Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “Otto” di Alberto Bassetto

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

«Non lo trovi perfetto?»

«Di Caprio? Ovvio!»

«No, stupida.»

Stava leggendo ancora uno di quei giornali di gossip dove i vip venivano fotografati a tradimento.

«Comunque quello non è Di Caprio. È uno che se lo è mangiato.»

Poggiai l’indice sulla pagina, picchiettando sull’addome non certo piatto. Lei guardò Di Caprio, poi guardò me. Infine si spostò sul mio di addome, dove la tartaruga si era voltata già da un po’ di anni.

«Scusa ma scelgo sempre Leo.»

«Bah, tu sei rimasta a Titanic.»

Mi fece il verso con una di quelle smorfie che mi facevano sempre ridere. Contrassi il volto per non darle soddisfazione. Durai cinque secondi, poi tornai a guardarla con quell’espressione a metà tra il pesce lesso e il drogato che avevo quando ci incontrammo la prima volta, dieci anni prima. Per cui lei non smetteva mai di sfottermi.

«Quando arriva?»

Era nervosa, lo vedevo dal modo in cui stropicciava la piega del lenzuolo.

«Tra poco.»

La baciai sulla fronte. Lei mi appoggiò la testa sulla spalla.

«Allora, cos’era perfetto?»

Un’infermiera passò veloce davanti alla porta. Teneva in mano una pila di cartelle cliniche. Troppe per le sue braccia. Di certo le sarebbero cadute prima o poi. La seguimmo con gli occhi, trattenendo il fiato.

«Questo.»

Indicai un’immagine sulla rivista che mi ero comprato: la foto di un quadro con due cerchi tangenti color nero seppia dipinti su una tela bianca.

«Un otto?»

«Ma no, non è un otto.»

Osservai l’immagine. Era proprio un otto.

«Perché, che ci avevi visto?»

Il rumore metallico di una decina di schede che cadevano a terra, seguita da una sonora imprecazione, riempì il silenzio seguito alla domanda. Ci pensai per un attimo, poi le risposi.

«Beh, c’è tutto. Simmetria, continuità, semplicità. Non cambia mai, è infinito. Perfetto.»

Le si alzò un sopracciglio. Non sembrava molto convinta.

Poco distante si aprì una porta. Sentii il suo corpo irrigidirsi, il collo allungarsi in quella direzione. Due giovani dottori uscirono ridendo, per poi allontanarsi. Le strinsi forte la mano, avvolgendola con l’altro braccio. Si abbandonò a me.

«Non cambia mai. Infinito.»

Lo ripeté, accarezzando l’immagine. Si sfiorò il naso due volte. Stava pensando a qualcosa di brutto, lo sapevo.

E io d’un tratto mi sentii un gran coglione.

«No, insomma. Intendevo in senso figurato.»

Ero sempre stato pessimo nell’improvvisare. Soprattutto quando mi accorgevo di aver detto una stupidaggine.

«Che poi, a chi frega dell’infinito. Non è neanche bello questo quadro. Sembra fatto da mio nipote.»

Dopo quella scena pietosa mi guardò seria. Poi si mise a ridere, carezzandomi una guancia. Mi baciò. Restammo stretti in silenzio, mi inebriai del suo calore.   

«Forse semplicemente non possiamo. Ci hai mai pensato?»

Tornò a poggiarsi sulla mia spalla. Non vide l’espressione di vergogna sul mio volto. Sì, ci pensavo ad ogni visita. Sembrava una lotteria: potevi puntare tutti i soldi che volevi, ma a vincere era sempre qualcun altro.    

«No.»

Rialzò la testa per guardarmi negli occhi. Speravo di averla convinta.

«Dovresti fare domanda per la CIA. Sai mentire benissimo.»

Nonostante cercasse di mostrarsi forte, vedevo con chiarezza sotto la sua maschera: una profonda tristezza. Dio solo sapeva quanto avrei preferito la sua rabbia al senso di pesantezza che mi avvolgeva ogni volta che la vedevo soffrire. In quei momenti volevo essere come uno dei protagonisti di quei film romantici in cui l’uomo sapeva sempre cosa dire e fare. Invece non dicevo nulla. Non facevo nulla. Restavo lì, stretto a lei. Forse in quello stava la differenza tra realtà e finzione.

La prima volta erano passate tredici settimane. Stavamo passeggiando per le vie del centro, lei non stava bene.

«Avrò mangiato qualcosa di strano» continuava a ripetersi, la fronte aggrottata e gli occhi puntati sul ventre, dove ancora non si vedeva nulla.

«Andiamo in ospedale?»

Lei scosse la testa.

«Non serve, davvero.»

La sera ci andammo. Era troppo tardi.

La seconda volta avevamo raggiunto le venti. Eravamo a casa, sul divano a guardare un film. Il bambino aveva smesso di muoversi da un po’.

«Starà dormendo.»

«Sì, starà dormendo. Da quanto non lo senti?»

«Da stamattina.»

Mi rassicurai.

«Voglio andare in ospedale.»

Percepii la sua ansia.

«Non serve, amore.»

Un cazzotto allo stomaco avrebbe fatto meno male del terrore con cui mi guardò.

Ci andammo. Era troppo tardi.

Quella mattina erano scadute le trentaquattro settimane. Eravamo usciti in giardino per godere del fresco che precedeva le ore centrali di quel Luglio infuocato. Ridevamo assieme del gatto zoppo che ogni giorno cercava invano di catturare una delle farfalle che volavano sopra i nostri fiori. Al nostro Fagiolo, così lo chiamavamo, piaceva sentirci ridere. Si metteva a calciare e finiva solo quando sua madre poggiava una mano sul ventre. Non quella volta.      

