Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Casting” di Stefania Salvi

Categoria: In Concorso, Premio Racconti nella Rete 2022

«A mà, dove stanno i fusò?»

Catiuscia non si è mai rassegnata a chiamarli leggins.
Figlia della fine degli anni Settanta, adolescente in quella terra di mezzo tra le speranze dei muri caduti e i bruschi risvegli di Tangentopoli, è già al secondo giro di moda.
A qualcuno tocca la zampa d’elefante, a qualcun altro le spalline di gommapiuma. A lei la ruota ha assegnato questa poca stoffa elasticizzata che spacciano per pantaloni e che sottolinea senza pietà ogni minimo difetto.

«Te l’ho lavati, stanno ancora stesi co’ la roba de tu’ fratello, che è tornato stamattina dal turno di notte. Ho fatto tutta una lavatrice, ma co’ ‘st’arietta asciugano presto, non te preoccupà.»

I fusò di Catiuscia sono mimetici, ma sui toni del rosa. Li aveva visti addosso a Giuliana, l’amica sua della scala G che li aveva comprati al mercato, e li aveva trovati subito irresistibili. All’ultima moda, aggressivi il giusto con quel tocco di femminilità che una giovane donna (sopra i 35 si dice ancora così, no?) non deve mai tralasciare.
Nemmeno se abita in una casa popolare di un quartiere dalla cattiva reputazione, neppure se stesa accanto ai suoi fusò c’è la giacca arancione fluo del fratello, lavoratore socialmente utile a 700 euro al mese, a casa di mamma e papà. Come lei, che invece è ancora disoccupata.

«Ma come l’hai lavati? Te l’avevo detto che oggi c’ho il provino e mi servono! Vabbè, li raccolgo pure se so’ ancora umidi e je do’ ‘na botta de phon.»

Maglietta con gli strass e gilet di jeans strappato nei punti strategici, capelli a onde effetto pomeriggio al mare senza spazzola, zeppe dorate. Si guarda nello specchio del comò della madre e si piace, poi si sporge in mutande sul balconcino per completare il look che ha scelto.
Alle 12 deve essere al teatro 3 di Cinecittà, dove fanno i casting per il nuovo programma di Canale 5. L’ha scoperto per caso quando è andata a farsi i capelli da Tatiana, «e meno male ma’, sta a diventà ‘na setta segreta pure il pubblico.»
Quel giorno, nella poltroncina accanto alla sua, era seduta una signora che non aveva mai visto prima, che parlava di una conoscente che faceva le pulizie negli uffici di Maria De Filippi. Una con gli agganci giusti, insomma. Così, mentre l’amica le montava le cartine per i riflessi viola, aveva ascoltato con molta attenzione quello che la signora diceva a Tatiana e alla fine l’aveva convinta a farsi dare il numero per iscriversi al provino.

Mentre prepara la cartellina con il book si chiede se ha preso tutto.
Dopo tanti anni si sente un po’ fuori allenamento, ma in fondo si dice che è come andare in bicicletta, fatto una volta non si dimentica più. E poi, con il curriculum di tutto rispetto che si ritrova, non c’è bisogno di molto altro.

Poco più che maggiorenne, durante un pomeriggio in centro con le amiche, era stata fermata da un tipo che le aveva chiesto se avesse mai fatto televisione.
«Guarda che te serve ‘na scusa mejo pe’ rimorchiacce, questa è vecchia», gli aveva risposto. Il tipo invece era davvero uno che cercava figuranti per i programmi televisivi e l’aveva invitata a un provino alla Dear. Era stata scelta subito per “I Fatti Vostri”, doveva ascoltare le storie di cronaca rosa e nera, sorridere o corrucciarsi al cenno dell’assistente di studio, applaudire al rientro dalla pubblicità. Siccome era carina la facevano sedere quasi sempre nel primo tavolino dietro il conduttore, il posto migliore per essere perennemente inquadrata.
In borgata era diventata una piccola celebrità, la fruttivendola all’angolo aveva addirittura iniziato a fare credito a sua madre e lei aveva la scusa per comprarsi i vestiti nuovi con le amiche, mentre consumava la videocassetta di “Pretty woman” registrata su RaiUno.
Il padre non aveva mai commentato le sue aspirazioni artistiche, anche se la madre le aveva raccontato che l’aveva beccato a fare le foto alla televisione quando lei appariva sullo schermo.
Finita la stagione, l’anno successivo non era stata riconfermata. Servivano volti nuovi, le aveva detto il capo dei selezionatori, che non era quello che l’aveva notata a piazza del Popolo. Così, a ventun anni si era iscritta a un corso professionale della Regione Lazio: la voglia di studiare l’aveva abbandonata in terza ragioneria, ma il padre insisteva che un pezzo di carta serviva anche per salire di qualche posizione nelle graduatorie del collocamento.
A ventitré anni si era diplomata parrucchiera, ma non aveva mai esercitato. In chimica era sempre stata una frana e il meno che poteva succederle era sbagliare una tintura; ogni tanto andava da Tatiana a fare qualche shampoo, giusto per non perdere l’allenamento.
Aveva provato anche a rientrare nel giro della tv dal sottobosco delle emittenti locali, come valletta in programmi di calcio notturni, fino a lisciare la partecipazione da concorrente al gioco dei pacchi, dopo essere stata scartata perché aveva scambiato Andrea Mantegna per un giocatore della Fiorentina.

