Premio Racconti nella Rete 2022 “La vertigine” di Grazia Palmieri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022L’amore ha sempre un nome e cognome. Per Andrea era Marco Serra. A essere onesti, era molto più probabile che se ne fosse voluta convincere, un po’ come quando da bambina s’era ostinata a credere a Babbo Natale, nonostante conoscesse a memoria tutti i nascondigli dei suoi regali.
Era seduta sulla scomoda poltroncina col cuscino in velluto nero e la spalliera in wengè scuro quando lo aveva visto la prima volta. No, non Marco. Lo sconosciuto per cui aveva perso la testa.
Era entrato, come un raggio di sole in una giornata invernale, nella saletta d’attesa – le cui pareti colorate le provocavano uno strano disagio (nulla a vedere con quello che avrebbe provato da quel momento in poi) – e s’era accomodato di fronte a lei.
Occhi verdi e riccioli biondi che spuntavano dal cappellino rosso da baseball, l’aveva guardata con tale intensità che, al solo pensarci, le faceva male lo stomaco e le saliva una sciocca ridarella.
Non era riuscita a fare a meno di ricambiarlo. Non s’era mai sentita bellissima. Aveva 21 anni, 58 chili, 1m e 65cm, il volto pieno di lentiggini e un accenno di vitiligine alla mano sinistra.
Andare dallo psicoterapeuta doveva aiutarla, invece aveva aggiunto un nuovo problema alla lista. Un problema di cui non conosceva neanche il nome.
Più cercava di tenere la testa bassa sullo schermo dell’Iphone, più le sue pupille facevano su e giù, la mano destra spostava continuamente i lunghi capelli neri e ricci mentre quella sinistra se ne stava nascosta nella tasca della giacca di pelle.
Il suo corpo era fuori controllo. Completamente. Non le era mai accaduto nulla di simile prima.
Lei e Marco stavano assieme da appena 4 mesi, ma pensava fosse quello giusto. Tanto più che nessuno spasimante prima aveva superato quella che Andrea chiamava la ‘Prova delle 3 P’, dove P stava per PULIZIA, PAOLA, PIPA.
Il timore d’essere lasciata per via di qualche particolarità di troppo (e qui centrava il trauma di aver scoperto che la vera madre l’aveva abbandonata appena nata sulle scale di una chiesa), la portava, appena conosciuto un ragazzo, a mostrargli il lato più bizzarro del suo carattere.
PULIZIA
Casa di Andrea era molto peggio di un museo. L’odore di alcol la invadeva penetrando nelle narici di chiunque varcasse la soglia. Pochi avevano avuto questo coraggio, a dire il vero. Molti, con ancora tra le mani fiori e vino, in un crescendo di colpi di tosse, erano fuggiti a gambe levate.
Dove non vinceva la puzza spesso poteva la simmetria. Tutto, dappertutto, era sistemato seguendo uno schema, finanche i bicchieri nello stipo in cucina.
Era proprio per quell’ossessione che Maria Ester, la sua migliore amica, l’aveva convinta a vedere un dottore.
PAOLA
La mamma adottiva di Andrea. 55 anni, portati male. La personificazione della cattiveria. Chiunque, suo malgrado, fosse stato costretto a trattenersi in una stanza con lei per più di cinque minuti, parlava di quel ghigno sul viso, tra il disgusto e il malcontento, che nemmeno tutto il fondotinta riusciva a camuffare.
Il suo divertimento principale consisteva nel trovare un difetto, anche impercettibile, nel suo interlocutore (da ammettere che era davvero brava), tormentandolo per l’intera serata.
Quel giochetto, forse, l’aiutava a tenere a bada la frustrazione per non essere diventata un’attrice e aver dovuto ripiegare su un lavoro d’ufficio che non la soddisfaceva. Ultimamente Andrea pensava che, forse, una chiacchierata col medico avrebbe giovato pure a lei.
PIPA
L’osso più duro si era dimostrato Matteo. Forse perché le faceva la corte dai tempi della scuola. Forse perché credeva d’essere per davvero innamorato. A metterlo k.o. era stata la pipa. Sì, perché Andrea amava fumarla mentre disegnava seduta sul divano. Il tema di quei disegni è, poi, tutt’altra storia. Poverino, doveva essere stato davvero troppo.
Alla fine, era arrivato Marco. Già solo aver superato le tre prove lo aveva elevato al rango di ‘uomo da sposare’.
E allora perché aveva iniziato a flirtare con quello sconosciuto? Perché rideva davanti allo specchio mentre si preparava per andare dal medico? Era davvero possibile provare felicità per un pensiero o stava diventando definitamente matta? In fondo non conosceva nemmeno il nome di quel ragazzo. Era disposta a mettere tutto in discussione per qualcuno che, magari, era pure più svitato di lei?
Nemmeno al primo appuntamento con Marco s’era sentita così. Quell’idea l’aveva sfiorata mentre era intenta a stendere sulle labbra il gloss trasparente. Le risposte alle sue domande le aveva davanti, c’erano sempre state, ma Andrea aveva preferito ignorarle e non pensarci affatto.
