Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Dal balcone” di Antonio Faita

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Quando, nell’estate del 1996, ci trasferimmo in casa nuova, fui colpito dal numero di condomini spuntati in quegli anni nella zona, per l’appunto di espansione urbanistica, denominata PEEP3. La casa, che gli zii avevano pensato per noi, aveva uno scoperto a piano terra che ricalcava l’angolo trafficatissimo tra le vie Vittorio Alfieri e Carlo Massa. A qualunque ora del giorno o della notte mi affacciassi fuori, i palazzi erano lì, statuari, presenze ingombranti.

Erano palazzine di tre, quattro, cinque piani, tutte provviste di ampie e rozze balconature che solo per sbaglio richiamavano l’architettura razionalista e che invece erano destinate, già nella mente di chi le aveva progettate, alla chiusura abusiva con finestre e porte posticce, d’anodizzato. La finalità era quella di ricavare un’ulteriore stanza: un ripostiglio, una stanza attrezzi, locali che non avevano bisogno di riscaldamento o acqua corrente. I più audaci, però, si spingevano alle canne fumarie e alle cucine economiche: l’abuso più selvaggio. Mi affacciavo, dunque, su una selva di brutture dai vetri opacizzati, che lasciavano trasparire pezzi intimi di quotidianità: mazze di scopa impilate, scarpe accatastate su armadi a vista, profili scuri di scatole, quadrate, rettangolari. Mai libri o librerie. L’aspetto più interessante era la presenza umana, palese, svergognata. Sui balconi, infatti, complice il clima mite, sembrava svolgersi buona parte della vita della casa. Si fumava, si stendevano i panni, si dava l’acqua ai pochi vasi da fiori; nella stanza abusiva si intuivano tavolate, dialoghi, lavori di bricolage, passioni di una vita. Una volta ho visto un ragazzo ruttare e ricevere almeno tre echi di rimando.

La donna abitava al terzo piano, sulla destra rispetto al mio sguardo che di solito dava le spalle alla  veranda. Il suo era un balcone ad angolo di cui era stato chiuso uno dei due lati, il più corto: si era limitata ad avere un piccolo illecito ripostiglio. Era alta, magra, vestita di nero, abito lungo, sempre, con o senza maniche. Neri i capelli, alta, abnormemente, la loro attaccatura sulla fronte. Avrà avuto quarant’anni. La pelle era bianca, come l’interno del guscio di un tartufo di mare. Quasi tutti i giorni la vedevo armeggiare con uno stendino alto, come alta era lei. Raccoglieva, stendeva il bucato. Con contegno posizionava le mollette e le pezze umide e pesanti o leggere e vaporose, senza un movimento che fosse di troppo: sempre ritta su due larghe spalle mascoline, le braccia attaccate al corpo: movimenti rapidi, mai sgraziati. Ero catturato dalla sua fronte altissima; per il resto, una presenza banale.

Sarà stato un giorno di inizio settembre quando, finito con lo stendino, alzò lo sguardo. Malgrado la distanza scorsi chiaramente il volto difronte a me: rideva.

Ero lì, in piedi, ben piantato sulle piastrelle in gress color del caco. Non stavo facendo nulla in particolare, se non guardare, appunto. Ero ricambiato. Feci una sforzo; cercai di capire: guardava me? Rideva di me? O sorrideva?

Mi concentrai sui dettagli: le labbra erano strette e lasciavano intravvedere dei denti, bianchi più della pelle; in mezzo il nero del faringe: era una bocca semiaperta. Le rughe delle guance (ma c’erano davvero?) piegavano verso l’alto. Eravamo ad almeno venti metri di distanza e lei era un Renato Zero beffardo. Mi stava guardando! Mi stava guardando? Venti metri di di dubbi. Non sorrideva, rideva a pieno volto, ma certo, mi sembrava anche di udire il gorgoglio dell’ugola: rideva, e a pieni polmoni!

E ancora: cosa c’era da ridere? Cosa, di me, la faceva ridere?

Passarono dieci lunghissimi secondi. Poi mi diede le spalle, infilò la porta d’anodizzato sul gabbiotto e se la richiuse dietro.

Quell’anno iniziai la seconda media. Tante cose mi interessavano in seconda, ma tra queste non c’erano gli insegnanti, poco le materie, meno che meno l’insegnamento di religione. A insegnarla, la religione, era un omone sui quaranta, dal capello corto, unto e corvino, stempiato, dal naso largo, occhi piccoli e porcini e un sorriso ebete. Un laico. Impartiva concetti melensi sulla bontà del creato, sulla bellezza del paradiso e sulle pene terribili degli inferi comminate ai peccatori. Sentendomi io pienamente dalla parte dei buoni e dei pii tendevo ad assopirmi mentre parlava; a volte giocavo a schicchere con palline di carta insieme ad Aldo Minerva, anche lui sordo alle reprimende sui cattivi, non tanto in quanto buono, quanto testimone di Geova.

Una mattina, sarà stato autunno inoltrato, l’omone non si presentò per la sua ora. Al suo posto arrivò il bidello Ippazio che cercò di mantenere calmi gli animi. Invano. Se gli inferi sono un brutto posto, una classe di scuola media disagiata come quella non era tanto meglio.

