Premio Racconti nella Rete 2022 “L’incontro” di Fabrizio Biuso
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Gioacchino avanzava a piccole falcate con le sue gambe storte da fauno e la pancia tonda, più tonda di quella di un fauno. Procedeva in salita sulla strada sconnessa nella parte più antica del borgo, dove non esistono balconi e i problemi di una famiglia tengono banco nelle cene di tutti.
La trovò incredibilmente affollata. Tutti già lo sapevano. La parola privacy non era mai entrata lì. Forse, pensò, proprio perché straniera e fredda ed estranea alle dinamiche di un piccolo borgo. Troppo moderna per trovare il piacere di infiltrarsi nelle piccole crepe di tufo che si aprivano in prossimità delle finestre o delle porte. Contrariamente alla curiosità, che tra le crepe e gli spiragli delle finestre socchiuse si muoveva liberamente; e proprio grazie ad essa le voci lo avevano raggiunto, scovandolo accoccolato su un alto sgabello mentre onorava la sua merenda, una pizza ripiena che gocciolava olio. Appena aveva scorto la Bisbetica -la vecchia gestrice della pizzeria- entrare aveva capito dal tono acceso delle sue guance che stava trattenendo notizie importanti. Solo quando incrociò il suo sguardo capì che lui era l’interlocutore e che la sua pausa dal lavoro era ormai rovinata. Diede un ultimo morso alla pizza ripiena, prima che la Bisbetica potesse rovinargli l’appetito.
Era il maggio più caldo degli ultimi cinquant’anni e Gioacchino lo avvertiva in ogni suo bulbo pilifero. Dovette ammettere che il signore distinto con la divisa dell’aeronautica militare aveva detto la verità alla tv, il caldo era insopportabile e per giunta lui stava arrancando in salita cercando di guadagnare secondi preziosi.
La Bisbetica gli si era fatta incontro con gli occhi spalancati come se il messaggio stesse traboccando dal suo corpo ancor prima di essere detto. Aveva portato la sua stazza al fianco di Gioacchino e investendolo con il suo alito rancido gli aveva detto di correre immediatamente a casa.
Ansimando e incespicando sulle sue gambette corte, Gioacchino aveva girato l’angolo e ora percorreva l’inizio della via di casa, che si trovava all’estremità opposta, nascosta oltre le tegole imbiancate dai licheni secchi che curvavano in salita. La sua presenza non era passata indisturbata, dacché tutti si girarono al suo indirizzo; molti erano affacciati alle finestre del vicolo, altri si trovavano sull’uscio di casa, accompagnatori silenti del tempo e della vita. Notò come fossero tutti ben vestiti in abiti neri inamidati. I loro sguardi mogi esprimevano una profonda pietà ma lo scintillio dei loro occhi non preannunciava ancora l’irreversibile. Quando li superava, le loro teste si abbassavano con il rispetto che si mostra ai santi e ai morti, ma lui non era né l’uno né l’altro. Desiderò solamente poter essere ancora in pizzeria a scolarsi una coca gelata prima di ritornare al lavoro. Sentiva i loro occhi battere sulla sua schiena e scottare come i raggi del sole del primo pomeriggio. Le forze gli vennero meno e si appoggiò al muro con una mano per riprendere un po’ di fiato. Dalla folla circostante sentì levarsi qualche brusio di disappunto.
Una mano forte e pelosa gli strinse il polso e Gioacchino riconobbe il vecchio Ermanno farglisi in contro, ancora ferreo nonostante la postura gli ricordasse una foglia d’acanto. Si chiese quanti anni potesse mai avere, visto che se lo ricordava già vecchio e rattrappito sin da quando era un bambino. Come se avesse letto nei suoi pensieri, Ermanno distese le labbra che sembravano solo un’altra tra le tante rughe del suo volto e gli suggerì di salire in casa, che avrebbe fatto prima. Sottolineò l’importanza del gesto arcuando le sopracciglia.
Gioacchino cercò invano di liberarsi dalla presa e avvertì una fitta propagarsi dal punto in cui la mano lo stringeva fin tutto il braccio destro, risalendo fino alla spalla fino a stordirlo. Decise che mettersi a discutere con Ermanno sarebbe risultato in un maggior dispendio di energia e tempo, per cui alzò la mano sinistra in un gesto di acconsentita sottomissione e si decise a seguirlo.
L’accolse l’odore di muffa stagionata che impregnava le fondamenta dell’abitazione. La temporanea cecità che seguì al suo ingresso in quell’antro buio sembrò accentuare il suo olfatto e Gioacchino ebbe l’impressione di annusare un’umidità stantia, sotterranea. Al termine delle solide scale in pietra c’era un uscio aperto oltre il quale vibrava una luce verdastra, probabilmente una zanzariera ricavata con un vecchio tessuto che adesso svolazzava nell’aria pigra del pomeriggio assolato.
Ad attendere Gioacchino seduta al tavolino di legno plastificato che poggiava su quattro zampe di ferro arrugginite c’era Ada, che i suoi genitori chiamavano Sora Serpetta, storpiatura di Aspirinetta –il suo vero soprannome-, per via della sua fama di guaritrice, nonché di grande pettegola.
