Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Nata migrante” di Sylvia Zanotto

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Sono nata per strada si può dire. Perché la mia famiglia viveva viaggiando. Mia mamma francese, mi diceva sempre: «non piangere, la casa non sono queste mura, ma queste braccia». E mi stringeva forte a sé, così forte che mi scioglievo in lei, le mie lacrime si asciugavano e il mio cuore riprendeva a sorridere. Mi addormentavo spesso così, ma non troppo: la casa non era soltanto mia, anche i miei due fratelli e la nostra sorellina reclamavano un posto caldo nel cuore morbido della mamma. Io sono la secondogenita. Primo è Renato, di due anni più grande, Menico è il terzo, ma lo abbiamo subito chiamato Mimì. Mimì aveva soltanto un anno meno di me. Sembravamo gemelli. E la più piccolina, una vera canaglia, era Lisette di sette anni, nata quattr’anni dopo Mimì. Che fratellanza! Io ero la più ingenua. Non capivo mai gli scherzi e così mi prendevano sempre in giro. «Lucie, trottola! Lucie rimorchio!» canticchiava Lisette. Mi riempivano delle loro cianfrusaglie, che custodivo con cura, nei nostri movimenti.

Case vere, poche. Spesso buchi o stanze sulle ruote. La transumanza – come la chiamavamo noi, i figli, dandoci nomi di greggi – era dovuta al lavoro dei miei genitori: due saltimbanchi un po’ fricchettoni. Ci tenevano che noi studiassimo: ambivano per noi strepitose carriere scientifiche.  Così, alternavamo momenti dove loro erano i nostri maestri, a mesi lunghissimi, che odiavamo, dove ci rinchiudevano in una stanza insieme ad altri venti marmocchi. Insopportabili. Ma poi nessuno di noi ha realizzato questo loro desiderio. Io sono diventata danzatrice, Lisette comica, Mimì chitarrista emigrato negli Stati Uniti e Renato presentatore cronista sportivo.

Appartengo da sempre al viaggio. Mia madre diceva che una casa non è fatta di mattoni, ma di persone. Quando ero piccolina mi rincorreva, mi acchiappava e insieme rotolavamo per terra. Era così fulminea nei gesti, che mi venivano le vertigini. Il brulichio nella pancia. E poi mi mordicchiava l’orecchio dicendo: «Ma puce, ta maison c’est moi!»[1] Quando sfinita, si sedeva, mi ripeteva ogni volta che in quel momento era così ma che poi nella vita si cambia. Oggi papà, mamma e i fratelli. Domani gli amici, chissà, poi si vedrà.

Sono nata errante. Senza rumori nelle orecchie per impormi doveri, obblighi, scuole (queste capitavano), catechismi e orari imposti. Mo padre è algerino e mia madre è stata ripudiata dalla famiglia perché si è innamorata di un arabo. Un arabo francese, ma che importa? Per i miei nonni era sempre un arabo. Per fortuna che siamo venuti via dalla Francia, almeno non ho la tentazione di andare a cercare i parenti serpenti e fargli vedere com’è bella la loro nipote figlia di un arabo. Perché bella sono bella. Siamo tutti belli. Riccioli e occhi neri per tutti, bocche a cuore per le femmine, labbra carnose e sensuali per Lisette e Mimì, sottili e serie quelle di Renato e le mie. Tutti alti, slanciati, corpi sinuosi e attraenti. Il successo nella vita di strada dei miei genitori era dovuto anche al loro aspetto fisico e noi avevamo mescolato al meglio le loro bellezze. Però eravamo arabi. E artisti di strada per di più. Quasi zingari.

            Son nata in un buco eretico in mezzo alle ortiche. Ho sradicato sedani e carote e calpestato il prato e i gelsomini. Con l’arte in casa si cresce liberi. Ho indossato l’arcobaleno, il cielo e le chiome dei faggi si litigavano le mie membra. Riuscivo a slanciarmi da un ramo a quell’altro con un’agilità fuorviante. D’altronde i miei pensieri lo erano, così come le mie fantasie, i miei giochi, i miei desideri.

            Oggi ripensando a quegli anni sento ancora l’adrenalina a galla. Tutto si risveglia. Il mio sentire identico. Dopo tutti questi anni, mi sono stratificata di vita, di ricordi. Peccato, però! Addosso ti restano solo le impressioni in memoria. Il vissuto si sfibra, si scioglie, si dissolve.

            «Papà, voglio volare più in alto di te e poi ricadere afferrandoti le mani»

«Lucie chérie! Proviamolo, allora, il nostro numero.»

Ore e ore di prove, di idee strampalate da realizzare. L’arte circense e lui: ero in paradiso. La sera, e tante altre sere di spettacolo, un vero successo. Lui sapeva davvero far credere a tutti che volassi, non era bravo solo con me, ma anche con gli altri. Era questo il suo segreto? Essere credibile? Fare sognare?

Papà Milou ne ha tanti di segreti. Più di maman Dedée. Lei condivide. Dice sempre tutto a tutti. Di segreto ha solo il male subito nella sua vita. Quello non lo racconta mai! Le sue parole ancora oggi sono mazzi di fiori, gorgoglii, profumi, brezza mattutina. Una narratrice del bello per eccellenza. Perché da grande mi sono fatta poi male? Cosa si era inceppato? Ero cresciuta con l’immagine materna della felicità e della gioia. Ecco perché. Niente si era inceppato. Solo che io, del dolore e delle bruttezze non conoscevo il vocabolario.