La settimana successiva l’ora di religione fu riempita da un supplente. Una supplente. La supplente. I nostri banchi non erano rivolti verso l’ingresso dell’aula, pertanto il suo ‘buongiorno’, entrando, non fu che il saluto di una sconosciuta. Ma appena vidi le spalle su cui cadeva la notte del vestito, e quei capelli, non ebbi dubbi che fosse lei.

Scoprii che si chiamava Maria ed era piena di rughe. Avrà avuto sessant’anni. La fronte alta era meno inquietante della sua calvizie avanzata. Erano pochi e lisci quei capelli, superstiti sfiniti di una tempesta marina.

– Bene ragazzi, silenzio! Prendete il libro di testo. Dove siete arrivati con professore Enzo?-

– L’imu lettu tuttu, signò, nu facimu nienzi!* – Disse il capobanda D’Elia, seguito da sottofondo ridacchiante.

– E va bene, cosa vorreste fare allora?-

– Nienzi profossorè!!!-, le risate aumentarono

– Mi dispiace, ma qualcosa dobbiamo fare. Sostituisco Enzo oggi e la prossima settimana, ma facciamo qualcosa..- La sua arrendevolezza era l’anticamera del chiasso sfrenato che seguì.

– Silenzio, silenzio per l’amor del cielo!- Aveva una voce melliflua, esasperata ed esasperante;  Rosanna Lambertucci non avrebbe saputo fare di meglio.

Poco prima che anche il mite Anthony si alzasse per unirsi al gruppetto in fondo a destra che si stava scambiando figurine aggiunse:

– Vi hanno mai parlato dei morti che vivono con i vivi!?-

– eh sì! Allu camposantu tutti quiddri ca oi!,-** e giù un boato delirante e corale

– No, no, dico qui tra noi, anche ora..’

Colpiti, facemmo calare il silenzio. Maria si fece coraggio e proseguì:

– Sì, sono qui tra noi, sono i morti che conosciamo e che guardano quello che facciamo, come ci comportiamo, se diciamo brutte parole, se ci comportiamo male con i professori e con i genitori’

– Ma i morti non sono solo all’inferno, o in paradiso?, obiettò Camilla, che vantava una lunga attenzione con Enzo, oltre che anni di militanza più o meno volontaria in catechismo.

– I morti possono essere in più posti contemporaneamente.-

– Ma quello non era Gesù?- ribattè Camilla con solita cocciutaggine

– Anche ai morti è consentito di poter essere dove vogliono, e in più luoghi. Non avete mai sognato, per esempio, una persona che conoscevate? Bene, questa è la prova che i morti possono essere proprio dove vogliono.-

Ancora silenzio.

– I morti ci giudicano, sanno chi si comporta bene e chi si comporta male.- proseguì – E allora conviene comportarsi bene, perché poi saremo morti anche noi e saranno i morti stessi a giudicare come ci siamo comportati in vita.-

– E come li possiamo vedere i morti, oppure sentire?, chiese allora D’Elia, catturato, serio. Non l’avevo mai sentito parlare in italiano prima di allora.

– Di solito non si vedono e non si sentono- disse Maria, -a meno di qualche eccezione..-

Secondi di palpitazione, Maria continuò spontaneamente

– Le eccezioni possono capitare quando ci vogliono comunicare qualcosa dall’aldilà. E non mi riferisco ai numeri del lotto. Succede quando vogliono dirci che stanno bene, che le nostre preghiere sono arrivate alle loro orecchie. Oppure ci vogliono consolare di qualche grande dispiacere che la vita ci ha dato.-

– E a lei è mai successo?-

– Sì!-

– Quando?- Allora fui io a lanciarmi.

– Ah, diverse volte in realtà. E succede quando meno te lo aspetti. Quest’estate, per esempio, ho incontrato mio figlio. Era di fronte a me, davanti a un verandino che vedo dal balcone. E nonostante fosse lontanissimo sentivo chiaramente le sue parole. Mi diceva che andava tutto bene, lassù in Paradiso, di non piangere tutte le notti a causa del suo destino. Non era colpa di nessuno-

Maria guardò tutta la classe, con gli occhi di chi non guarda nessuno in particolare. Quando le sue pupille passarono sopra il mio banco quel brivido che era fermo in testa mi scese per tutta la schiena.

E la sua bocca minuta si allargò beata sul bianco cadaverico dei denti.

Quell’inverno mia zia mi vide per lo più piantato sulla sedia dello studio, certo scontenta di non veder sfruttato per i giochi quel grande scoperto della casa nuova.

* l’abbiamo letto per interno, signora, non facciamo niente!

** Al cimitero tutti quelli che vuoi

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2 commenti »

  1. Un racconto dal sapore retrò in cui la nostalgia sembra evocare un ambiente in bianco e nero. L’ambiente popolare, che si evince dalla parlata locale, dall’assenza di libri all’interno della casa e dalla vita che scorre prevalentemente sui balconi, custodisce comunque una certa spiritualità che passa dallo sguardo dei due protagonisti.

  2. Grazie del commento Lucia. Sì, è un mondo ai margini, periferico, gretto. Eppure anche lì può accadere qualcosa di magico, o di inquietante..

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