La paura di rompere lo strano equilibrio che s’era creato nelle sue giornate la terrorizzava. Cosa non tanto strana, in fondo, per una come lei, avvezza a tenere tutto controllo. Pure le emozioni.
Marco aveva finalmente portato nella sua vita una ventata di tranquillità. Eh sì, per questo gli si era tanto affezionata. Era entrato in punta di piedi senza che lei dovesse concedergli, in fondo, molto spazio e s’era accomodato in un angolino. Trascorrevano ore a chiacchierare, a scambiarsi pensieri sull’ultima serie tv o sul libro che avevano appena terminato di leggere. Due passioni che li univano. Ma potevano davvero bastare per sempre? Era quello l’amore? Quello con la A maiuscola? Andrea era diventata abilissima a ricacciare via velocemente quelle strane domande.
Marco era perfetto per lei. Sapeva riconoscere i suoi momenti no, quando era meglio lasciarla sola, quando tirarla su di morale. Di tanto in tanto riusciva a strapparle pure un sorriso nelle giornate storte.
Cosa poteva desiderare di più da un ragazzo? Sì, insomma, cosa? Sapeva bene che la vita non è un film rosa o un romanzo Harmony in cui i protagonisti si lasciano andare a baci sdolcinati e si guardano con gli occhi a cuoricino. Lei aveva bisogno di stabilità. E poi, dove sarebbe riuscita a trovare un altro uomo che avrebbe imparato così velocemente la giusta quantità di alcol da versare nella scopa a vapore?
Finito di stendere il gloss Andrea era passata a sistemarsi i capelli. Un tuono fortissimo l’aveva fatta sobbalzare come quella sera di un mese prima quando era in casa con Marco. Ricordava esattamente la sensazione di disagio e il desiderio di sparire.
«Non è il caso che guidi con questo tempaccio. Puoi restare qui se vuoi.»
Quelle parole le aveva pronunciate con tale naturalezza, come molte volte quando da adolescenti lei e Maria Ester improvvisavano un pigiama party all’ultimo momento. Ma non appena la sua bocca aveva permesso all’ultima sillaba di uscir di lì avrebbe voluto riavvolgere il nastro. Ancor più quando aveva notato l’espressione sul viso di Marco.
«E se fosse sempre così?»
«Così cosa?»
«Non fare la finta tonta. Tutte le sere potremmo addormentarci insieme e insieme iniziare una nuova giornata. Sarebbe bello, vero?»
Andrea era rimasta zitta con gli occhi spalancati e un’espressione inebetita. Dopo 30 secondi, era scoppiata a ridere, di un riso tra l’isterico e il divertito. Se qualcuno dei due avesse avuto un super-udito avrebbe avvertito uno scricchiolio, se qualcuno dei due avesse avuto una super-vista avrebbe notato la crepa nascosta sul vaso, ma nessuno dei due aveva superpoteri. Avevano semplicemente cambiato discorso, con la velocità con cui facevano zapping alla tv. Alla fine della serata Marco aveva affrontato il temporale ed era tornato a casa sua.
Oggi Andrea, guardandosi riflessa allo specchio, mentre fuori continuava a piovere, non si riconosceva. Non sapeva dove l’avrebbe portata ciò che stava per fare. Ma sapeva che voleva assolutamente farlo.
Senza preparare strani discorsi che sarebbero volati come uccelli in fuga non appena aperta la gabbia. Voleva essere naturale, il più possibile, priva di qualsiasi specie di razionalità. Come questa situazione, dopotutto.
La sedia di fronte a lei, nella sala d’attesa, però, quel giorno rimase vuota. Così nelle tre settimane successive. Perché?
Come in un flipper impazzito i pensieri iniziarono a rimbalzarle nella testa. Per strada, sull’autobus, al supermercato, a casa, a letto quando, neppure con luce accesa, riusciva più ad addormentarsi.
«Dottore, devo farle una domanda che le potrà sembrare un po’ strana.» Era lei a parlare, per davvero. Stavolta il discorso lo aveva preparato da giorni, ma si interrompeva sempre dopo la prima sillaba.
«Mi dica Andrea, la ascolto.»
«Sì, insomma. Si ricorda quel ragazzo che aveva sempre appuntamento prima di me? Quello col cappellino rosso, per intenderci. È un po’ che non lo vedo. Sta bene?»
Il medico sollevò la testa e sorrise. Andrea stava per perdere il controllo.
S’alzò e, rossa per la vergogna e la rabbia, fece per andar via.
«Suvvia, non se la prenda se ho riso. Non era mia intenzione offenderla. Soltanto che Francesco non è un mio paziente. È mio figlio.»
Dinanzi a quella scoperta il viso di Andrea passò dal rosso al bordeaux. Si sentiva un personaggio di un fumetto a cui mancava solo che il fumo uscisse dalle orecchie.
Chiuse gli occhi. Pregò fosse un sogno. Quando li riaprì il medico era ancora lì. La osservava divertito porgendole qualcosa.
«Tenga, questo è il suo numero. Lo chiami. Negli ultimi tre mesi è venuto qui, sempre lo stesso giorno e alla stessa ora, solo per incontrare lei.»
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Molto intenso, bello