Poi papà sparì. Prigione. Niente più migrazioni. Senza di lui, la mamma si era come spenta. Non si faceva più pubblico. Da saltimbanchi siamo diventati mogi stanziali. Appartamento. Lavoro in fabbrica. Mai e poi mai tornare dai serpenti parenti. In quel periodo, le loro grida al telefono facevano piangere la mamma.

Frequentavo la seconda liceo. Iniziai con uno spinello. E poi il resto. L’eroina e le scopate facili per un buco in più. Overdose. Quasi morta. Salvata da un saltimbanco russo. Passava di lì.  E cantava la canzone della lumaca. Che diventa carciofo. Bel carciofo, io!

« Une souris verte / qui courait dans l’herbe/ on l’attrape par la queue/ on la montre è ces Messieurs / Ces Messieurs me disent trempez-la dans l’eau / ça fera un escargot tout chaud, mi chaud” ».[2] Me la cantava anche la mamma nei nostri giochi infantili. Poi, quando mi acchiappava, storpiava le parole, l’escargot[3] diventava artichaut[4]. Da lumaca diventavo carciofo e mi leccava le orecchie.  

            Adesso le parole non le storpia più, si mette i tailleur e lavora in ufficio. Aveva studiato lei. Non abitiamo più in un appartamento. Ma in campagna. È il grande giorno. Torna Milou. Dedée ci ha chiesto di non tormentarlo con le domande. A suo tempo ci avrebbe raccontato. Ci ha guardato negli occhi e ci ha detto: «accoglietelo come lui vi faceva volare nei giochi di strada.»

            Io e i miei fratelli siamo emozionati. Ci siamo tutti arrangiati. Lisette si fa ancora le canne, io fumo solo tabacco, dopo il russo lumaca, mi hanno lavato il cervello. La mamma mi ha protetta per fortuna e accolta nelle sue braccia maison[5]. Renato e Mimì hanno solo il kitesurf nel capo. Renato ha iniziato a parlare di sport in radio. Nella stessa radio dove Mimì fa il tecnico del suono per potersi pagare tutte le Gibson o Fender dei suoi sogni. Ma appena possono, volano al mare.

Ho un’audizione con Pippo del Bono fra una settimana. In realtà è un seminario di tre giorni. Cerca gli attori del suo prossimo spettacolo. Mi piacerebbe tanto esserci.

Quanti anni sono? Lisette li hai contati? No, e tu? Nemmeno? Mimì? Renato?

Scoppiamo a ridere. Siamo proprio incorreggibili. Senza senso del tempo o del dovere. Già, da veri artisti di strada. Decidiamo di mettere su un numero per papà. E che non andrò da sola da Pippo. La mamma? Siamo tutti elettrizzati all’idea. Cerchiamo di convincerla, ma lei dice che ha il corpo invecchiato. «Allora canta, mamma!» Ride. «La voce si è arricciata e stropiccia troppo le note che mi fanno il solletico in gola. Il risultato è un qua qua tipo papere rumoreggianti.» Ci mettiamo a imitare lo starnazzo d’anatre canterine, con l’idea che poteva far parte del prossimo numero del nostro circo ambulante. Beh, la mamma storse il naso, ma acconsentì, a patto di farlo fuori dal suo orario di lavoro che quello, per Dio, non l’avrebbe mai lasciato. Insomma disse sì al seminario con Pippo del Bono. E anche papà. Tornato con lo stesso sorriso, noi l’abbiamo accerchiato. Il nostro numero consisteva in un girotondo capriolato e gli starnazzi modulati. L’emozione ci ha trattenuti a lungo nel numero che abbiamo ripetuto, un’infinità di volte. Osando poi proporlo per strada e riscuotendo successo, lo abbiamo affinato e reso potente, capace di sfidare la selezione di Pippo.

«Raga’, stasera siamo noi quelli della prova generale aperta. Veniteci a vedere. Con Pippo certo. In teatro. Quello vero. Dove la strada entra, se emoziona! E la nostra, vi garantisco, è una bomba!

Il titolo? “Sono nata migrante”, è la storia della Cultura. Con la C maiuscola. Senza spostamenti, la cultura muore. Fra quattro mura, si scioglie e sparisce, la Cultura. Dirlo nei teatri è una sfida, certo. Ma… Pippo è un genio della regia. Del palcoscenico. Noi, la famiglia fricchettona, e gli altri attori, fra i quali ci sono anche un pappagallo, un cane e un gatto, beh, ce la caviamo! Chissà che dirà di noi la Critica con la C maiuscola».


[1] Tesoro, sono io la tua casa

[2] Un topolino verde / che correva nell’erba / lo si acchiappa per la coda / lo si mostra a quei signori / quei signori mi dicono “immergetelo nell’acqua. Avrete così una lumaca bella calda, bella tiepida”

[3] lumaca

[4] carciofo

[5] casa

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2 commenti »

  1. Ho un debole per questo genere di tematiche, mi hanno sempre affascinato, ciò non toglie che la storia mi è piaciuta moltissimo e mi ha centrato in pieno, come se avessi un bersaglio sulla fronte; l’ho vissuta mentre raccontavi.
    Brava anche perché hai steso tanti e tanti anni in poche righe.

  2. Grazie Nicola

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