Mentre chinava il capo per salutarla e si apprestava a sedersi, Gioacchino si chiese se fosse stata lei a diramare la notizia che era giunta fino alla Bisbetica.
«Non c’è tempo per sedersi, Chinino» gli disse perentoriamente Ada. Lo aveva sempre chiamato così, forse perché quel diminutivo fantasioso le richiamava la sostanza medicamentosa. La donna lo guardò da dietro i suoi profondi occhi scuri, si aggiustò lo scialle di lana che portava sulle spalle nonostante la temperatura torrida e poi indicò con l’indice curvo un bicchiere che era posato sul tavolo. Era sbeccato e reso opaco dal deposito di calcare, nonché dall’usura. Al suo interno Gioacchino notò un liquido dal colore marrone tappezzato di bolle dai contorni dorati che vi si muovevano lentamente.
«Non domandarti cosa ci sia dentro. Bevi e basta» riprese la Sora Serpetta, vedendolo titubante e con le mani ancora poggiate sullo schienale della sedia. «Se non bevi non arriverai mai in tempo!»
Già! Per un attimo Gioacchino aveva accantonato il motivo per cui si era trovato sulla strada di casa e a quell’ora insolita in cui tutti gli anziani che non vedeva più da tempo sembravano essersi dati appuntamento. Si avvicinò e guardò dentro al bicchiere. Le gocce oleose continuavano a muoversi come se ci fosse una sorgente sotterranea a farle ribollire. Se non si fosse trattato di Sora Serpetta, in cui tutti nutrivano una fiducia cieca, si sarebbe girato e se ne sarebbe andato. Ma decise di seguire il suo consiglio, anche perché nel frattempo Ermanno aveva salito le scale e occupava la soglia della cucina.
Il liquido scivolò velocemente nel suo esofago, un po’ caldo, un po’ freddo, sicuramente viscido. Avvertì il petto martellare, ma forse si trattava della reazione schifata del suo stomaco. Uno! Due! Tre! quattro colpi e poi gli sembrò che una strana forza entrasse nei suoi polmoni al suo respiro. Si sentì meravigliosamente forte e smise di sudare.
«Passa dalla portafinestra», soggiunse infine la Sora Serpetta, allungando lo stesso dito con cui aveva indicato il bicchiere.
Gioacchino la ringraziò e spostò la tenda di tela verde. Oltrepassò la sottile balaustra di ferro arrugginito oltre la portafinestra e si ritrovò ad affacciarsi su un vicoletto interno. Poco spostato più avanti c’era il tetto di un’altra casa. Gioacchino si abbassò e spiccò un balzo, atterrando fragorosamente sulle tegole vecchie dell’edificio, che si spaccarono sotto il suo peso rivelando una fitta popolazione di vermicelli. Riprese a camminare finché trovò un piccolo ponticello che univa le case di fronte nella via seguente e quella dopo ancora. Sentiva la gente accompagnare ogni suo salto con dei mormorii prima che evaporassero nella calura meridiana. Il suo corpo sembrava immune alla gravità e si muoveva con eleganza mentre risaliva la via in quella maniera insolita. Poi finalmente intravide l’attico di casa sua, che si trovava sul punto più alto della via e dominava l’intero borgo. Accelerò, sperando di essere ancora in tempo. La Bisbetica gli aveva detto che suo padre era in punto di morte.
Giunto di fronte a casa si rese conto che c’era troppo dislivello e non avrebbe mai raggiunto il tetto. Scorse però il cavo della linea telefonica e lo percorse come un equilibrista, sbalordito che reggesse il suo peso. Si aggrappò alla ringhiera e si tirò fin sull’attico, sicuro che avrebbe trovato la finestra aperta. Notò dai brusii che tutti gli abitanti della via ormai si erano ammassati sotto la casa e gli sembrò di riconoscere addirittura Ermanno e la Sora Serpetta tra le facce bigie e i vestiti neri.
Quando ebbe scavalcato la ringhiera, si ritrovò faccia a faccia con suo padre. Aveva un colorito terreo e puzzava di muffa. Era lo stesso odore che aveva avvertito a casa della Sora Serpetta. Ora che ci pensava, era stato al suo funerale anni addietro. Ricordò anche quelli di Ermanno e della Bisbetica.
Nei buchi neri del sorriso sdentato del padre Gioacchino provò la vertigine e rivisse la solitudine del momento in cui gli aveva chiuso la bocca rimasta alla ricerca infinita dell’aria.
«Finalmente hai capito figlio mio. Bentornato a casa».
Uno! Due! Tre! quattro colpi e non seguì nessun respiro. Si irrigidì.
Indubbiamente originale e ben scritto, mi è piaciuto. Complimenti.
Grazie Gabriella. MI fa piacere sapere che questo piccolo racconto ti abbia lasciato qualcosa.
Originale e ben scritto. Molto bella l’immagine iniziale della curiosità che serpeggia tra le vie del paese. Complimenti.
L’atmosfera del borgo, nell’incipit, è resa con rigore realistico, poi la narrazione evolve nelle surrealtà e le variabili della morte prendono corpo. Fabrizio non si sottrae alle rischiose forme del sopranaturale e le gestisce con uno scatto di immaginazione per niente scontato.