma quella leggerissima vibrazione ci fu. Un esilissimo brivido, quell’ onda tremula, come provocata dal volo di una libellula sfiorante le acque ferme di uno stagno, iniziò a propagarsi con la stessa inesorabile lentezza di un bing bang primordiale.
Eccolo, ora lo riconosco, il Culo di Gomma apocalittico.
– Ripresero a percorrere la sua scrivania, quelle carte, quegli atti bollati, quei fascicoli ricolmi. Ripresero, nei giorni che seguirono. Ma non con la stessa intensità, non con la stessa frequenza. Li vedeva nel sonno, incartamenti, tabulati, libri firma, in fila indiana fermarsi dirottare verso altre stanza, su altre scrivanie. Una lenta ma sempre più ampia diaspora verso altri lidi, altre terre promesse.
Biblico no, Culo, ti prego…
– Passarono gli anni, i mesi e se li conti anche i minuti e le decisioni che un tempo prendeva erano già state prese da altri, i pareri che dispensava erano già stati redatti da altri, le caselle sulle quali un tempo incombeva la sua ombra erano sempre meno; anche il ficus benjamin, quello di un metro e venti, del quale si vantava con i frequentatori della sua stanza, lo aveva abbandonato. Ora faceva bella mostra di sé nel giardino del pian terreno. Chi glielo aveva preso? Si chiedeva, di notte, quando l’acufene, un sordo rumore di motore di nave, rimbombava nelle sue tempie in un ritmo sghembo con il tremore della palpebra, ormai evidente come una girandola mossa dal vento. Si voltava verso il centro del letto in cerca della consorte. Ma non c’era nessuno. Erano mesi che lo aveva lasciato, trasferitasi nella villetta al mare, da quando alla squillante ilare facondia di chi ce l’aveva fatta si erano sostituiti ostinati monosillabi in sordina.
“Facondia”, oh Culo, ma dove li hai rubati ‘sti termini?
– Il capo non era più il capo, il loden era ormai di un verde stinto, la sciarpa rossa infeltrita e sfilacciata, il cappello flaccido pendeva dallo stesso attaccapanni che un tempo lo aveva visto fiero e teso come una garrente bandiera al vento. L’occhio un tempo vispo e vigile era ora acquoso e velato, il baffo sale e pepe ridotto ad una piccola insulsa mosca.
– E quindi? – gli chiedo mostrandogli l’orologio.
– E quindi, sì, il lavoro ha influenza sulla vita privata, cazzo se ce l’ha. – mi fa Culo passando oltre.
Pensi di avere abbastanza conoscenze per svolgere i tuoi compiti?
Si soffia sulle dita, come per dire chi ne ha più di me? Nessuno.
Andiamo avanti, finalmente, siamo alla penultima sezione.
(Riconoscimenti e ricompense.)
E qui, è una lunga sequenza di voti bassi che io e Culo di Gomma infilziamo come uno slalomista le porte strette di una discesa olimpica.
Da quando esiste il lavoratore dipendente, questi è sempre insoddisfatto dei riconoscimenti, ricompense, premi, bonus e tutto ciò che concorra a rimpolpare la retribuzione base che per dogma è sempre bassa, insufficiente, scarsa, affatto rispondente all’impegno, la professionalità, la preparazione del lavoratore. Guai a mostrarsene soddisfatti. E’ un monito che i più vecchi inculcano alle giovani leve appena entrate in azienda. Mai palesare contentezza, appagamento o addirittura gratitudine, soprattutto quando l’azienda elargisce qualcosa. E’ quello il momento di lamentarsi e mostrare vieppiù malumore e insoddisfazione, anche velati da un’ombra di offesa. Perché avremmo meritato di più, molto di più di quei quattro spicci che ci state regalando e che accettiamo solo per buona educazione… Ci state umiliando, ma sopporteremo pure questo… Alla prossima, maledetti!
Questa parte scorre veloce, lesta e guizzante, colpi di fioretto inflitti a destra e manca.
Sono le 18.50 quando affrontiamo l’ultima sezione, quella sulla cultura aziendale.
Hai chiaro la mission dell’azienda e puoi identificarti con essa al 100%?
– Mission…, Mission non era quel film con De Niro e quell’altro che facevano i preti. Questa la so! – fa Culo di Gomma, manco fosse a Rischiatutto.
– No Culo, no. Non il film Mission, ma la mission: valori condivisi, obiettivi chiari e definiti e soprattutto comunicati, possibili e raggiungibili…
– E sfidanti, per Dio! – conclude Culo con un impeto da cavaliere della tavola rotonda.