«Andiamo in ospedale.»

Non ci ponemmo neanche il problema, salimmo in macchina e corsi quanto più veloce potei. L’attesa fu breve, la visita anche. Anomalia alla placenta, parto indotto, epidurale. Un turbinio di parole che mi avvolse e mi accompagnò per le dodici ore successive.

«Allora, lo vogliamo far nascere?»

La dottoressa entrò in stanza a passo veloce, deciso. Come un coach di football, era seguita dal suo team: infermieri che circondarono il letto e si prepararono a scortarlo sul campo di gioco. Lei mi strinse forte la mano, negli occhi il terrore dell’ignoto. Io la tirai a me, quasi sollevandola dal letto, come se stesse a lei darmi forza. Questa volta però non si accorse dell’inganno. Lo sguardo che ci lanciammo, sapeva di speranza.

Il campo di gioco era illuminato da tanti soli artificiali. La squadra era tranquilla, solo le due nuove matricole tremavano impaurite. Le mie labbra sul suo orecchio, cercando coi sussurri di far scorrere il tempo più velocemente. La dottoressa era inchinata davanti a lei, pronta a ricevere la palla come un quarterback. Il center, dal lettino, aveva solo un compito: passarla. Il mio incarico era quello di non svenire per il dolore causato dal polso che mi aveva appena slogato per averlo stretto troppo forte. Ma in quel gioco ero una riserva, dovevo solo star zitto e supportare.

D’improvviso nella sala cominciò a risuonare un suono acuto, martellante. La tranquillità della squadra si spense, lasciando campo ad una agitazione controllata. Il coach dava ordini, il team li eseguiva. Lei perdeva conoscenza.

«Cesareo…portatelo via…»

La guardavo, ma era come se non fossi davvero lì. Tutto si fece più leggero ed estraneo. Sentivo che mi parlavano ma non li potevo capire. Nei miei occhi c’era solo lei, bianca e immobile. Senza accorgermene, mi trovai sbattuto in panchina. Fuori dal campo di gioco. Solo nel silenzio di un grigio corridoio, senza che lei lo potesse riempire. Camminai senza una meta, come un automa le mie gambe si muovevano scollegate dal cervello. Mi ritrovai di nuovo nella camera, Di Caprio era ancora in copertina a mostrare l’addome rilassato. Presi la mia rivista. L’aprii. Di nuovo quei cerchi.

«È un otto.»

Le sue parole risuonarono nella mia mente.

«È vero, è un cazzo di otto.»   

Sussurrai, tergendomi il sudore dalla fronte. Il fiato corto, la mano tremante. Panico.

«Simmetria, continuità, semplicità. Infinito.»

Cercai di concentrarmi ma ad ogni parola mi tornavano in mente i continui tentativi, le infinite sconfitte. Mi asciugai di nuovo il sudore. No, erano lacrime.

«Forse semplicemente non possiamo. Ci hai mai pensato?»

Di nuovo la sua voce. Il respiro cominciò a mancarmi. Gli occhi ricaddero sull’otto. Continuità, infinito.

«Fanculo.»

Mi alzai.

«Fanculo!»

Strappai la pagina.

«Basta!»

Guardai i due cerchi e li divisi con rabbia.

Alla porta comparve un’infermiera. Mi guardò spaesata. Una voragine si aprì sotto i miei piedi. In un istante rivissi gli ultimi dieci anni e fui sul punto di farmi inghiottire.

 Poi il suo sorriso innescò la miccia della speranza. Le sue labbra si aprirono a formare quattro semplici parole:

«È nato. Stanno bene.»

Scivolai a terra, come un gonfiabile a cui era stata tolta l’aria. La tensione di quegli attimi aveva spinto fuori dal corpo ogni spilla di energia. Eppure ridevo, piangevo, esultavo. Non so come mi ritrovai in piedi con l’infermiera tra le braccia. Un attimo dopo stavo correndo verso lei. Loro. Entrai accolto da un pianto assordante, Fagiolo stava in braccio a sua madre, protestando col mondo per averlo fatto uscire. Mi domandai come due polmoni così piccoli potessero produrre tanto rumore. Poi vidi il suo sorriso e non pensai più a nient’altro.

La partita era terminata. Questa volta, avevamo vinto noi.      

E fanculo all’infinito.   

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8 commenti »

  1. Stupendo! Complimenti

  2. Racconto attraversato da una tensione che si scioglie solo nel lieto fine della nascita di Fagiolo. A ben pensarci una nuova, piccolissima parte di quell’otto simbolo di continuità e infinito.

  3. Vi ringrazio per l’apprezzamento.

  4. L’emozione più viscerale e ancestrale raccontata con le parole di chi aspetta, teme e spera. Molto bello, complimenti.

  5. Molto bello, si percepisce la tensione fino alla fine. Ho trovato le frasi molto scorrevoli e molto coese, verbi azzeccatissimi, un plauso in più!
    PS Approvo anche l’uso di espressioni “volgari”, spesso sottovalutate.

  6. Grazie mille per i commenti.

  7. Molto bello, si legge senza inciampare, come i protagonisti che questa volta arrivano alla fine e vincono.

  8. Grazie Sonia. Fa piacere che il mio racconto sia ancora letto a distanza di un anno!

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