Premio Racconti nella Rete 2022 “Il nastrino rosa” di Maria Pia Rosati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Ci siamo incontrate per la prima volta nel lungo e anonimo corridoio di un ospedale, io e Tea, mentre eravamo in attesa della visita. Con il bisogno di cercare un volto amico con cui condividere quel momento, ci siamo rincorse con lo sguardo e subito riconosciute fra tutti gli altri pazienti. Avevamo bisogno di esserci l’una per l’altra per sentirci meno sole, anche se non ci eravamo mai viste prima.
Così abbiamo cominciato a parlare senza freno e, in pochi minuti, siamo finite col raccontarci gli eventi più importanti delle nostre vite con quella confidenza mista a cameratismo che solo noi donne sappiamo instaurare. Mi era già successo in gravidanza quando incontravo altre donne in attesa nello studio del ginecologo, perfino in sala parto. Tutte a raccontare le proprie paure mescolate allo stupore e all’attesa delle emozioni che avremmo vissuto. Un momento di grande intimità e un bel ricordo da portarsi dietro.
Ma stavolta è stato diverso. Abbiamo parlato ininterrottamente come se non potessimo più farlo, come se il tempo per noi fosse in scadenza. Ci siamo dovute allontanare quando i nostri nomi sono stati scanditi dall’infermiera che ci chiamava in due stanze diverse. Ma prima di andare via l’ho aspettata senza neanche sapere il suo nome. Quando mi ha visto mi è sembrata felice di rivedermi e grata di averla attesa. Come si può diventare da sconosciute così intime dopo poche ore?
Quello che lega me e Tea è un nastrino rosa che le dottoresse hanno appuntato sul camice, un simbolo che ogni donna ha imparato a riconoscere. I medici e gli infermieri che ci curano fanno parte della “Breast Unit” e l’espressione in lingua inglese risulta provvidenziale per evitare la frase che non vogliamo pronunciare: abbiamo un cancro al seno. Il primo sguardo che ci siamo scambiate è stato di paura, il mio, di speranza, il suo. Ma in fondo agli occhi ci ponevamo la stessa domanda: perché proprio a noi?
Tea mi ha raccontato che in questo momento della sua vita non ha un compagno e non ha avuto figli, ma mi confessa di sentirsi in colpa perché con la sua malattia ha sconvolto la vita dei suoi fratelli e dei nipoti. E allora ho pensato alla mia di vita. Fino a quel momento avevo pensato che fare dei controlli mi potesse preservare dalla malattia. Un pensiero assurdo, eppure in quella percentuale non potevo rientrarci proprio io. Ricordo che al primo sospetto, l’unica parola che ha attraversato la mia mente, è stata “ca..o!”, solo questo. Buffo, no: una parola tanto banale per un momento cruciale, uno spartiacque fra il prima e il dopo. Poi ho provato la sensazione di essere stata presa per il collo, di aver perso la mia libertà, quella di poter organizzare la mia vita, le mie giornate. La malattia e la sua gestione, da quel momento, si sono prese tutto il mio tempo e le mie energie e quel che rimaneva è venuto dopo: la famiglia, il lavoro, perfino la voglia di stare con gli amici, quella di andare a comprare un vestito o di andare al cinema. Tutto è stato inghiottito, perfino la routine di quelle giornate sempre uguali che avevo sempre detestato. E poi lo sforzo di trovare un motivo per ogni gesto da fare, anche il più banale: perché alzarmi dal letto la mattina? Perché mangiare? Perché lavorare? Perché fare l’amore?
Io e Tea, quella mattina, ci siamo scambiate il numero di cellulare dopo aver scoperto che abitiamo sulla stessa strada; ci potremmo addirittura vedere dalle finestre. Una casualità che ci è sembrata provvidenziale. Potevamo incontrarci al bar sulla piazza per un tè o un aperitivo. Ci siamo lasciate con questa promessa.
Eppure in questi mesi non ci siamo mai chiamate e solo adesso ne comprendo il perché. Dentro l’ospedale siamo due malate e come tali ci confidiamo senza nasconderci, ma quando siamo fuori e ci mescoliamo agli altri non siamo diverse dalle altre donne che incrociamo per la strada, nessuno sa della nostra battaglia e possiamo fingere che niente sia successo. Incontrarci fuori significherebbe dichiararci malate agli occhi del mondo. E questo non lo vogliamo né io né lei. Non è vergogna, solo pudore perché la malattia è una faccenda intima e tocca le nostre fragilità più profonde e nascoste. Ora lo so.
