Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2022 “L’ultimo inverno” di Elena Passoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Laura fece scattare la porta a vetri dell’uscita di sicurezza, che si spalancò sul terrazzo fermandosi di colpo sulle mattonelle sconnesse. Bisognava sempre fare attenzione, il maniglione aveva un difetto, prima o poi si sarebbe rotto. Anche questa resistenza iniziale della porta e lo scatto con cui si apriva subito dopo facevano parte del rituale di ogni giorno, oramai ne conosceva a memoria ogni secondo. E come ogni giorno, appena uscita sulla terrazza fece un lunghissimo respiro e si massaggiò le tempie con le mani.

La prima volta che aveva scoperto quel posto faceva caldo, il sole di settembre era ancora alto alla fine dell’orario di visita e la Breva che soffiava sul lago le sfiorava il viso rinfrescandola piacevolmente. Ci era arrivata per caso, dopo aver sbagliato strada cercando l’uscita in un giorno maledetto da una sentenza inappellabile. Non sopportava l’odore acre che si insinuava nelle narici, di disinfettante misto a fumo, di tappezzeria vecchia di anni, di minestrone che cuoceva nel pentolone e di caffè finto delle macchinette, e si era avviata di corsa verso l’uscita perché non vedeva l’ora di poter respirare dopo aver tenuto il fiato per un tempo infinito mentre ascoltava le parole del dottore. Solo che qualcuno prima di lei aveva già schiacciato il bottone dell’ascensore e invece che al piano terra dove era inizialmente diretta, si era trovata all’ultimo piano, davanti a quel finestrone che aveva spalancato di getto, facendo per la prima volta conoscenza con quello splendido panorama che le aveva tolto il fiato da subito, di una bellezza che faceva a pugni con il mostro che le stava mangiando il cuore in quel momento.

Quel giorno invece, molti mesi dopo, il vento le sferzava il volto invece di accarezzarglielo e si era dovuta sistemare la sciarpa intorno al collo fino a coprire il mento, dopo essersi allacciata la giacca fino all’ultimo bottone. Il contorno delle montagne a quell’ora sembrava disegnato da un’artista su una tela blu scura come la sera che era appena calata e come sempre, subito dopo il tramonto, la superficie del lago era increspata da piccole onde. Pur amando profondamente il lago, le onde in quel momento le facevano venire voglia di mare, di essere lontana mille chilometri da lì, da quella realtà che ancora faceva fatica ad accettare. A ventidue anni a quell’ora ci si prepara per uscire con gli amici, si torna dalla palestra, al massimo si studia nella propria camera ascoltando musica. E, soprattutto, quando si saluta il proprio fratello gemello, lo si lascia nella sua camera che gioca ai videogames, o appena uscito dalla doccia dopo l’allenamento. Non nella stanza di un ospedale. Non sotto lenzuola grigiastre e sfilacciate che coprono a fatica grappoli di tubicini, non con il comodino pieno di cartoline e foto di amici che non riconosce e non con il suono monotono dei monitor come unica colonna sonora.

“Non supererà l’inverno.”

Quella frase le si era infilata sotto la pelle, le era entrata in circolo come veleno quando quel giorno di settembre il medico l’aveva pronunciata davanti a lei e i suoi genitori, che, da quel momento, avevano smesso di vivere. Esistevano, certo. Si alzavano, si vestivano e venivano ogni giorno a trovarlo, gli raccontavano aneddoti del loro quotidiano, gli portavano i saluti dei vicini di casa e dei compagni di squadra. E lui fissava il vuoto, le rarissime volte in cui le palpebre non erano ostinatamente abbassate. La mamma portava un pigiama stirato con cura ogni due giorni e mentre snocciolava commenti sulle notizie sentite al telegiornale, gli spalmava quintali di crema Nivea sulla pelle secca di mani e piedi. Il papà, che non era mai stato di molte parole, si limitava ad annaffiare le piantine sul davanzale e a raddrizzare i quadretti e il crocifisso con l’ulivo secco di almeno tre anni prima. Poi, dopo avergli rimboccato le coperte, lo baciavano entrambi sulla fronte e se ne andavano lentamente prima che facesse buio, perché la strada fino a casa era brutta e stretta e l’acqua che colava nelle vecchie gallerie sul lago di sera ghiacciava e diventava pericolosa.

Laura invece restava lì ancora un po’, preferiva tornare in treno più tardi. Aveva fisicamente bisogno della solitudine di quei dieci minuti a passo svelto che servivano per raggiungere la stazione di Bellano. Si toglieva le scarpe e si sedeva in fondo al letto, stropicciando le lenzuola che la mamma aveva appena sistemato. Gli leggeva ancora qualche pagina del loro libro preferito, “Il prigioniero di Azkaban”, che portava sempre in borsa e oramai era tutto consumato. A volte invece lo aggiornava sulle statistiche del Fantacalcio e gli appoggiava l’auricolare sul cuscino, per fargli sentire la sua canzone preferita. Poi gli accarezzava la mano che profumava di crema, gli sistemava i capelli e, senza guardare il crocifisso con il quale era momentaneamente molto, molto arrabbiata, gli mandava un bacio da lontano e si girava con gli occhi velati dalle lacrime.