«Nome e cognome, quanti anni hai, da dove vieni e cosa fai nella vita.»

Sapeva a memoria la sequenza delle domande che la voce senza faccia le rivolgeva, scrutandola dietro un monitor su cui era ripresa in primo piano.

«Proietti Catiuscia, 25 anni, so’ di Roma, disoccupata, anche se sarei parrucchiera.»

Fino a lì non era stato difficile. Quando la voce era passata alla cultura generale, niente di quello che le veniva chiesto le accendeva qualcosa nella testa. Anzi, più ravanava nei cassetti vuoti della sua preparazione, più non capiva cosa c’entrava conoscere i nomi dei pittori per aprire un pacco, quando bastava seguire una sensazione. E lei, a seguire le sensazioni, si sentiva bravissima.

«Ma’, scappo a prendere la metro. Ti chiamo appena ho fatto.»

Era ancora piccola, forse faceva la seconda media, quando avevano aperto quella mega stazione a due passi da casa sua. Suo padre l’aveva accompagnata al viaggio inaugurale, e a lei stare nelle viscere della terra con la luce perennemente accesa, senza la madre che sbraitava perché consumava troppo, sembrava un lusso senza paragone. E poi questo mezzo prodigioso, la metropolitana, la risucchiava tra i palazzi scrostati di San Basilio e la faceva riemergere in centro a due passi dallo struscio del sabato.

Stretta nel posto faticosamente conquistato al capolinea di Rebibbia, Catiuscia immagina scene epiche di film americani girati sulle metropolitane, macchine da presa e carrelli allestiti sui vagoni, mentre si guarda intorno e pensa che sulla linea B, almeno a quest’ora, non si riuscirebbe neanche a tirare fuori il cellulare dalla tasca e scattare una foto.
Figuriamoci suonare la fisarmonica. E invece a Santa Maria del Soccorso salgono un adulto e un bimbo, dell’età apparente di quattro anni con i capelli alla Neymar.
Un tempo li beccava tutte le mattine, quando frequentava il corso della Regione e scendeva a San Paolo. Aveva resistito fino all’attestato, poi era sparita lei, e pure loro. E adesso rieccoli.

A Catiuscia la musica piace da sempre. Da piccola passava ore davanti alla radio a transistor della madre e quando trovava la stanghetta della frequenza su un’altra stazione, ci metteva pochissimo a ritrovare Radio Dimensione Suono. Cantava ogni canzone, le sapeva tutte a memoria e le sarebbe piaciuto studiare seriamente, ma tra le bambine del lotto spopolavano i balletti di “Non è la Rai” mentre i suoi genitori non potevano permettersi nemmeno il doposcuola.
Ogni volta che sente suonare qualcuno per strada, però, nota sempre ritmo e intonazione. E proprio perché i musicisti da vagone non hanno quasi mai questo gran talento, crede che le performance di livello vadano invece sottolineate e distinte dalla massa dei cani senza appello con uno spiccio e un sorriso.
Il tipo di oggi è in gamba, suona a tempo le note giuste e ci mette anche del suo, con accordi e variazioni. Il bimbetto che sta con lui indossa pantajazz bianchi con le frange, giubbotto di pelle nera e scarpe da ginnastica con l’allacciatura a strappo, unico segnale della sua età.
Quello che potrebbe essere il padre esegue la colonna sonora del Ciclone in un gradevole arrangiamento gipsy, e lui, da ballerino consumato, acchiappa con le mani l’apposito sostegno e ci balla intorno agitandosi come una ballerina di lap dance, puntando i piedi a tempo e tirando fuori la lingua. Catiuscia si chiede dove abbia imparato a muoversi in quel modo e ad aggredire il palo come la più consumata delle signorine da strip club.
E mentre se lo chiede, il ritmo cambia.

È così che funziona: la prima fermata serve per l’esibizione, la seconda per la riscossione. Quando il padre attacca un rassicurante tango da balera, lui fa un inchino, prende dalla tasca del giubbotto un bicchiere di carta ciancicato e passa in rassegna tutti i passeggeri.
Da re della disco è tornato bimbo che chiede la carità.
Quando arriva davanti a Catiuscia, si ferma un secondo di troppo e la fissa, anche lui in cerca di un responso, proprio come lei.

«Piccolé, per me è un grosso sì.»

Spiccio, sorriso. Quintiliani, prossima fermata Tiburtina.

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2 commenti »

  1. Come si fa a non simpatizzare per Catiuscia? C’è tutto un viaggio che va ben oltre la linea B, fra solidarietà, speranze e sogni nel cassetto. Scritto con ironia affettuosa e quasi protettiva, con belle trovate, fresco e divertente.

  2. Grazie davvero, per il tempo speso a leggere e per il commento!

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