E’ da un po’ che non la incontro e mi manca. Tea ha sul volto un colorito roseo a dispetto della chemioterapia, gli occhi chiari sempre sorridenti sotto il berretto di lana blu che porta calato sulla fronte. Eppure è così bella da non avere bisogno del trucco, ma anche dura come roccia: tutti i medici e gli infermieri la conoscono perché lei non si siede mai, nemmeno se bisogna aspettare delle ore: stare in piedi le serve per affermare la sua forza di fronte alla malattia che sta combattendo per la seconda volta. Io, invece, appena posso cado sulla sedia e mostro tutta la mia fragilità, con le lacrime che scorrono giù senza permesso e senza ritegno nei momenti di sconforto.
Mentre scrivo, mi accorgo di quanto Tea mi manchi e vorrei andare a cercarla: è stata la prima compagna di questa avventura e la ricorderò sempre per questo, come il primo giorno delle elementari quando ci si siede allo stesso banco e si rimane compagni per tutta la vita. Però freno l’impulso e mi trattengo: aspetto che accada di nuovo, per caso. Perché altrimenti ci saremmo incontrate la prima volta? Che senso avrebbe se finisse tutto così? Sto imparando a scovare negli eventi segreti messaggi da decifrare, così preziosi per dare un senso alla nostra vita quando crediamo di avere perso la direzione in cui andare.
Negli ultimi mesi mi sono chiesta spesso come Tea stia trascorrendo i lunghi giorni e le interminabili notti. Di giorno la paura viene dominata dalle tante occupazioni con cui ho sempre riempito la mia vita. E funziona ancora adesso. Ma la notte fa affiorare tutte le incertezze, le angosce per i controlli medici che sembrano ormai scandire il mio tempo. Mi chiedo se Tea in questo periodo abbia dormito, se sia riuscita a svolgere il suo lavoro di ingegnere. Le vorrei dire che, alla fine, sono stata fortunata: ho terminato la radioterapia. Spero che l’abbia terminata anche lei.
Ora avrei bisogno di un suo dei suoi tanti sorrisi rassicuranti. Vorrei che mi dicesse: “Andrà tutto bene”, nel senso che guariremo e che ci ritroveremo su un tavolino di quel bar sulla piazzetta dove affacciano i nostri balconi per incontrarci di nuovo e continuare a raccontarci delle nostre vite, ma con gli occhi luminosi della speranza. La nostra storia si è bruscamente interrotta e quella casualità che per tante volte ci ha fatto percorrere nello stesso momento lo stesso corridoio sembra si stia divertendo a tenerci lontane, proprio adesso che tutti hanno bisogno di rassicurazioni. Spero che un giorno troveremo il coraggio di partecipare alla maratona di beneficienza con tutte le altre donne che hanno vissuto la nostra stessa esperienza. E che troveremo il coraggio di superare la paura e magari di correre insieme con il nastrino rosa appuntato sulla maglietta. A presto, cara Tea.
La speranza, il desiderio di vita pervadono questo racconto drammatico e al tempo stesso molto dolce. Ho trovato davvero luminoso il finale, col suo messaggio che non ci sia niente da nascondere o da vergognarsi nell’essere o nell’essere stati gravemente ammalati. Dieci anni fa sono sopravvissuto ad un incidente stradale grave, del quale porto ancora oggi alcuni postumi, quindi il tema di questo scritto mi colpisce in un modo particolare. Complimenti
Il fiocchetto rosa come oggetto magico in questo racconto e nella vita di molte donne. Narrazione fluida, senza alcuna ricerca di compassione né inutili fronzoli. Molto bella la frase: “E poi lo sforzo di trovare un motivo per ogni gesto da fare, anche il più banale”.
Racconto ben scritto e con buon registro narrativo.
È una bella storia, ben scritta. Fatico a trovare parole per commentarla perché il tema per me è difficile, ma condivido le cose dette nei commenti precedenti.