Sul terrazzo, come ogni sera, cercava invano nel lago la forza per arrivare preparata a perdere la sua metà. Spingere quel maniglione difettoso la catapultava nell’unico luogo in cui era costretta a vedere i giorni che passavano. Poteva fare finta tutto il giorno che niente cambiasse, ma arrivata lì doveva per forza fare i conti con la realtà. Da lì aveva visto le foglie degli alberi del giardino prima cambiare colore e poi cadere lentamente, insieme alle sue speranze. La mamma continuava a ripetere che magari i miracoli succedono davvero, lo aveva letto tante volte, il papà che magari i dottori si sbagliavano e comunque la scienza faceva passi da gigante e quindi non si sa mai. Lei li ascoltava e annuiva, osservando le loro schiene incurvarsi e le loro rughe diventare più profonde ogni giorno. Ma lei lo sapeva che non era possibile.

Lo sapeva, perché suo fratello era uno preciso. Era lei la ribelle, quella che non ascoltava mai, ma lui era uno ligio alle regole, non attraversava nemmeno la strada fuori dalle strisce. E se aveva sentito la maledetta frase del dottore, quella sera di settembre, allora avrebbe di sicuro obbedito. E lei lo odiava questo cazzo di inverno che non le avrebbe restituito la sua ombra, la sua copia, la sua ragione di vita. E dal terrazzo osservava con terrore la neve sulle montagne in fondo alla valle, sentiva nella pelle ogni grado in meno della temperatura. Non voleva nemmeno togliere il giaccone dall’armadio, non voleva mettere gli stivali quell’anno. Ma poi, arrabbiatissima, si era arresa, anche perché non voleva ammalarsi e rischiare di perdere anche solo uno di quei preziosissimi e maledetti ultimi giorni con lui.

“Non supererà l’inverno”

E come una lama nel cuore tornava la visione di loro due da piccoli, i pupazzi di neve con la carota al posto del naso, i piccoli doposci uguali ad asciugare sotto il calorifero, la pastina la domenica sera, la cioccolata con la panna. Le partite, le maratone di serie TV sotto al plaid con le Gocciole e il bicchiere di latte, ma anche le litigate, i dispetti e i silenzi. Le sarebbero mancate anche le porte sbattute e le bugie, ma soprattutto il loro modo unico di volersi bene, soli contro il mondo.

Lei e i suoi genitori avevano passato il Natale di quell’anno in apnea, fingendo di gradire le visite, i regali e gli addobbi obsoleti di quell’ospedale terrificante, che aveva l’unico pregio di trovarsi in una posizione meravigliosa. Chissà, forse chi l’aveva progettato aveva immaginato che la bellezza incredibile che lo circondava avrebbe in qualche modo compensato il dolore di chi si trovava all’interno di quell’obbrobrio architettonico.

Poi, i mesi freddi che passavano, le pagine del calendario che giravano troppo velocemente. Ogni giorno un dono, ogni giorno un piccolo passo verso il buio.

Quella sera il vento freddo le sferzava il viso, ma adesso poteva sopportarlo ancora per tanto, adesso non voleva finisse più quel freddo che aveva tanto temuto. Dal lago, un movimento nel cielo attirò la sua attenzione nella penombra di quel tramonto dipinto. Laura strizzò gli occhi e dopo qualche istante mise a fuoco con terrore quel piccolo puntino che si avvicinava. Non era preparata a quello che avrebbe provocato nel suo cuore quella visione, a sentirlo andare in mille pezzi.

Scoppiò a piangere disperata e si lasciò scivolare a terra, appoggiata alla ringhiera del terrazzo. La prima rondine si era posata sotto la grondaia e aveva iniziato a costruire il suo nido.

L’ultimo inverno, adesso, stava davvero per finire.

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6 commenti »

  1. Bellissimo e terribilmente reale. Fa percepire molto bene un dolore che non può essere descritto a parole.

  2. Racconto potente, che con immagini di vita quotidiana mostra il dolore della definitiva separazione da una persona cara. Delicata e poetica, nella sua tragicità, l’immagine finale. Complimenti.

  3. Un buon racconto davvero, da ripulire di qualche ripetizione, aggettivo, o avverbio, ma potente e sensibile. Brava!

  4. Straziante bellezza, tocca ogni essere umano e lo fa con poesia.

  5. Mi ha emozionato la “verità” di questo dolore che nessuno vorrebbe mai provare. La forza delle parole e la semplicità quasi poetica rendono questo racconto potente.

  6. Il tempo che scorre ce lo ricordano le stagioni, quel passo lento e inesorabile che si esprime nel mutare del paesaggio, dei colori e dei suoni, del freddo e del caldo. In questo caso l’arrivo dell’inverno sancirà una sentenza capitale. Intanto il fluire dei momenti rinnova i ricordi. Quali più potenti dell’infanzia con un fratello speciale, un gemello? Questo regalo magico della natura che determina una vicinanza speciale, unica, incancellabile. Che contiene in sé la predizione di tanto amore e quindi di altrettanto dolore.

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