Ecco, a quella parola, si incrina un poco la mia innata fiducia nel mondo, il sistema Paese, il circolo degli scacchi che frequento da trent’anni, la mia azienda che da altrettanti anni mi dà da mangiare, mi cura, mi veste, mi ha permesso di comprare un tetto per la mia testa, ha nutrito e cresciuto i miei figli, li ha fatti studiare, ha pagato loro lezioni di nuoto, la colonia estiva, le scarpe col baffo griffato, il violino che non hanno mai studiato, il primo viaggio all’estero, l’auto di seconda mano. Si incrina un poco. Culo mi guarda e sa, perché lo sa, di aver fatto breccia nel muro del mio insensato ottimismo.
Perché nella parola “sfidante”, associata ad “obiettivo”, è racchiuso il nucleo forte, inseparabile, imprescindibile, insondabile, inesplorabile, impenetrabile, indispensabile, inevitabile, del rapporto azienda/lavoratore. Quando l’obiettivo è sfidante tutti sanno che si tratta di una sfida che rasenta l’impossibilità. In quel mentre siamo tutti Davide al cospetto di Golia. Quante volte Davide ha sconfitto Golia? Una. Una soltanto. Ma non è solo questo. C’è qualcosa di più sottile e subdolo. L’obiettivo è sfidante anche quando non lo è, cioè quando è alla portata anche del più fesso della compagine. Perché l’obiettivo deve essere sfidante, a prescindere. Ne va del buon nome aziendale, della reputazione dei dirigenti, del rango dei poeti del foglio di calcolo che veleggiano tra le formule come delfini saettanti tra un onda e l’altra.
La parola “sfidante” mette fine alla mia già scarsa predisposizione verso quel susseguirsi di domande inanellate l’una all’altra come gli elementi di una catena alla quale siamo legati senza rendercene conto. La debole impalcatura che avevo eretto, per me e il mio amico Culo di Gomma, per arrivare senza incidenti di rilievo alla fine del sondaggio era crollata all’apparire degli obiettivi sfidanti, ipocrisia e falsità seconda solo ad un altro concetto ancora più falso, ancora più ipocrita, ancora più bugiardo e insincero, sbandierato, sfoggiato, esibito, vantato da tutte le aziende del mondo ed al quale le plebi infinite senza nome e senza volto dei dipendenti finiscono sempre per credere e farsi abbindolare: la meritocrazia.
Quella parola temuta, odiata, venerata, riverita, idolatrata si materializza nell’ultima domanda:
Pensi che l’azienda stia promuovendo l’inclusione, proteggendo i dipendenti da discriminazioni e molestie, stia applicando un criterio meritocratico nelle scelte sul personale?
Eccolo, il mostro a tre teste, gioia e dolore, fuoco, acqua, aria e terra, sirena che con il suo canto ottenebra le nostra facoltà mentali rinnovando anno dopo anno dopo anno dopo anno il nostro patto mortale e vitale, viscerale, larvale, salvifico e esiziale, col cordone ombelicale che ci nutre, avvelena, uccide e resuscita, anno dopo anno, anno dopo anno, anno dopo anno… la meritocrazia.
– Inclusione, discriminazioni, molestie? – Culo ripete a macchinetta – Da quand’è che siamo diventati una comunità hippie? – Il cinismo e l’ostentato oscurantismo di Culo a volte irrita anche me che gli voglio bene.
Poi, si riprende.
Dopo aver spento il computer ci appropinquiamo ad abbandonare l’ufficio.
Usciamo fuori ed è già buio. Sono triste ed anche un po’ depresso; è l’effetto che mi fa la sarvei, tocca nervi scoperti, mette a nudo problemi sepolti, rinnova recriminazioni dimenticate.
Mi guarda Culo di Gomma, coglie il velo di mestizia che mi si impiglia tra il naso e il labbro superiore e quando le nostre strade si dividono, ruota il dito indice e mi dice: – Così gira il mondo attraverso la notte smisuratamente ostile e silenziosa.
So che non è robetta sua, quella frase così pomposa ma maledettamente adeguata alla circostanza che mi alberga in viso, chissà quale frasario via internet avrà saccheggiato, ma gli voglio troppo bene al mio amico e collega Culo di Gomma per contestargliene la proprietà. Vorrei baciarlo ma so che non apprezzerebbe.
Poi arriva il tram e la sarvei si stempera e si sperde tra i rumori dei binari sferraglianti.
Mi è molto piaciuto. Tantissime citazioni tra film, libri, canzoni. Culo di Gomma è sicuramente un famoso meccanico 🙂 Complimenti mi ha tenuto desto sino allo splendido triste, solitario final